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Oggi, festa della Conversione di San Paolo, ricorrere il 40° anniversario dalla pubblicazione del nuovo Codice di Diritto canonico, avvenuta durante il Pontificato di Giovanni Paolo II, al quale opportunamente è attribuito il titolo di Magno.

Per l’occasione pubblichiamo di seguito un estratto della conferenza Fede e diritto, tenuta dal Beato Rosario Livatino a Canicattì, presso le suore vocazioniste, il 30 aprile 1986. Livatino spiega l’importanza del Diritto canonico per la vita della Chiesa. Si tratta di una questione spesso trascurata, che deve essere invece oggetto della massima attenzione, sempre, ma ancor più in una “società liquida” come la nostra. Il brano è tratto dal sito Internet della Arcidiocesi di Agrigento, nella sezione dedicata al Beato Livatino (https://www.diocesiag.it/rosario-livatino-home/).

Il diritto quale strumento organizzatore della vita della Chiesa: il codice di diritto canonico.

(estratto da Fede e diritto)

Perché, ci si può chiedere, sono necessarie norme giuridiche appartenenti ad un ordine autonomo, per disciplinare la vita della Chiesa? Non vi è contrasto tra sommi principi della carità necessariamente soggettiva ed oggettività di una norma di diritto? I precetti dell’amore e del perdono non bastano a regolamentare la vita di coloro che credono in Cristo? Il messaggio evangelico non sì inaridisce se gettato nelle forme, per loro natura rigide, del diritto? È veramente conforme al mistero della Chiesa di Cristo la presenza di un ordinamento che poggia per antica tradizione sulla ragione naturale, oltre che sui precetti divini? In breve, il diritto canonico: perché?

È noto come da questi interrogativi sia partita nel sec. XVI la riforma protestante. Essa non si limitò all’aspra critica del commercio delle indulgenze, ma investì pure la presenza e necessità della legge canonica esterna, basata sulla ragione naturale oltre che sui precetti divini e che, perciò, appariva tanto contrastante con lo slancio di fede, del tutto interiore, da indurre Lutero a definire il diritto canonico «opera di Satana» e i canonisti «cattivi cristiani». Questa visione poggiava sulla convinzione che non potesse esistere norma giuridica di derivazione naturale o divina dal momento che non esisteva la possibilità stessa di una giustizia divina: vero diritto deve essere considerato, secondo Lutero, solo quello dello Stato, necessariamente coincidente con la forza e la violenza, poiché solo forza e violenza erano – a suo avviso – in grado di porre rimedio alla natura, corrotta dal peccato. Esasperando il pensiero agostiniano, cioè, Lutero vide il diritto solo quale frutto della volontà di potenza, anche arbitraria, del legislatore, a prescindere da esigenze di razionalità intrinseca: l’antinomia tra carità e diritto non poteva allora non essere insuperabile.

D’altro canto, un ordinamento come quello canonico, fondato su premesse di diritto divino oggettivo e di libera razionalità, non poteva non apparirgli altro che detestabile; quasi che esso volesse ingannare proditoriamente l’uomo circa la possibilità (da lui radicalmente negata) di raggiungere, anche con le proprie forze naturali, la libertà della grazia. Fu quella una contestazione del diritto canonico che si risolse, in definitiva, nella critica aspra a un modello di uomo, già celebrato dall’umanesimo di Erasmo da Rotterdam, come capace di trovare nella propria ragione naturale e nella propria libertà gli stimoli alla vita consociata: modello che la controriforma avrebbe continuato ad avere a punto di riferimento, così come tutto il pensiero cattolico posteriore, compreso quello moderno. Ma non si pensi che queste contestazioni siano solo un ricordo del passato: tutt’oggi vi sono frange dissenzienti in seno alla stessa società religiosa quanto alla necessità di un diritto canonico.

Sia negli anni del Concilio che in quelli del dopo-Concilio, più di una corrente ecclesiale ha proposto un impianto di pensiero sostanzialmente negatore dell’opportunità, almeno, se non della legittimità, di un diritto canonico. Si va da una forma di ascetismo intellettuale, propria alla più parte dei cosiddetti cattolici del dissenso, che porta a contestare vari aspetti della vita individuale umana ed associata – e tra essi pure il fondamento razionale del diritto canonico – a concezioni spiritualistiche, che vorrebbero trasformare ogni annuncio religioso, e perciò anche il messaggio evangelico, in qualcosa di simile al rigore dei dervisci o alla negazione del mondo propria dei guru, opponendosi perciò a tutto ciò che attiene ad aspetti socialmente rilevanti, per giungere alfine sulla spiaggia estremistica dei così detti «cristiani rivoluzionari», i quali interpretano l’insegnamento del Vangelo come una catapulta con la quale abbattere, per trasformarla profondamente, la società.

In definitiva, il filo comune che lega la lotta contro il diritto canonico, oggi come ieri, è il ripudio della Chiesa come istituzione. Ed è precisamente qui il punto di incrocio delle critiche recenti con molti motivi di fondo della disperata teologia luterana. A queste posizioni la Chiesa come risponde? Vediamo anche qui una voce del passato e l’atteggiamento contemporaneo. Per il passato, quale conforto più autorevole di quello di S. Tommaso? L’Aquinate così insegna (v. in particolare il De regimine principum): l’uomo come singolo non può conseguire la propria perfezione; questa perfezione può essere infatti conseguita soltanto instaurando relazioni con altri uomini e una mutua cooperazione che renda possibile l’acquisizione di quei beni fisici e spirituali che l’uomo isolato non sarebbe mai capace di acquisire.

La società è dunque lo stato naturale dell’uomo; come tale è voluta da Dio. Ma dovunque esistono forme associative, esiste anche una autorità di governo che ha come scopo il coordinamento delle attività dei singoli, svolte in vista del fine; il bene. L’ordinato svolgimento di queste attività e la loro unificazione esigono altresì un ordinamento legale e la presenza stabile di persone investite di autorità che ne impongano il rispetto. Soltanto organizzazioni sociali di una certa dimensione possono conseguire con sufficienza di mezzi il bene comune.

Tipica è la città, che raccoglie nel suo seno le comunità inferiori (famiglie, villaggi, etc.). Questo concetto di città, come comunità che possiede tutti i mezzi necessari per il «bene vivere», è applicato analogicamente dall’Aquinate alla Chiesa, la quale, a motivo di tali note distintive, appare dunque come società perfetta che ha in sé sia il fine che i mezzi necessari per raggiungerlo. Il che significa che l’equazione «Ecclesia – Bonum commune» ricalca, in termini di massima sublimazione, il parallelo che si instaura tra la peculiarità terrena di una realtà comunitaria, munita di quanto è indispensabile per conseguire gli obiettivi sommi cui è proiettata, e la compenetrazione tra l’azione ed i fini stessi che la nobilitano e la trascendono. Ma l’Aquinate non si ferma qui; egli dà anche contezza della struttura verticistica della Chiesa spiegando che, poiché il fine della Chiesa è quello di procurare la salvezza spirituale dei sudditi per mezzo della trasmissione di origine divina e l’amministrazione dei sacramenti, la forma monarchica è necessitata dall’imperativo di conservare l’unità della Chiesa nella vera dottrina.

La conservazione dell’unità comporta tanto l’esigenza di trasmettere incorrotto il deposito della fede quanto quella di predisporre i mezzi necessari per impedire la sua adulterazione. Questa è la funzione della gerarchia e quindi, a maggior ragione, del capo divinamente istituito di questa gerarchia, il papa. La duplice funzione, positiva e negativa del Papa, comprende sia la funzione pastorale che quella magisteriale. Il Papa deve conservare dunque l’unità di fede e disciplina all’interno della Chiesa. In sintesi, nel pensiero di S. Tommaso l’ordinamento giuridico ecclesiale non costituisce fine in se stesso, ma è mezzo subordinato al fine primario della Chiesa: la gloria di Dio e la salus animarum. Ma la natura di mezzo dell’ordinamento canonico non toglie che, come tale, esso sia costitutivo ed ineliminabile per l’esistenza storica della Chiesa. Se, poi, il diritto è mezzo per l’esistenza storica della Chiesa, il Primato (il soglio di Pietro) e, in genere, la gerarchia ecclesiastica, sono i luoghi in cui questo mezzo può essere usato legittimamente per l’organizzazione responsabile e lo sviluppo esaltante della comunità credente.

E veniamo ora all’atteggiamento della Chiesa contemporanea; essa ha ribadito pure nel Concilio Ecumenico Vaticano II (costituzione Lumen Gentium, 8) la legittimità di una società giuridica al suo interno, costituita quale organizzazione visibile (Chiesa visibile) e retta da norme autonome da quelle dello Stato; società giuridica non meno importante di quella Chiesa invisibile che è data dal Corpo Mistico e che agli occhi dei luterani è l’unica vera Chiesa. Il diritto canonico viene proposto come diritto che realizza un’esigenza fondamentale dell’uomo, quella della giustizia, elevandola dal piano naturale a quello soprannaturale. Come l’uomo compiuto non può fare a meno del diritto, come non può fare a meno del pensiero, dell’arte, della poesia, della vita quotidiana, realtà tutte sussunte dalla Chiesa dal piano naturale a quello soprannaturale, così pure l’esigenza di una giustizia viene sussunta sul piano soprannaturale grazie ad un sistema di norme di origine e carattere soprannaturale, ma che, rimanendo pur sempre norme di diritto, per molte parti possono apparire analoghe al diritto umano e terreno.

Appunto in questa linea si pone la costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, emanata per la promulgazione del nuovo Codex Iuris Canonici. Essa precisa che la nuova legge certamente non ha come scopo di sostituire la fede, la grazia ed i carismi, ma di assicurare ordine sia nella vita individuale e sociale, sia nella attività stessa della Chiesa. E conclude che proprio perché la Chiesa è organizzata come una compagine sociale e visibile, ha bisogno di norme; anzitutto per rendere visibile la sua struttura gerarchica ed organica, inoltre per organizzare adeguatamente l’esercizio delle funzioni divinamente affidatele (specie quelle della Sacra Potestà e dei Sacramenti), nonché per regolare, secondo una giustizia basata sulla carità, le relazioni fra i fedeli ed infine perché le iniziative comuni, prese per una vita cristiana sempre più perfetta, vengano sostenute, rafforzate e promosse grazie alle norme canoniche.

Su queste premesse, che bene sono emerse in due importanti congressi tenutisi sul nuovo Codex in Parma il 15 e 16 aprile 1983 e, a livello ancora più alto, dal 19 al 26 agosto 1984 presso l’università di Saint Paul ad Ottawa, in Canada (si richiama particolarmente la relazione dell’insigne studioso della materia, il prof. Eugenio Corecco dell’Università di Friburgo), è stata curata l’emanazione della nuova codificazione. L’evento che ha fatto apparire necessaria una vera e propria codificazione, che superasse di gran lunga il progetto di S.S. Giovanni XXIII di un semplice aggiornamento, è stata la ristrutturazione costituzionale provocata dal Vaticano Il, che ha spostato il centro di gravità, collocato unilateralmente nella Chiesa universale, verso la Chiesa particolare; come il Codex del 1917 venne elaborato a seguito dei voti formulati da quella fondamentale assise che fu il Concilio Vaticano I, così la celebrazione del Vaticano II, con tutto l’insieme delle nuove linee di pensiero e di azione rivolte dalla Chiesa al mondo contemporaneo, ha fornito lo stimolo per la revisione del vecchio Codex. In ordine al sistema giuridico adottato, la codificazione appunto, va detto che la Chiesa cattolica ha continuato a riporre fiducia in esso, considerandolo tuttora il modo migliore per disciplinare ogni settore giuridico a garanzia reale dell’attuazione di un disegno di riforma armonicamente coerente.

Già questo impegno di metodo va sottolineato come estremamente positivo. È certamente un esempio di serietà e persino di coraggio, se lo si confronta con quell’eccesso di legislazione scoordinata che è purtroppo tipico dell’attività di molte assemblee legislative che hanno ormai abbandonato il principio di coerenza dell’ordinamento per soddisfare esigenze di mero equilibrio partitico, anche a costo di introdurre (come talvolta è avvenuto in Italia) leggi oscure, contraddittorie, accidentali e persino ad personam, nella convinzione rassegnata che sia ormai impossibile e forse inutile coordinare le leggi statali non solo in un codice, ma neppure in un testo unico.

Si potrebbe obiettare che un piano organico di riforma può più facilmente essere perseguito in un ordinamento come quello canonico a struttura piramidale, confluente nell’autorità di una sola persona – il Pontefice – supremo e tendenzialmente unico legislatore per la Chiesa; è più difficile, invece, nei sistemi parlamentari dove il prezzo da pagare alla democrazia è proprio il rischio di avere leggi poco coordinate. Ciò è vero: ma sarebbe inesatto ricavarne l’impressione che la legge canonica nuova sia stata data con un atto autoritario proveniente dall’alto, fuori da un confronto dialettico di idee e di possibili soluzioni. Lungi dall’essere frutto di una volontà imperscrutabile, il nuovo Codex appare, già dai suoi lavori preparatori, frutto di uno spirito squisitamente collegiale, pervaso dal desiderio di comprendere – prima di imporre dall’alto una nuova disciplina – esigenze o desideri legati a specifici popoli, desiderio che ha trovato ampia attuazione nella complessità del procedimento di legiferazione.

Il testo del progetto (o schema), prima di diventare definitivo, è stato infatti spedito agli organismi più vari: dai dicasteri romani alle università cattoliche di tutto il mondo, alle conferenze episcopali dei vari paesi, ai tribunali ecclesiastici, ad associazioni o ad esperti particolarmente qualificati. Le osservazioni che ne sono derivate, vagliate ed ordinate da un elaboratore elettronico, sono state sottoposte all’esame del competente coetus, riunito per l’occasione in una forma ristretta (coetus parvus) e limitato ai tecnici del diritto. Ne è nato uno «Schema» definitivo sottoposto poi (anche per le necessarie connessioni teologiche e dogmatiche) all’adunanza plenaria dei cardinali che vi hanno portato varie modifiche. Soltanto a seguito del compimento di questo complesso iter (durato vent’anni a fronte dei soli dodici anni di preparazione del vecchio testo) il nuovo Codex è giunto definitivamente, come si suol dire, sul «sacro tavolo» del pontefice ed è stato promulgato il 25-1-1983. Dopo una vacatio legis – che si è voluta particolarmente lunga al fine di dare a tutti i fedeli la possibilità concreta di informarsi e di conoscere a fondo le nuove disposizioni – esso è entrato definitivamente in vigore il primo giorno di Avvento del 1983.

Beato Rosario Livatino

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