Diventa oramai sempre più difficile enumerare i provvedimenti che da circa due mesi il governo Conte ha adottato per fronteggiare la gravissima emergenza da COVID-19. Sono numerosi infatti i decreti del Presidente del Consiglio che hanno imposto alle libertà dei cittadini – prima tra tutte, quella di circolazione – misure restrittive che non hanno precedenti nella storia repubblicana. Si tratta di atti normativi di rango secondario che inizialmente si sono radicati sul d.l. 23 febbraio 2020 n. 6 che, al fine di attuare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (art. 1), ha previsto l’emanazione di “uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri” (art. 3). Tra questi si collocano i d.P.C.M. 8, 9, 11 e 22 marzo 2020, miranti – attraverso un divieto penalmente presidiato – a evitare temporaneamente “ogni spostamento delle persone fisiche”, salvo che per “comprovate esigenze lavorative”, “situazioni di necessità”, ovvero “motivi di salute”, da giustificare tramite autodichiarazione.
I d.P.C.M. in questione contengono una serie di limitazioni impattanti negli ambiti lavorativo, scolastico, culturale, ludico-sportivo, religioso, sanitario, che incidono su tutti i rapporti civili, etico-sociali, economici e politici, comportando di fatto una sospensione delle libertà costituzionali in nome dell’emergenza. Quest’ultima, come osservava Santi Romano riprendendo un principio già noto alla tradizione romanistica, in situazioni di necessità costituisce la “fonte prima ed originaria di tutto quanto il diritto, in modo che rispetto a essa, le altre sono da considerarsi in certo modo derivate” (S. Romano, Sui decreti legge e lo stato d’assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio-Calabria, in Riv. dir. pubbl., n. 1/1909, p. 260).
Con il d.l. 25 marzo 2020 n. 19 il governo ha poi abrogato il d.l. n. 6 del 2020, elencando (con maggiore puntualità rispetto a quest’ultimo) le misure restrittive delle libertà individuali che i successivi d.P.C.M. potranno disciplinare e, al contempo, fornendo copertura agli atti secondari fino a questo momento adottati.
Ciò premesso, ci si chiede se lo strumento del decreto legge sia sufficiente a fungere da delega in bianco idonea a consentire al capo del governo di adottare atti di normazione secondaria in deroga alla legge, senza passare per il controllo del Parlamento (che, invero, non è stato coinvolto nemmeno nella fase di dichiarazione dello stato di emergenza). Sebbene sia opportuno che, in virtù delle riserve di legge contenute nella Costituzione, la limitazione delle libertà passi sempre da una fonte primaria, la risposta può essere affermativa, ove si leggano i d.P.C.M. adottati – al di là della loro veste formale – alla stregua dei provvedimenti di cui al Codice di protezione civile (il d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1). Quest’ultimo, nei casi – come quello di specie – di “deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale” (art. 24), autorizza l’adozione di ordinanze di protezione civile, “in deroga ad ogni disposizione vigente” (art. 25); senza tra l’altro dimenticare che lo stesso Presidente del Consiglio “detiene i poteri di ordinanza in materia di protezione civile” (art. 5). Del resto, l’art. 2 dell’abrogato d.l. n. 6 del 2020, nella parte in cui disponeva che “le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza”, consentiva di rinviare a ulteriori competenze, previste altrove.
Quanto poi all’adozione di misure che influiscono sul movimento della popolazione, il giudice delle leggi in diverse occasioni ha ammesso tale possibilità, dato che siffatte limitazioni possono trovare giustificazione “in funzione di altri interessi pubblici egualmente meritevoli di tutela” (Corte cost., n. 66 del 2005), a patto che “rispondano a criteri di ragionevolezza” (Corte cost., n. 264 del 1996).
Rinviando un compiuto giudizio sull’operato del governo soltanto al momento in cui l’emergenza sarà terminata, la pressione senza precedenti esercitata sulle libertà costituzionali potrebbe giustificare una torsione del sistema delle fonti, superando lo scoglio del giudizio di ragionevolezza, a condizione che abbia carattere temporaneo e che si renda più intellegibile: la drammatica esperienza in atto dimostra quanto sia importante la chiarezza del diritto. Alcune norme di controversa esegesi, unitamente al concitato nonché confuso susseguirsi di notizie prima dell’emanazione dei provvedimenti, hanno spinto migliaia di persone ad abbandonare le zone focolaio, richiamando alla mente aneddoti di manzoniana memoria. Uno degli aspetti sui quali intervenire è quello della comunicazione legislativa, che non deve precedere, ma semmai seguire l’emanazione degli atti normativi, specie se destinati ad avere un impatto immediato sul governo dell’emergenza. Connessa a tale profilo, e certamente da migliorare è la tecnica normativa, che si inscrive in quel sacrosanto principio di civiltà giuridica che è la certezza del diritto.
Un’ultima considerazione. Nel dramma di questo tempo si intravede un tiepido raggio di sole (ex malo bonum, direbbe Sant’Agostino): un nuovo umanesimo e un ritorno a quella carità cristiana che è soprattutto in grado di flere cum flentibus. Bisogna ripartire proprio dall’etica della solidarietà, più volte richiamata dal Pontefice lo scorso 27 marzo nel surreale silenzio assordante di Piazza San Pietro, percorrendo quel sentiero a tratti tortuoso che conduce alla rigenerazione valoriale della società.
Alessandro Candido
Professore a contratto nell’Università degli Studi di Milano Bicocca e dottore di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano