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1. Premessa. – La finanziarizzazione dell’economia e la privatizzazione dei beni pubblici si sono svolti lungo processi condotti a livello mondiale negli ultimi decenni del XX secolo dai colossi della finanza sostenuti in particolare dai Governi anglosassoni e dall’Unione Europea.

Questi processi non sono stati “naturali”, come se fossero derivati dall’applicazione delle leggi naturali dell’economia, ma hanno avuto all’origine precise decisioni di carattere politico assunte dai vertici dei Paesi Occidentali.

Per realizzare i progetti di finanziarizzazione e di privatizzazione sono stati utilizzati, previa una serie di decisioni politiche non sottoposte ad alcun vaglio di tipo  democratico, alcuni strumenti di carattere giuridico, tra cui, in particolare, il leveraged buyout, che ha reso “legale” la concatenazione di una serie di negozi giuridici, in sé e per sé leciti, ma complessivamente illeciti perché diretti allo scopo di eludere le regole poste a protezione del libero mercato e di fare affluire le ricchezze, soprattutto di carattere tecnologico, dalle società commerciali, che le avevano inventate e applicate a costo di enormi investimenti, verso l’alto, cioè verso gruppi finanziari a composizione ristretta che si sono così appropriati del controllo dei settori più avanzati e ricchi dell’economia occidentale.

2. La predazione del patrimonio di società pubbliche tramite i leveraged buyout. Tra le società italiane più avanzate dal punto di vista tecnologico alcune di esse erano di proprietà pubblica. Basti tra tutti l’esempio della Telecom, società a controllo pubblico che costituiva un gioiello economico di primordine, competitivo a livello internazionale in un settore caratterizzato da uno sviluppo innovativo travolgente. Maurizio Matteo Dècina ha scritto: “Telecom era un’azienda globale, fiore all’occhiello dell’industria nazionale, forte di una spiccata proiezione internazionale, con una trentina di controllate estere. Rimpianto per un brand di successo. Per indicatori economici solidi, costruiti attorno ad un rapporto debito/fatturato oggi inarrivabile. Per un patrimonio, a fine anni novanta, che ASATI, l’Associazione dei piccoli Azionisti di Telecom Italia, stima in circa 10 miliardi di euro”[1]

Il leveraged buyout, come noto, è una forma di acquisizione societaria che si sviluppò negli Stati Uniti nella metà degli anni ’70 del secolo scorso, penetrando anche negli Stati europei e comparendo sullo scenario italiano dopo circa un decennio. Il fenomeno costituì la prosecuzione logica del going private,  che consiste nella sottrazione al mercato di azioni diffuse nel pubblico per concentrarle nelle mani di un azionista unico o di un azionista di controllo. Questo istituto ha trasformato in breve tempo la stessa struttura del mercato azionario.

Ha rilevato Paolo Montalenti che nell’arco di cinque anni, grazie all’uso di tale strumento nelle scalate e nella sostituzione del controllo della società il “c.d debt equity ratio, cioè il rapporto fra debiti e mezzi propri delle imprese, che nell’ ‘84 era pari a un indice di 4 a 1 con punte di 6 a 1, è oggi salito fino a livelli di 14 a 1, con punte fino a 18 a 1”[2].

La forma tipica del leveraged buyout si conclude con la fusione della società oggetto d’acquisto (società target o bersaglio) nella NewCo, il veicolo societario acquirente. L’effetto economico sostanziale dell’operazione consiste nel trasferimento del costo dell’acquisizione sul patrimonio della società acquistata. Si compra infatti l’impresa non in virtù di un reale investimento finanziario, bensì avvalendosi della ricchezza futura dell’impresa acquistata. Gli amministratori della cosiddetta NewCo impiegano gli utili della società acquistata per pagare il debito. Inoltre, come amministratori, possono anche vendere asset patrimoniali importanti, cespiti immobiliari e rami di azienda che non producono flussi di liquidità continuativi, al fine di evitare esborsi propri alla chiusura del debito. Il finanziatore è garantito non dai beni dell’investitore, bensì da pegni sulle azioni del veicolo costruito ex novo; dunque, sul patrimonio della società acquistata.

3. L’illiceità giuridica del leveraged. – L’operazione è intrinsecamente illecita perché tramite la fusione, che non corrisponde alla causa propria dell’istituto previsto dal codice, si ottengono elusivamente vantaggi di ordine fiscale, relativi al disavanzo di fusione, determinato dalla traslazione del costo dell’acquisizione sul patrimonio della società acquisita.

Già nei primi anni ’80 molte operazioni di leveraged buyout avevano sollevato le reazioni della dottrina negli Stati Uniti che le aveva qualificate come fraudolent conveyance, “cioè come negozi in frode ai creditori perché hanno creato un’erosione del patrimonio sociale, un’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei creditori”[3].

Il meccanismo, che si articola in una serie di negozi in sé e per sé leciti, integrava all’evidenza una violazione dell’art. 2357 c.c. all’epoca vigente, che vietava agli amministratori di una società l’acquisto di azioni proprie nonché la prestazione di garanzie per tale acquisto. Soltanto grazie a cavilli formalistici, si poteva sostenere che, scomposta la fattispecie complessa in tanti negozi e detto lecito il singolo negozio, l’operazione nell’insieme sarebbe stata lecita. In realtà il nucleo della fattispecie sta nel fatto che la società target garantisce al finanziatore che le somme versate all’acquirente saranno rimborsate.

La violazione dell’art. 2357, 1° co. era sanzionata penalmente tramite la previsione dell’art. 2630 c.c. Il complesso del sistema normativo, civile e penale, aveva lo scopo di evitare l’inquinamento del mercato finanziario, l’annacquamento del capitale sociale e la lesione degli interessi dei soci di minoranza e dei creditori della società target. Il sistema, in definitiva, era strutturato non tanto e non soltanto a tutela di interessi privatistici, quelli dei soci di minoranza  o dei creditori, ma soprattutto dell’interesse generale della legalità societaria, del corretto funzionamento del mercato finanziario, nonché dell’interesse dell’Erario a che l’imponibile della società non venisse eroso attraverso operazioni elusive delle ragioni del fisco.

Franzo Grande Stevens, all’epoca Presidente del Consiglio Nazionale Forense, aveva puntualmente osservato che l’economia di mercato era stata scelta dal Costituente nell’interesse della comunità, poiché l’impresa ha una funzione sociale: “L’impresa ha la funzione di polo di attrazione, di lavoro, di gratificazioni morali e materiali. Per chi? Per i dipendenti, per gli azionisti, per i creditori, per i fornitori. Ha una funzione sociale più o meno estesa territorialmente a seconda delle sue dimensioni”[4].

Evidentemente Grande Stevens si richiamava all’idea, tipica della dottrina sociale cristiana, anche se da lui non espressamente menzionata, secondo cui l’impresa è un importante corpo intermedio della società, destinato a soddisfare i bisogni economici di una pluralità di soggetti, posti in situazioni diversificate dal punto di vista economico, ma tutti insieme cooperanti verso il bene comune dell’istituzione.

La concezione dell’impresa-istituzione caratterizzava peraltro, all’inizio degli anni ’90, le due economie più prospere del mondo, quella tedesca e quella giapponese. La predetta concezione era stata alla base del welfare nelle legislazioni europee e del notevole accrescimento reddituale delle classi medio-basse. Purtroppo in Italia si affermò, contro i princìpi dell’art. 41, co. 2 della Costituzione, una tendenza conflittuale di stampo marxista che, sotto la pressione del Partito Comunista, fu perseguita dai sindacati contro il bene comune e, in particolare, contro quello della classe lavoratrice.

4. Il leveraged e il liberalismo assoluto. – Trascorsi alcuni anni e tramontata l’idea della lotta di classe, non fu compiuto alcuno sforzo per recuperare la dottrina dell’impresa come istituzione; ma  tutto fu compiuto a  favore delle tesi liberistiche più estreme. Succubi dell’iperliberalismo anglosassone i componenti del Governo e della classe politica dominante si schierarono all’inizio degli anni ’90 a sostegno  del leveraged. Gli strateghi della politica economica si diressero a trasporre in Italia i modelli di acquisizione aggressiva tipici dell’esperienza americana.

Beniamino Andreatta, all’epoca presidente della Commissione Bilancio e Programmazione Economica del Senato e uno dei più incisivi strateghi delle privatizzazioni, sostenne che il modello di impresa-istituzione è nei fatti superato negli Stati proprio “dalla recente ondata di takeovers ostili, siano essi «leveraged» o «meno»”[5]. Per conferire dinamismo all’economia “occorrono delle spinte esterne”[6]. Negli USA tali spinte sono venute dall’ondata di mergers and acquisitions degli anni ottanta come frutto di quel processo di deindustrializzazione prevalente nell’economia statunitense. Vero che queste operazioni “si fondano su poco capitale di rischio e molto credito”[7]. Ma ciò conferisce dinamismo ai mercati. Sì che Andreatta suggerisce di non preoccuparsi dei rischi per l’economia legati alla riduzione del capitale sociale a causa dell’acquisto di azioni proprie né dell’indebitamento assunto in leva in modo sempre più sproporzionato. Dei divieti civili e penali di cui agli artt. 2357 e 2630 c.c. neppure è il caso di preoccuparsi. L’interpretazione della normativa sostenuta da Grande Stevens è “abbastanza audace ed estensiva”[8]. Neppure sarebbe “opportuno e conveniente alzare ulteriori steccati che per regolamentare tutto finiscano per limitare la diffusione di un istituto, quello del leveraged buyout, che nelle diverse sue forme già trova non pochi ostacoli in Italia nella diffidenza delle imprese e del sistema creditizio”[9] [10].

La politica economica dei fautori delle privatizzazioni, che vide la collaborazione stretta tra gli esponenti del mondo democristiano, come Andreatta e il suo allievo Prodi, del mondo laicista, come Azeglio Ciampi,  e del mondo ex comunista, come D’Alema, condusse incongruamente alla svalutazione del ruolo del diritto rispetto a quello dell’economia e della finanza.

Ai leveraged buyout venne dato il via libera, prima nella prassi economico-finanziaria, debolmente contrastata dalla giurisprudenza e, poi, nel 2003, addirittura nella legislazione, che abrogò i divieti tassativi e le previsioni punitive previste agli artt. 2357, 1° co. e 2630 c.c.[11].

5. Una breve esemplificazione dei danni cagionati all’economia pubblica. – Sul piano della politica economica la privatizzazione delle grandi società pubbliche ai danni del patrimonio sociale ha trovato nel leveraged lo strumento idoneo per il trasferimento della ricchezza dal pubblico e dalla comunità degli azionisti a gruppi di controllo privati che non attuarono alcun piano industriale di sviluppo né si preoccuparono di implementare l’innovazione tecnologica.

Nel caso della privatizzazione di Telecom (la “madre di tutte le privatizzazioni”) venne oltrepassata di gran lunga la soglia della decenza economica, giuridica e morale.

Il primo passo fu la decisione nel 1997 del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi di privatizzarla. La società aveva bisogno, proprio in relazione al momento di grande innovazione e di competizione internazionale, di un piano industriale che la rilanciasse nell’economia delle telecomunicazioni, all’epoca in una fase di trasformazione per la imponente diffusione della telefonia mobile. I capitalisti privati, che assunsero il controllo della società con l’acquisto di quote minime del capitale sociale, erano interessati soltanto a poter fruire della forte redditività della società. Non elaborarono alcun progetto industriale, abbandonando presto il campo per lasciare spazio a una serie di operazioni finanziarie devastanti.

Il passo decisivo fu il lancio dell’OPA nel febbraio 1999 con un leveraged buyout senza fusione. La scatola semivuota degli imprenditori guidati da Roberto Colaninno comprò a debito Telecom facendo ricadere il rimborso agli istituti finanziari sul patrimonio della società. Il governo non frappose alcun ostacolo, nonostante il Presidente di Telecom avesse presentato un piano alternativo all’OPA[12]. Il Financial Times definì l’operazione di conversione delle azioni “una rapina in pieno giorno”[13]. Il risultato dell’intera operazione sul piano economico fu: “Un saccheggio da 60 miliardi, così i capitalisti senza capitali hanno distrutto un intero settore”[14]. La somma indicata corrisponde alle risorse “sottratte all’ex monopolista telefonico dalle varie compagini azionarie che si sono succedute. Un immenso spreco di denaro che altrimenti avrebbe potuto scrivere una storia diversa per l’intero sistema Paese”[15].

L’operazione fu compiuta in spregio del diritto vigente in quanto integrò in modo palese la violazione degli artt. 2357 e 2630 del codice civile. Una volta che il business finanziario fu concluso, il legislatore del 2003 abrogò il divieto previsto dall’art. 2357 e cancellò il presidio penalistico di cui all’art. 2630, scongiurando il rischio che qualche inquirente attento ai reati compiuti potesse investigare e iniziare le convenienti azioni penali[16].

L’esperienza ha dimostrato che i leveraged, attuati in violazione di legge, sulla spinta delle privatizzazioni e delle concentrazioni finanziarie, hanno favorito l’appropriazione privatistica da parte dei gruppi finanziari di risorse reddituali provenienti da società ben patrimonializzate. A seguito della presa del controllo da parte dei nuovi acquirenti, queste  sono state impoverite, vendute a soggetti stranieri, ovvero sono state liquidate o sono cadute in bancarotta di fatto – anche se quasi mai dichiarata in via giudiziaria, perché un salvataggio pubblico ha impedito che i responsabili rispondessero del loro operato davanti al giudice penale -, con danno degli azionisti di minoranza, della platea dei fornitori e dei creditori, in particolare dell’Erario.

Mauro Ronco


[1] Cfr. M.M.Dècina, Goodbye Telecom. Dalla Privatizzazione a una Public Company, Firenze, 2017-2018; cfr. anche Cardani, Presidente dell’Autorità Garante per le Comunicazioni, Prefazione, in Dècina, Goodbye Telecom, cit., 7. Sulla competitività di Telecom v. Gamberale, Lectio magistralis: Le telecomunicazioni in Italia: da un passato autorevole a un presente incerto. Quale futuro?, 16 maggio 2007, in https://www.slideshare.net/vitogamberale

[2] Montalenti, Il leveraged buyout, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 1990, 654; v. anche Apice, Intervento, ivi, 661; Cremonesi, Intervento, ivi, 667; A. Gambino, Intervento, ivi, 675; Di Pietropaolo, Intervento (Profili penali del leveraged buyout nel diritto italiano), ivi, 681; Grande Stevens, Intervento, ivi, 694. In senso favorevole, sia pure con precisazioni, cfr. Frignani, Il leveraged Buy-out nel diritto italiano, in Giur. comm., 1989, 419; Pardolesi, Leveraged Buyout: una novità a tinte forti (o fosche?), ivi, 402.

[3] Montalenti, Il leveraged buyout, cit., 655.

[4] Grande Stevens, Intervento, cit., 696.

[5] Andreatta, Conclusioni, in Leveraged buyout. Un istituto da diffondere in Italia?, a cura di F.A. Grassini, M. Bona, Bologna, 1989,118.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem, 120.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem, 123.

[10] Il mondo bancario e finanziario, a differenza del mondo giuridico, sostenne con forza, talora con venature circostanziali di prudenza, la diffusione in Italia del leveraged come se gli artt. 2357 e 2630 c.c. non esistessero. Nello stesso volume in cui è raccolto l’intervento di Andreatta si possono leggere anche, in senso favorevole al buyout gli scritti di Gianni Zandano, presidente dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino (Introduzione, 13-19), di Franco A. Grassini, amministratore delegato dell’Istituto Nazionale di Credito per il Lavoro Italiano all’Estero (Estendere con prudenza all’Italia il leveraged buyout, 49-71), Jody Vender, amministratore delegato di SO.PA.F. S.p.a. (Quello che è realisticamente possibile fare in Italia, 73-82), il quale riconosce che negli Stati Uniti sono stati fatti in un momento di boom economico “e quindi potremo meglio valutare gli eventuali aspetti negativi quando il boom sarà uno sboom. Dare oggi giudizi netti è molto prematuro. sarà il mercato a giudicare, i morti ed i feriti si conteranno quando le condizioni del mercato cambieranno. Io sono, di conseguenza, contrario a qualsiasi regolamentazione … non possiamo pensare adesso a regolamentare uno strumento che non è ancora praticamente nato, quando negli stati Uniti stanno ancora riflettendo se regolamentarlo o meno dopo che il fenomeno ha assunto delle dimensioni enormi…” (81). Vender esprime la logica spietata dei mercati che i morti e i feriti si contano a cose fatte, per intanto occorre procedere senza cautela nella strada più profittevole!

[11] Ratio della tutela del riformato art. 2630 c.c. è di evitare esclusivamente infrazioni al regime di pubblicità, con l’eliminazione dei riferimenti agli obblighi di amministratori e dirigenti sul divieto di acquisto di azioni proprie, che ora è stato rivisitato tramite una serie di disposizioni previste agli artt. 2357 bis, 2357 ter e 2357 quater c.c.

[12] Il Presidente Franco Bernabé cercò di impedire l’OPA convocando un’assemblea straordinaria con un piano alternativo. Questa andò deserta perché non si presentarono in assemblea né il Tesoro, né la Banca d’Italia. Il primo perché il governo, presieduto da Massimo D’Alema, impose una inspiegabile neutralità di fronte al mercato. La seconda, perché il presidente Mario Draghi, che intendeva partecipare per valutare l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiese e ottenne un ordine scritto dal governo che gli vietò la partecipazione. Per la storia dettagliata delle prime fasi della vicenda cfr. Oddo, Pons, L’affare Telecom, Sperling & Kupfer, Milano, 2002; v. anche Onado, Telecom, una triste storia di capitalismo italiano, in lavoce.info, 1 ottobre 2013, accesso web 1 settembre 2021; Dècina, Goodbye Telecom. Dalla Privatizzazione a una Public Company, Firenze, 2017-2018.

[13] Riferito da “la Repubblica” 30 settembre 1999.

[14] Riferito da “la Repubblica”, 11 novembre 2013.

[15] Ibidem. Invero, 60 miliardi di risorse sottratte a Telecom sarebbero equivalenti al 5% del PIL e all’equivalente di 2 milioni di salari annuali, ovvero 400.000 posti di lavoro per 5. Queste stime si trovano in Dècina, Goodbye Telecom. cit., 16.

[16] Per cancellare le responsabilità penali relative ai fatti anteatti ovvero in una prospettiva diversa?

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