Prima il caso dj Fabo, poi quello Trentini, ora quello di Elena. Ogni volta l’esponente radicale alza il tiro al fine di ottenere l’omicidio di Stato per via giudiziaria. Ma le toghe e la politica possono intervenire per fermare il macabro spettacolo.
Di Alfredo Mantovano e Domenico Airoma, da Tempi mensile, settembre 2022.
Riassunto delle puntate precedenti. 1^ puntata. Il 25 febbraio 2017 l’on Marco Cappato accompagna Fabiano Antoniani, un dj rimasto tetraplegico a seguito di un incidente stradale, da Milano, dove risiedeva, in Svizzera, in una struttura specializzata nel praticare l’eutanasia: al suo interno il suicidio assistito avviene dopo due giorni, quando dj Fabo, come era conosciuto, azionando con la bocca uno stantuffo, inietta nelle vene il composto letale. Al rientro in Italia, l’on Cappato si autodenuncia ai Carabinieri, e la Procura di Milano lo iscrive nel registrato degli indagati; il procuratore aggiunto d.ssa Tiziana Siciliano chiede che il caso si archiviato, ma il Gip ordina l’“imputazione coatta”, e per questo l’esponente radicale viene tratto a giudizio davanti alla Corte di assise di Milano per il reato di cui all’art. 580 cod. pen.
Anche con la Corte ambrosiana la d.ssa Siciliano sostiene in prima battuta la non colpevolezza dell’on Cappato, e in via subordinata sollecita i giudici a eccepire la legittimità costituzionale della norma contestata, e in questo viene ascoltata. Il resto è noto: la Corte costituzionale dapprima, con l’ordinanza n. 207/2018, invita il Parlamento a modificare l’articolo controverso del codice penale, poi dopo dieci mesi, con la sentenza n. 242, essendo le Camere rimaste inerti, dichiara la parziale illegittimità della punizione dell’aiuto al suicidio. O meglio, riscrive la disposizione e stabilisce che non è punibile chi agevola l’esecuzione del suicidio, purché sussistano cinque condizioni: a) che l’interessato ne abbia maturato il proposito liberamente e in via autonoma, b) che sia tenuto “in vita da trattamenti di sostegno vitale”; c) che sia affetto “da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”, d) che le condizioni “siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”, e) che “sia stato adeguatamente informato (…) in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative” (quest’ultima condizione non è nel dispositivo, bensì nella motivazione, cui il dispositivo rinvia). Dopo la sentenza della Consulta la Corte di assise di Milano assolve l’on Cappato.
2^ puntata. Da Milano a Massa, imputati ancora l’on Cappato, e con lui Mina Welby. Il 27 luglio 2020 la Corte di assise assolve entrambi per la morte di Davide Trentini, pure lui accompagnato in Svizzera e lì deceduto. Vicenda analoga, ma non eguale, perché l’interessato non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, pur assumendo antidolorifici e avendo bisogno dell’aiuto di una persona per le sue funzioni quotidiane. I giudici della cittadina toscana superano talune delle condizioni poste dalla Consulta dilatandole, perché affermano che “la dipendenza da ‘trattamenti di sostegno vitale’ non significa necessariamente ed esclusivamente ‘dipendenza da una macchina’”, e pertanto “il riferimento (…) è da intendersi fatto a qualsiasi trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici”. In più, mostrando opinabile competenza scientifica, equiparano le cure palliative, qui non praticate, alla somministrazione di antidolorifici, invece avvenuta, e il sistema sanitario italiano alla struttura elvetica, pur se essa si denomina S.O.S. Eutanasia (!): a conferma che, una volta intaccato il principio della disponibilità della vita umana, le ‘condizioni’ al più rassicurano la coscienza di chi le pone, ma non forniscono insuperabile presidio.
Ma è ancora suicidio assistito?
Il 1° agosto 2022 muore in Svizzera, a seguito di un trattamento eutanasico, Elena Altamira, ivi accompagnata dall’on Cappato. I media informano che la signora risiedeva a Spinea (Ve), era una libera professionista, aveva 69 anni, e soffriva di una “patologia oncologica irreversibile con metastasi” ai polmoni: non emergono notizie di trattamenti di sostegno vitale in corso, né di sofferenze intollerabili, né di cure palliative praticate, e ovviamente non di una verifica del suo stato da parte del SSN. Una condizione drammatica, dolorosa e incerta, ma pari a quella delle migliaia di pazienti oncologici che quotidianamente affollano i dh o le degenze degli ospedali di tutta Italia: di fronte a loro, sul medesimo terreno di combattimento, ci sono ricercatori che ogni giorno individuano chemioterapici più efficaci e con effetti collaterali meno dannosi, medici oncologi che, nel somministrarli, rassicurano il paziente e lottano con lui, infermieri consapevoli di quanto l’umanità del tratto debba accompagnare l’infusione del farmaco, e così via.
Qualificare un tumore ai polmoni “patologia oncologica irreversibile” non equivale a una sentenza di morte di immediata esecuzione: irreversibile non vuol dire non circoscrivibile o non arrestabile, soprattutto quando il male non si è manifestato al punto tale da imporre interventi invasivi (e nel caso concreto non risulta esservene stati). Avere paura degli sviluppi futuri della patologia, quelli che Elena ha comprensibilmente espresso nel video registrato, è nell’esperienza di ogni paziente oncologico: ma è pur esso un problema che viene affrontato coi trattamenti palliativi, in costante aggiornamento, e con l’aiuto di psicologi all’occorrenza disponibili, preparati anche nel sostegno ai familiari. Più che di aiuto al suicidio, gli elementi descritti dai media avvicinano il caso all’omicidio del consenziente: delle condizioni poste dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242, l’unica esistente sembra essere solo la volontà libera e autonoma della paziente.
Omicidio del consenziente
E qui veniamo al nocciolo. L’on Cappato, come tutti sappiamo, è stato fra i promotori della raccolta di firme per l’abrogazione parziale dell’art. 579 cod. pen., che per l’appunto punisce l’omicidio del consenziente: l’obiettivo del referendum era di andare oltre la pur discutibile sentenza costituzionale del 2019, per giungere all’affermazione normativa della piena disponibilità del bene-vita, subordinata esclusivamente alla volontà dell’interessato. Quel quesito referendario è stato dichiarato non ammissibile dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 55 del 15 febbraio 2022; non è fuori luogo ricordarlo, perché nei numerosi commenti al ‘caso Elena’ non abbiamo trovato un solo riferimento a quella pronuncia.
Questa vicenda è, con tutta evidenza, lo strumento attraverso cui ottenere per via giudiziaria, seguendo la medesima scaletta del ‘caso dj Fabo’, quel risultato che l’intervento della Consulta aveva precluso bloccando il referendum: rientrato dalla Svizzera, l’on Cappato si è autodenunciato ai Carabinieri di Milano, e il fascicolo del relativo procedimento penale è stato preso in carico dal dipartimento coordinato dalla d.ssa Siciliano, il medesimo procuratore aggiunto del caso Antoniani: più che un dramma a puntate, pare un serial.
Se la Procura di Milano, come inizialmente già per il dj Fabo, formulerà una nuova richiesta di archiviazione, si prospettano più strade. La prima è che, come a suo tempo accaduto con la Corte di assise di Milano, il giudicante sollevi una ulteriore questione di legittimità costituzionale. La seconda è che il Gip, o se non il Gip la Corte di assise adottino una soluzione ‘alla Massa’: applichino creativamente, cioè oltre i ‘paletti’, la sentenza 242 della Consulta, e chiudano la faccenda, stabilendo un ulteriore precedente per la morte a richiesta. Vi è però un’ultima strada: che, ricorrendone i presupposti in fatto, a carico dell’on Cappato si giunga a una sentenza di condanna; ma forse, proprio per scongiurare tale eventualità, si è preferito non lasciare la via giudiziaria vecchia per una nuova.
Alla prima soluzione è di ostacolo quanto la stessa Corte costituzionale ha scritto per motivare la non ammissione del referendum. La sentenza 55/2022, premesso essere “il bene della vita umana connotato dall’indisponibilità da parte del suo titolare”, ha precisato che, all’esito del referendum, “la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo”, con la conseguenza che “l’effetto di liceizzazione (…) non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili (…). Nè può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione”. La conclusione è che “quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”.
Salvare ‘il soldato Marco’…
Emerge allora un ulteriore profilo. I più autorevoli commentatori della sentenza 242 sul dj Fabo, inclusi coloro che l’hanno accolta con favore, ne hanno sottolineato la singolarità: nel senso che, più che verificare la compatibilità con la Costituzione dell’art. 580 cod. pen., essa ha dato notevole rilievo alla vicenda materiale; quindi, più che l’esito di un giudizio di legittimità costituzionale, è apparsa una ulteriore pronuncia sul merito, nel senso che ha dichiarato conforme alla Costituzione solo la condotta tenuta dall’on Cappato in occasione della morte di Fabiano Antoniani. Quella sentenza non ha in alcun modo legittimato il principio eutanasico, non ha legalizzato né l’uccisione su richiesta, né tout court l’aiuto al suicidio: dalle sue righe emerge preoccupazione per la sorte giudiziaria dell’imputato, se l’eccezione fosse stata respinta.
È evidente che oggi col ‘caso Elena’ il risultato che l’on Cappato maggiormente auspica è un bis davanti alla Consulta. A un esito simile si oppongono però le cinque condizioni della sentenza del 2019 – una sola delle quali, come visto, rintracciabile con sicurezza nella vicenda del 1° agosto -, e ancora di più il contenuto della sentenza 55/2022. È vero che la Consulta ha talora sorpreso con decisioni non del tutto in linea con propri precedenti, ma nel nostro caso i precedenti sono recentissimi: e parliamo di sentenze ampiamente motivate, non di patti elettorali, che si disfano poche ore dopo averli sottoscritti!
La sfida lanciata dall’on Cappato è alla magistratura nel suo insieme: a quella ordinaria come, in ipotesi, a quella costituzionale. È di vedere fino a che punto i giudici chiamati a pronunciarsi cederanno al battage mediatico, tanto oppressivo quanto ideologico, e anche stavolta salveranno ‘il soldato Marco’, magari senza neppure interpellare la Consulta, come accaduto nella vicenda di Massa; oppure riterranno superati, come emerge con oggettiva evidenza, i confini della legge penale, pur se questo vorrà dire dichiarare colpevole l’eroe dell’eutanasia. È la sfida a verificare quanto in vicende cruciali il diritto conservi una propria dignità, e quanto invece l’imposizione mediatica – fior di talk show dopo la morte di Elena hanno lungamente intervistato l’on Cappato senza contraddittorio – diventi imposizione giuridica. È una sfida il cui primo passo spetta a quella Procura di Milano che oggi, rispetto al ‘caso dj Fabo’, ha un altro capo di ufficio, che ragionevolmente mediterà su un principio fondamentale di ogni ordinamento democratico, quello secondo cui le leggi si fanno o si modificano in Parlamento. La via giudiziaria all’omicidio del consenziente rischia infatti di consolidarsi quale pericolosa scorciatoia antidemocratica.
…o la vita dei più deboli?
La sfida non riguarda solo i giudici. Fra pochi giorni si vota, e nel nuovo Parlamento l’attenzione alla vita e alle sofferenze di tanti disabili e gravi ammalati si misurerà più che sui commi del codice penale, sulla capacità di trovare finalmente, a 12 anni di distanza dal suo varo, l’adeguata copertura finanziaria per la legge n. 38/2010 sulle cure palliative; di concordare con il Governo nazionale e con le Regioni un piano omogeneo di assistenza domiciliare; di approvare una legge sui c.d. caregiver, per facilitare il compito del familiare o dell’amico che sceglie di dedicare al paziente non autosufficiente parte della giornata. Di fornire, in altri termini, quell’aiuto concreto e a tutto tondo che è l’antitesi in termini di civiltà dell’iniezione letale e dell’“eroismo” ideologico dei suoi ‘soldati’.