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Articolo di Daniela Bianchini, avvocato del Foro di Roma, relativo alle due sentenze della Corte di giustizia di Lussemburgo a proposito del velo islamico sul posto di lavoro.

La Corte di Giustizia europea ha di recente affrontato due casi analoghi aventi ad oggetto l’uso di simboli religiosi da parte dei lavoratori sul luogo di lavoro.

Il primo caso (C-157/15) riguarda una lavoratrice belga di religione islamica, Samira Achbita, receptionist di un’impresa privata operante nel settore di ricevimento e accoglienza clienti, licenziata per non aver osservato il divieto di indossare il velo durante l’orario di lavoro, secondo quanto imposto a tutti i lavoratori dell’azienda in virtù di un preciso regolamento interno recante disposizioni limitative in ordine all’uso sul luogo di lavoro di «segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose» e in ordine alla manifestazione di «qualsiasi rituale che ne derivi». Esperiti inutilmente due gradi di giudizio, la sig.ra Achbita ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione belga, la quale a sua volta ha ritenuto di dover sospendere il procedimento e proporre alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale sull’interpretazione da dare all’art. 2 par. 2 lett. a) della direttiva UE 2000/78 nel caso in cui un’azienda vieti a tutti i dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni esteriori delle proprie convinzioni politiche, filosofiche e religiose. La Corte di Lussemburgo, nel caso di specie, con sentenza del 14 marzo 2017, ha ritenuto non configurabile alcuna discriminazione diretta ed ha altresì ritenuto meramente ipotetica (e comunque da dimostrare nel concreto) una discriminazione indiretta.

Nell’altro caso (C-188/15), una lavoratrice francese di religione islamica, Asma Bougnaoui, assunta da un’impresa privata in qualità di ingegnere progettista, è stata licenziata per non aver rispettato il divieto -questa volta non previsto da apposito regolamento aziendale bensì imposto verbalmente dal datore di lavoro-  di indossare il velo islamico durante le riunioni con i clienti. Il datore di lavoro fondava la legittimità della sua richiesta, e quindi del successivo licenziamento, sul fatto che alcuni clienti si sarebbero lamentati per il fatto che la Bougnaoui indossasse il velo. Dopo il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice, sia in primo che in secondo grado, la questione è poi passata alla Corte di cassazione, che ha successivamente presentato alla Corte di Giustizia il quesito in ordine alla possibilità di considerare quale requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ex art. 4 par. 1 della direttiva UE 2000/78 la volontà del datore di lavoro di assecondare il desiderio di un cliente di una società di consulenza informatica di non essere assistito da una dipendente che indossa il velo islamico. Il citato art. 4 par. 1 prevede infatti che gli Stati possano stabilire una deroga al principio di non discriminazione di cui all’art. 2, prevedendo che una differenza di trattamento basata su una «caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’art. 1» non costituisca discriminazione. La Corte, in questo caso, con sentenza sempre del 14 marzo 2017, ha escluso la possibilità di invocare la deroga di cui all’art. 4 par. 1, assumendo che la volontà del datore di lavoro di assecondare i desideri dei clienti non possa essere considerata come un requisito essenziale e determinante.

In sintesi, l’orientamento dei giudici della Corte emerso da queste due sentenze, che riguardano il velo islamico sul posto di lavoro -ma che ben possono interessare qualunque altro simbolo religioso che un credente voglia indossare (dalla croce alla stella di Davide, dal rosario al simbolo del Tao e così via)- è il seguente: il titolare di un’azienda privata può legittimamente vietare ai propri dipendenti l’uso di simboli religiosi sul posto di lavoro, purché lo faccia attraverso un regolamento aziendale e non già fondando le sue pretese su eventuali lamentele ricevute dai clienti.

I giudici europei, in altri termini, hanno ritenuto prevalente l’interesse del datore di lavoro a perseguire obiettivi aziendali di neutralità politica, filosofica e religiosa rispetto alla libertà del lavoratore di manifestare il proprio credo attraverso segni esteriori.

Tuttavia, benchè sia innegabile l’interesse del datore di lavoro ad offrire una certa immagine di sé alla propria clientela, che trova il proprio legittimo fondamento nell’esercizio del potere direttivo, l’orientamento per cui il lavoratore debba celare la propria identità religiosa in ambito lavorativo, sempre e comunque, in presenza di un regolamento aziendale che lo preveda, appare opinabile.

Per affrontare in modo equilibrato la questione dei simboli religiosi sul posto di lavoro, infatti, è necessario considerare che la libertà religiosa è attualmente oggetto di ricorrenti attacchi da parte di quanti auspicano una società priva di ogni riferimento religioso e che vorrebbero relegare la fede, nonché le sue naturali e legittime manifestazioni, al mero ambito privato. Troppo spesso si dimentica (o si fa finta di non ricordare) che fra i contenuti della libertà religiosa, come si legge tra l’altro nella Carta europea dei diritti dell’uomo (art. 9) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 10), vi è anche quello di manifestare liberamente il proprio credo, non solo a parole, ma anche attraverso i simboli religiosi che possono essere indossati o attraverso un certo tipo di abbigliamento prescritto dalle norme confessionali (come ad esempio per le suore). Tutto ciò, ovviamente, nel rispetto delle altrui libertà e nell’individuazione, in caso di conflitto, di soluzioni che tengano conto della situazione concreta e siano rispettose delle persone coinvolte e delle loro legittime istanze.

È per questo motivo che sentenze quali quelle in esame destano una certa preoccupazione e di sicuro non sono di aiuto nel perseguimento di obiettivi di integrazione e coesione sociale. I giudici europei, nel pronunciare in particolare la sentenza relativa al caso Achbita, sembrano non aver considerato la pericolosità insita nell’affermare in modo pressoché assoluto la libertà aziendale di vietare l’uso di simboli religiosi sul posto di lavoro, pericolosità peraltro confermata dall’esultanza che traspare, in modo non troppo velato (forse per essere coerenti con il tema), in diversi articoli della stampa nazionale ed estera, che hanno salutato con grande favore la citata sentenza, vedendola come un’ulteriore affermazione di una visione areligiosa dell’esistenza umana.

Nel sommario bilanciamento fra la libertà di impresa del datore di lavoro e la libertà religiosa del lavoratore, la Corte di Giustizia, in ultima analisi, muovendo dal ragionamento per cui «il fatto di vietare ai lavoratori di indossare in modo visibile segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose è idoneo ad assicurare la corretta applicazione di una politica di neutralità», ha ritenuto prevalente la libertà del datore di lavoro, senza lasciare adeguato spazio ad un eventuale giudizio di bilanciamento, che invece in questi casi sarebbe quanto mai opportuno, secondo una valutazione di proporzionalità condotta caso per caso tra l’interesse del lavoratore ad esercitare, in tutte le sue espressioni, la libertà religiosa di cui è titolare e l’esigenza di protezione della libertà di impresa sotto il profilo organizzativo.

La dimensione religiosa, benché la si voglia da più parti sminuire, resta infatti fondamentale per lo sviluppo integrale della persona, sia come singolo, sia come membro delle diverse formazioni sociali in cui esplica la sua personalità, compreso l’ambiente di lavoro.

Coloro che hanno esultato per la sentenza Achbita, messo da parte l’entusiasmo, dovrebbero forse interrogarsi più a fondo su quel richiamato concetto di “neutralità” e chiedersi se davvero si possa esultare nel constatare che la società europea si avvia verso l’omologazione del pensiero, realizzata anche attraverso le limitazioni alla libertà di manifestare liberamente le proprie convinzioni politiche, filosofiche e religiose.

L’intento ultimo, nel nome di una laicità che ha piuttosto i contenuti del laicismo, è quello di comprimere quanto più possibile l’ambito pubblico in cui dette libertà possano essere concretamente esercitate, non di rado invocando proprio la neutralità, intesa però non nel senso di eguale rispetto ed apertura verso tutti, nel riconoscimento della comune dignità, bensì come eliminazione dallo spazio pubblico degli elementi identitari, compresi quelli religiosi.

Se questo è lo scenario, vi è ben poco da esultare.

                                                                                                       Daniela Bianchini

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