Vi proponiamo un commento dell’Avv. Vincenzina Maio alla sentenza n. 96, depositata il 5 giugno scorso, della Corte Costituzionale, pubblicata integralmente il 15 giugno 2015 su “Sì jus”: La detta sentenza, che ha dichiarato illegittimo un ulteriore passaggio della L. 40/2004 sulla fecondazione artificiale, quello cheprecludeva la diagnosi pre-impianto, si situa nella scia delle precedenti sentenze della Consulta, demolitorie dell’impianto della legge 40, ed apre alla possibilità dello scivolamento verso una deriva eugenetica della giurisprudenza costituzionale.
L’intervento della medicina nell’ambito della procreazione è iniziato sotto l’egida di una benefica “cura della sterilità”.
Di fronte a carenze fisiologiche dell’apparato sessuale o riproduttivo le risorse della medicina si sono prodigate per superare gli ostacoli e permettere la soddisfazione della naturale aspirazione dei coniugi ad avere un figlio. Tra desiderio e sua soddisfazione impedita, la tecnica medica si è inserita ottenendo risultati sorprendenti. Se in molti casi si è riusciti a curare, ripristinando la funzionalità degli organi interessati, la medicina della procreazione non si è voluta fermare .
Dove la procreazione non era possibile mediante l’atto coniugale si è proceduto all’inseminazione e fecondazione artificiale omologa. Dove le cellule germinali erano compromesse si è fatto ricorso a fecondazione eterologa oppure a donazione di ovulo, se non addirittura di embrione. Dove c’era incapacità gestazionale, si è passati all’affitto di utero. E, ultimo approdo, dove i richiedenti – non sterili – sono portatori di malattie genetiche, si è arrivati a declinare il diritto al figlio sano.
La sentenza nr. 96 della Corte Costituzionale, depositata il 5 giugno 2015, aggiunge quest’altro tassello alla metamorfosi, tutta giurisprudenziale, della legge n. 40/2004, asserendo che “Sussiste un insuperabile aspetto di irragionevolezza nell’indiscriminato divieto all’accesso alla procreazione assistita, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette, anche come portatrici sane, da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili, secondo le evidenze scientifiche, di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni.”
Ma andiamo con ordine.
Le tappe fondamentali che precedono la sentenza in commento sono rappresentate da due pronunce della Corte costituzionale: la sentenza 151 del 2009 e la sentenza 162 del 2014.
La prima sentenza ha eliminato il divieto di produrre più di tre embrioni per ciascun ciclo di trattamento di pma, sia l’obbligo di trasferire immediatamente e contemporaneamente tutti gli embrioni prodotti. A norma dell’art. 14 co. 2º, come ‘manipolato’ dalla Corte costituzionale, ciò che si vieta, oggi, è la produzione di embrioni in numero superiore a quello strettamente necessario; il numero di embrioni necessario è quello che crea rilevanti probabilità di successo del trattamento, secondo una valutazione in concreto affidata al medico, incentrata sull’età e sulla salute della donna. Quanto agli embrioni non immediatamente trasferiti, come ha chiarito la Corte, essi potranno, e anzi dovranno, essere sottoposti a crioconservazione. La pronuncia della Corte ha importanti riflessi, come vedremo, anche in tema di diagnosi genetica preimpianto. Questa tecnica di indagine era oggetto di divieto nelle Linee guida del 2004; divieto poi eliminato, nel 2008, sotto l’impulso del Tar Lazio .
La seconda sentenza (162 del 2014) ha eliminato il divieto di fecondazione eterologa “qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili”.
Dopo questi dictat, cosa rimaneva ancora in piedi della legge 40/2004?
Il divieto di surrogazione di maternità e il divieto di accesso alla pma con diagnosi preimpianto nel caso di coppie fertili portatrici di malattie genetiche.
Tali coppie, a norma dell’art. 4 co. 1 l. 40/2004, erano escluse dall’accesso alla fecondazione medicalmente assistita atteso che la finalità della legge è quella di “favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” (art. 1), finalità ribadita dall’art. 4 secondo cui “Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico.”
Quindi, primo punto fondamentale da considerare è che la legge 40/2004 ha (rectius: aveva) l’obiettivo di porsi come rimedio alla sterilità ed infertilità di coppia e non certo quello di creare un meccanismo riproduttivo del “figlio perfetto”.
La sentenza n. 96/2015 abbatte vistosamente la ratio legis e contraddice anche il solco interpretativo sinora portato avanti dalla Consulta che proprio nella sentenza 162/2014 aveva precisato come l’accoglimento della illegittimità del divieto ex art. 4, co. 3 vada riferito “esclusivamente al caso in cui sia stata accertata l’esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute” e solo “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse, dovendo siffatte circostanze essere documentate da atto medico e da questo certificate”, così continuando a rispettare l’intenzione del legislatore di limitare la pma alle situazioni acclarate di sterilità/infertilità.
La sentenza in commento opera un evidente cambio di rotta puntando ad un altro aspetto: perché non riconoscere il diritto al figlio sano?
Le ordinanze di rimessione del Tribunale di Roma, in fondo, sollevando la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, l. n. 40/2004, sollecitano proprio a prendere posizione sul “diritto della coppia ad avere un figlio sano”, logico corollario del “diritto ad autodeterminarsi nelle scelte procreative”, sullo sfondo della argomentazione, intrinsecamente errata, secondo cui non aveva senso impedire alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche di accedere alla pma se poi, comunque, le stesse avevano diritto al cd. aborto terapeutico.
Come dire: meglio fare selezione genetica prima che ricorrere all’aborto dopo!
D’altra parte, la pronuncia in commento trae origine da due procedimenti civili d’urgenza promossi da altrettante coppie di coniugi che chiedevano di essere ammesse a procedure di procreazione medicalmente assistita, con diagnosi preimpianto, al fine di evitare il rischio di trasmettere, ai rispettivi figli, la malattia genetica da cui, in entrambi i casi, uno dei componenti della coppia era risultato affetto in occasione di precedente gravidanza spontanea, interrotta con aborto terapeutico.
La Consulta ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale fondata, in relazione al profilo – assorbente di ogni altra censura – attinente al vulnus asseritamente arrecato, dalla normativa denunciata, agli artt. 3 e 32 Cost.
Sussisterebbe un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla procreazione assistita, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni. E ciò in quanto, con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia, il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lett. b), l. n. 194/1978 – quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto «accertati processi patologici (…) relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
In altre parole, secondo la Consulta, il sistema normativo cui danno luogo le disposizioni censurate non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “prima” alla donna un’informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute. Dal ché, quindi, la violazione anche dell’art. 32 Cost., in cui incorre la normativa in esame, per il mancato rispetto del diritto alla salute della donna.
Il quadro che emerge dalla lettura della prima parte della sentenza è quello di un ordinamento in cui sarebbe ammesso il “diritto a non nascere se non sano”, diretta correlazione del diritto della donna ad essere informata al fine di ricorrere all’aborto “terapeutico”.
Ma, a ben vedere, la questione non sta in questi termini.
Per anni la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che le malattie genetiche trasmissibili non appartengono al novero delle “omissioni” e “inadempienze” del medico, semplicemente perché esse non possono essere eliminate con l’intervento medico sul concepito. Diversamente ragionando si ammetterebbe l’aborto eugenetico, a cui sarebbero tenuti i genitori (quanto meno la gestante), ove correttamente informati delle malformazioni o delle malattie del feto da parte del sanitario. Con la conseguenza che , verificatasi la mancata informazione da parte del sanitario della malattia genetica del concepito, l’aver impedito alla madre di poter esercitare la facoltà di aborto avrebbe reso il medico stesso unico responsabile della vita non sana o “ingiusta” del concepito, che invece aveva come alternativa quella di non nascere.
La Corte di Cassazione rifiuta categoricamente l’aborto eugenetico (tra le altre, sentenza n. 14488/2004), ovvero finalizzato ad eliminare un essere umano geneticamente difettoso, ribadendo che il nostro ordinamento tutela l’embrione fin dal concepimento e che può sì parlarsi di un “diritto a nascere sani”, ma detta locuzione va intesa nella sua portata positiva (e non negativa) acciocché siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura ed assistenza della maternità, idonei a garantire, nell’ambito delle umane possibilità, la nascita sana. Non significa invece, che il concepito, che presenti gravi anomalie genetiche, non deve “essere lasciato nascere”.
Si potrebbe obiettare che aborto eugenetico ed aborto cd. terapeutico sono diversi; il secondo sarebbe privo della finalità selettiva tipica del primo.
Al di là di imperscrutabili quanto inutili sofismi giuridici, in realtà non esiste l’aborto “terapeutico”. Terapia, infatti, richiama il concetto di cura. Ma (e qui sta il punto) l’aborto è, ontologicamente, morte del concepito e, quindi, non cura, ma uccide.
La giurisprudenza prova ad aggirare l’ostacolo richiamando l’art. 6 della legge 22.5.1978 n. 194 in cui è scritto che: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (Cass. 8.7.1994, n. 6464; Cass.1.12.1998, n. 12195).
Anche la Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, utilizza questa norma per sostenere il cd. aborto terapeutico: viene consentito il sacrificio del concepito, la cui tutela la stessa legge proclama nel primo comma dell’art. 1, considerando preminente la tutela della salute fisica o psichica della madre .
Ciò posto, il ragionamento giurisprudenziale è il seguente: l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente); trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla stessa; le eventuali malformazioni o anomalie del feto, rilevano solo nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante e non in sé considerate, con riferimento al nascituro.
Ecco che allora si arriva ad un secondo punto importante: la sola esistenza di malformazioni del feto, che non incidano sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare l’aborto.
Pur rimanendo discutibile lo sbilanciamento normativo in favore della gestante, deve prendersi atto che nei casi giudiziari a monte della decisione della Consulta non è emersa alcuna incidenza sulla salute o vita delle donne coinvolte, essendo le stesse motivate “esclusivamente alla scelta dell’embrione non affetto da quella specifica patologia” (è quanto si legge nella sentenza) .
Ecco, allora, che il filo conduttore della questione portata all’attenzione della Corte sembra essere, a ben vedere, proprio la ammissibilità della selezione eugenetica. Invero, se la pma è epurata della sua finalità di aiuto alla sterilità ed infertilità di coppia, viene piegata ai desideri della coppia fertile di ottenere un figlio sano.
In questa ottica, la seconda parte della sentenza si presenta grottesca in quanto fa riferimento al vulnus arrecato dalla disciplina impugnata al diritto alla salute della donna.
Poiché, però, detto vulnus non è in alcun modo addotto dalle parti (posto che le stesse si pongono il dichiarato fine della scelta dell’embrione sano), ne deriva, come logica conseguenza, che la sua esistenza è solo presunta .
Cosicché, quando la sentenza asserisce che il divieto in questione “non trova, ad avviso della Consulta, un contrappeso positivo, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto”, in realtà afferma un automatico diritto di interruzione della gravidanza. Mancata, infatti, la dimostrazione delle esigenze di tutela della salute della gestante, l’interruzione della gravidanza sarebbe sostenuta solo da fini eugenetici.
In buona sostanza, la Consulta si sofferma a lungo sui diritti della coppia che accede alla pma, ma è scarsamente argomentativa, se non del tutto sfuggente, sull’interesse del concepito che, di contro, avrebbe meritato una qualche attenzione proprio in nome dell’invocato equilibrato bilanciamento dei diritti costituzionali coinvolti.
Chi può validamente affermare, infatti, che la vita di un bambino affetto da talassemia (et similia) non è degna di essere vissuta?
Il pericolo di deriva eugenetica si annida con evidenza nella parte della sentenza in cui è detto, apertis verbis, che la declaratoria di incostituzionalità è sostenuta dal “fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore”.
“Previa individuazione”, “scelta”, sono termini che non lasciano àdito a molti dubbi sul fine selettivo che è sotteso alla eliminazione dell’ennesimo paletto posto dalla legge 40/2004, fine incompatibile con l’art. 6 co. 1, lett. b) della l. 194/78 che, invece, richiama l’indispensabile accertamento dello stato di salute della donna rispetto ad eventuali anomalie del concepito.
Appare quantomeno forzosa l’insistenza della Corte sulla asserita parificazione delle due norme.
Su questo scenario alquanto inquietante si innesta la terza parte della sentenza, che fornisce alcuni consigli al legislatore al fine di colmare il vuoto normativo venutosi a creare.
In particolare, la Consulta suggerisce l’introduzione di apposite disposizioni finalizzate all’individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla procreazione medicalmente assistita di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle, anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa.
Ora, non può tacersi che a distanza di un anno dalla pubblicazione della sentenza 162/2014 sulla fecondazione eterologa, il legislatore non è pervenuto ad alcuna sistemazione normativa. Invertendo l’ordine delle priorità, in assenza di un nuovo intervento normativo, il Governo ha invece pensato bene di inserire, in extremis, nella legge di Stabilità 2014, la norma che istituisce il Registro dei donatori per la fecondazione eterologa.
Sempre in assenza di normazione, il Governo ha poi, più di recente, aggiornato le Linee Guida della legge 40/2004 inserendo l’accesso alle tecniche di fecondazione eterologa, l’accesso alla “doppia eterologa” e l’accesso all’”egg sharing” e allo “sperm sharing”.
A chiusura del “sistema” viene precisato che le coppie che accedono all’eterologa non possono scegliere le caratteristiche fenotipiche del donatore, cercando così di tacitare l’opinione pubblica sul rischio di deriva eugenetica .
Come se nel concetto di “eugenetica” rientrasse solo la scelta del fenotipo, e non ogni forma di selezione genetica del concepito!
Pare alquanto evidente che solo un approccio superficiale al significato di eugenetica può consigliare di omettere qualsiasi tipo di considerazione sulla esistenza di un limite normativo fondamentale ancora in piedi nella legge 40/2004, costituito dall’art. 13, co. 3 secondo cui è vietata ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti.
Infine, va ricordato che, sempre in assenza di normazione, è in discussione l’aggiornamento dei LEA (Livelli essenziali di assistenza) affinché vi sia inserita anche la pma.
La diversa risposta data dalle Regioni sulla possibilità o meno che, nelle more, la pma sub specie di eterologa potesse godere sell’assistenza sanitaria è una delle prove del clima di incertezza che vive l’ordinamento in un settore così delicato per la vita dei cittadini.
Senza dimenticare che l’inserimento della pma nei LEA aggraverà il già precario settore della spesa sanitaria, richiedendo ingenti coperture economiche per far fronte ad un “diritto alla salute” che ormai non ha più limiti interpretativi. Eppure, in occasione dell’allora presentazione del disegno di legge sulla pma alla Camera dei Deputati la relatrice Dorina Bianchi precisava che le tecniche di fecondazione artificiale “non sono una terapia”, bensì un mero “sostegno alla coppia interessando i diritti e la condizione di un terzo soggetto, il bambino” (Relazione del 26 marzo 2002). In pratica si riteneva che i problemi riproduttivi non facessero pienamente parte del diritto alla salute e da questa premessa si è mosso il legislatore per porre dei limiti rigorosi nei confronti dell’accesso alla tecnica della PMA.
Oggi la situazione è del tutto capovolta.
Le varie sentenze della Corte Costituzionale sulla legge 40/2004 hanno aperto un vuoto normativo. Ne sta conseguendo un clima di incertezza giuridica generale, attraversato da interventi approssimativi e settoriali del Governo che sembra più interessato a perseguire la logica del risultato ad ogni costo piuttosto che la considerazione del valore delle vite umane incipienti sacrificate. Tanto è vero che nessuna preoccupazione o sconcerto destano i 143.770 piccoli esseri umani in fase embrionale morti nel 2013 a causa delle tecniche di fecondazione extracorporea (dati forniti dalla Relazione al Parlamento sull’attuazione della l.40). L’Avvocatura dello Stato non ha partecipato all’udienza che ha preceduto la sentenza 96/2015 della Corte Costituzionale, ritenendo che non ci fossero i presupposti su cui impostare la difesa, considerate le precedenti sentenze.
E così, con l’abbandono dello Stato, la Corte affronta i problemi etici e giuridici che scaturiscono dalla pma con grande approssimazione, forse, spiace dirlo, con scarsa competenza e sicuramente senza prendere atto che le sentenze demolitive dei paletti posti dalla l. 40 stanno creando un nuovo percorso procreativo complesso e senza regole certe.
Senza più una legge di senso compiuto, chi stabilisce i limiti dell’eugenetica?
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