1- Giovedì scorso il Congresso dei Deputati, la Camera Bassa del Parlamento spagnolo, ha dato il via libera – con 198 voti a favore, 138 contrari e 2 astenuti – al testo di legge volto a normare il diritto all’eutanasia. È necessario ancora il placet definitivo del Senato, che tuttavia, dati gli attuali assetti delle forze politiche presenti in Parlamento, si annuncia scontato. L’11 febbraio scorso, alla vigilia degli sconvolgimenti che la diffusione della pandemia avrebbe di lì a poco prodotto in Europa, l’Assemblea Plenaria aveva approvato la discussione di una proposta di legge in tema, la cui trattazione sistematica poi, all’interno delle Commissioni parlamentari competenti, sarebbe andata avanti fino a oggi, con i voti contrari del Partito Popolare, di Vox e di UPN (il partito regionalista della Navarra). Il 10 dicembre scorso la Commissione Giustizia del Congresso ha licenziato definitivamente il testo destinato a tornare per la votazione ultima in Plenaria, votazione svoltasi appunto lo scorso giovedì.
2- La legge depenalizza gli atti per mezzo dei quali si dà direttamente la morte, ovvero si fornisce aiuto a morire, in determinate situazioni. La norma riconosce il “diritto individuale” ad accedere pubblicamente e su richiesta all’eutanasia, sia attiva, quando cioè un medico pone fine direttamente alla vita del paziente su sua richiesta, sia passiva, come accade nel caso del “suicidio assistito”, allorquando cioè una persona decide di darsi la morte con l’assistenza di un medico, che fornisce i mezzi necessari a che l’azione eutanasica vada a “buon fine”, seguendo l’intero processo. La legge prevede inoltre che l’erogazione dei relativi “servizi” sia garantita dal Sistema Sanitario Nazionale, potendosi svolgere in centri pubblici, privati o convenzionati, oltre che a domicilio.
3- Chi può accedere all’eutanasia? Dovrà essere una persona: 1) maggiorenne; 2) avente la nazionalità spagnola, ovvero in possesso di un certificato che dimostri almeno 12 mesi di permanenza in Spagna; 3) che soffra di una malattia “grave e incurabile” o di una “condizione grave, cronica e invalidante” che causa “intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche”; 4) “capace” di agire e decidere e farlo in modo “autonomo, consapevole e informato”. La legge prevede altresì che la persona che ne abbia fatto richiesta possa in qualsiasi momento revocare il consenso prestato. Viene altresì garantito che il richiedente riceva per iscritto tutte le informazioni relative: a) alle possibilità terapeutiche esistenti allo stato; b) ai risultati prognosticamente attesi; c) alle eventuali soluzioni palliative utilmente percorribili. Quanto all’iter vero e proprio, è necessario aver fatto due richieste, volontariamente e per iscritto, lasciando tra le due una distanza di almeno quindici giorni. Le medesime richieste saranno vagliate ed eventualmente autorizzate da due medici diversi, oltre che da una Commissione di Garanzia e Valutazione chiamata ad effettuare un controllo preventivo. Questi passaggi, con le relative, contingentate tempistiche, potranno essere abbreviati se il medico ritiene che siano imminenti la morte del richiedente o la perdita della sua capacità di concedere il consenso informato. Viene infine garantito un generale diritto all’obiezione di coscienza del medico.
4- In occasione dell’approvazione del testo, il premier spagnolo Pedro Sanchez – esponente di punta del Partito socialista spagnolo, che ha tenacemente voluto la legge e ne ha sostenuto i diversi passaggi parlamentari – ha parlato di una “grande conquista sociale” e di un progresso “nella libertà, nei diritti civili e nella dignità”. In tali poche, infelici battute si condensano i tratti di una cultura che ha perso di vista il suo baricentro – il rispetto incondizionato dovuto a ogni persona – e di una coscienza che ha smesso di ricercare la Verità iscritta nelle cose e negli eventi fuori di noi, che sono la trama stessa del nostro esistere, qui ed ora.
5- Parlare una volta ancora dell’eutanasia, e di un altro ordinamento che prende a disciplinarne l’accesso, significa prendere atto del fatto che, mai come in questo momento, siamo tutti, drammaticamente ed indistintamente, calati in una temperie culturale e umana che pare aver perso la capacità di confrontarsi e dialogare con l’idea stessa della vulnerabilità, aspetto essenziale di ogni esistenza umana: idea che non si riesce più ad accettare perché dominati da modelli valoriali che ci rendono titolari di un’identità socialmente riconosciuta nella sola misura in cui ci mostriamo capaci di incarnare i paradigmi dell’edonismo performativo. Al di fuori di essi, si fa sempre più fatica a scorgere barlumi di dignità dove si fa esperienza della sofferenza, della debolezza, della malattia, del limite. È pervasiva la cultura dello scarto, per dirla con Papa Francesco, dell’efficientismo prestazionale che si insinua fin dentro le reti della prossimità più genuina, quella familiare, e le divide, le riparte, le lacera, impedendo riconoscimento, accoglienza e identificazione dell’altro. Abitiamo spazi di relazione fatti da uomini non più desiderosi di acquisire emotivamente la realtà del sentire altrui, di impregnarsi nell’esperienza di un’alterità che ci si presenta dinanzi gravida della ricerca di senso e che sollecita un’attenzione capace di immedesimazione interiore: «Vedere il volto dell’altro è parlare del mondo. La trascendenza non è un’ottica, ma il primo gesto etico» (E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità). È una società non più attrezzata per rivolgersi all’altro con la profondità esigente di uno sguardo intriso di empatia, uno sguardo col quale cogliere «l’altro non solo come corpo, ma come corpo vivente, come essere vivente», come «il soggetto che vi abita, […] come persona spirituale» (E. Stein, Il problema dell’empatia).
6- Una domanda personale e sociale di eutanasia e, in generale, tutto il discorso che assume ad oggetto questa tematica, dovrebbe essere contestualizzata nell’ambito di un simile scenario culturale, che, come detto, producendo continuamente eccedenze umane, finisce col favorire il tanto acclamato incremento delle istanze di trattamenti eutanasici. Numerosi studi scientifici hanno provato la stretta connessione che esiste tra: a) la presenza di un disagio psichico profondo, come la depressione, non necessariamente legata ad una patologia di tipo fisico; b) la possibilità di accedere legalmente all’eutanasia; c) il numero di persone che effettivamente scelgono di sottoporvisi. E invece, l’essere in vita è “il” bene fondamentale della persona, in quanto condizione di possibilità per lo sviluppo e la realizzazione di tutti gli altri beni della stessa. La salute è a sua volta un bene, grande ma non assoluto però, perché anche nella malattia la vita dell’uomo non perde nulla della sua dignità ontologicamente personale ed inconculcabile. Del resto, mettere in discussione il valore assoluto della vita implica poi il dover accettare la logica della graduazione qualitativa del suo valore. Una volta che il discorso sul tema della vita umana venga spostato dal versante della sacralità – principio da intendersi in una prospettiva assolutamente laica – a quello della disponibilità, ogni discorso sul fine vita diviene possibile, ogni soluzione morale accettabile e, soprattutto, ogni intervento giuridico percorribile.
7- L’assurdo scenario di ipertrofia giuridica in cui si dibattono le nostre democrazie costituisce una delle principali concause culturali che hanno concorso a generare e che continuano ad alimentare la richiesta di legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito, come accaduto in Spagna, il sesto Paese al mondo a legalizzarla dopo Olanda, Belgio, Lussemburgo, Colombia, Canada. Eppure, «il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico. Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale» (Samaritanus Bonus, III).Quello del morire, come quello del nascere, dovrebbe rimanere un momento privato, vissuto nel contesto intimo della vita familiare, e alla presenza di un medico che decida in scienza e coscienza il da farsi. Il diritto dovrebbe, con le sue categorie spersonalizzanti e generalizzanti, tacere del tutto o entrare il meno possibile in siffatti contesti. Un diritto siffatto, minimo, rappresenterebbe non solo il miglior modo di garantire l’accettazione culturale della morte da parte di chi si trovi a confrontarsi con una situazione limite, ma anche la maniera più certa per scongiurare possibili abusi da parte di chi, calato in una cultura tanatofobica, alimentata eventualmente da disposizioni legali o dichiarazioni personali, si senta in dovere di interpretare “al meglio” e “nell’esclusivo interesse” del paziente la volontà di questi, magari in nome di un superiore “senso” di malintesa pseudo-compassione umana.
8- Questo restituirebbe dignità, oltre che al paziente, al medico, chiamato ad esercitare una vera e propria “arte terapeutica”, ad innescare una relazione di cura, che nasce dal diritto/dovere/desiderio di prendersi cura di un soggetto/paziente. Questa relazione di cura è intrinsecamente asimmetrica, dacché il medico è sempre, o quasi, nella posizione di sapere cosa sta accadendo al paziente e ha, o dovrebbe avere, le competenze per poterlo aiutare. A ciò fa da pendant lacondizione di vulnerabilità del paziente che, originandosi dall’esperienza della malattia, lo porta ad affidarsi volontariamente a chi ha conoscenze e competenze per poterlo aiutare. È dall’incontro tra il bisogno della persona ammalata e la promessa/possibilità d’aiuto dell’esperto che “nasce”, in senso proprio, la medicina, con la sua intrinseca moralità, che impone di curare quando possibile e di accompagnare sempre.
9- Lo schematismo unidirezionale di una richiesta eutanasica veicola la credenza in una realtà altra, difende ciò che attenta a quel che è più propriamente umano, e spaccia per conquiste quelli che sono regressi civili e morali. Tutto ciò costringe la politica, il diritto e l’etica, ovvero la riflessione sistematica sottesa alla filosofia della prassi che nasce dall’esigenza di mediare gli interesse di molti, alla snaturante torsione imposta da un individualismo esasperato e irrealista, che nega la natura autenticamente relazionale dell’essere umano: unico aspetto per il quale quella stessa riflessione sistematica ha ragion d’essere.
Antonio Casciano