Analisi critica della riforma dell’art. 609 bis c.p. sulla violenza sessuale: tra presunzione di dissenso, onere della prova e i principi della Convenzione di Istanbul.
1. L’atto sessuale posto in essere da un uomo nei confronti di una donna sarebbe da considerare, di per sé, come reato? Stando a certe interpretazioni di quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione dell’art. 609 bis cod. pen., approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati ed attualmente all’esame del Senato, la risposta dovrebbe essere positiva. Con riguardo, infatti, all’essenziale elemento di novità costituito dalla previsione che sussista il reato di violenza sessuale quando l’atto sessuale sia compiuto “senza il consenso libero e attuale“ del partner, leggiamo, nell’intervista rilasciata a “La Repubblica” il 14 novembre scorso da Paola di Nicola Travaglini, magistrato di cassazione e tra i massimi esperti in materia di reati sessuali, che, finalmente, grazie ad esso, non sarebbe più “la vittima a dover testimoniare la propria resistenza all’aggressore per dimostrare di essere stata violentata” ma sarebbe “l’imputato a dover dare la prova di avere avuto il consenso della vittima”. Ciò nel presupposto – si afferma – che “il dissenso va sempre presunto”. Affermazione, questa, alla quale può riconoscersi fondamento soltanto – conformemente a costante giurisprudenza – soltanto con riguardo all’ipotesi di atti sessuali furtivi o repentini (che meglio sarebbero definibili, in realtà, come molestie) posti in essere nei confronti di soggetti con i quali non sia in precedenza intercorso alcun rapporto tale da poter fare ragionevolmente presumere un loro tacito consenso. Al di fuori di tale ipotesi, sostenere che il dissenso della donna vada sempre presunto equivale ad attribuire implicitamente carattere di reato all’atto sessuale in sé, per cui l’eventuale consenso di quella che viene, “a priori”, definita come “vittima” finirebbe per assumere la stessa identica funzione che, per la generalità dei reati che offendono beni disponibili, è propria della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, prevista dall’art. 50 cod. pen. ; causa di giustificazione della quale, secondo le regole generali, spetta, in effetti, all’imputato, se non dare la prova, quanto meno allegare la plausibile sussistenza. Ed è curioso che ad una tale interpretazione accedano anche buona parte di coloro che si mostrano contrari all’innovazione normativa in discorso, con la sola differenza che essa viene assunta come motivo non di sostegno ma di critica.
Si tratta, però, di un’interpretazione di cui dovrebbe apparire evidente l’infondatezza. Tanto per cominciare, infatti, la nuova, proposta formulazione dell’art. 609 bis. cod. pen. non incide sul fondamentale principio che, in materia penale, è l’accusa, rappresentata dal pubblico ministero, a dover dare la prova della sussistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato. E la prova, nel caso della violenza sessuale, deve avere per oggetto non solo l’avvenuta realizzazione (o tentata realizzazione) di un atto sessuale tra due soggetti, ma anche la mancanza di consenso da parte di uno di essi e, quindi, la qualificabilità, altrimenti esclusa, dell’atto medesimo come reato. Mancanza, quella ora detta, che da altra fonte non può desumersi che non sia quella della stessa vera o presunta vittima, la quale dovrà, quindi, necessariamente chiarire anche se e come il dissenso fosse stato manifestato tanto da renderlo chiaramente percepibile al presunto responsabile. Solo sulla base di tali acquisizioni l’imputato potrà poi essere gravato dell’onere di fornire la sua versione dei fatti adducendo, eventualmente, a sua difesa che il dissenso non c’era o non era percepibile. Ed è da aggiungere, in proposito, che quand’anche di ciò egli non potesse fornire la prova, basterebbe soltanto la riscontrata verisimiglianza del suo assunto ad imporre, a rigore, una pronuncia assolutoria, sulla base dell’antico e noto principio dell’“in dubio pro reo” (anch’esso non derogato né derogabile dalla nuova legge) che trova attualmente espressione nell’art. 533 cod. proc. pen., secondo cui può pronunciarsi sentenza di condanna soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Appare, quindi, difficilmente contestabile che, per quanto attiene al regime probatorio, la nuova formulazione dell’art. 609 bis cod. pen. non apporterebbe alcuna sostanziale novità rispetto al passato. 1
2. La vera novità appare piuttosto quella costituita dal problema che si pone circa i rapporti tra quelle che sembrerebbero le due diverse modalità con le quali potrebbe venire a realizzarsi il reato di violenza sessuale: la prima, di nuova formulazione, costituita dal compimento dell’atto sessuale in assenza del “consenso libero e attuale” del partner; la seconda – già ora prevista e che si vorrebbe mantenere – costituita dalla costrizione o induzione della persona offesa a compiere o subire atti sessuali mediante una o più delle condotte menzionate nell’attuale formulazione dell’art. 609 bis cod. pen.: impiego di violenza, minaccia o abuso di autorità; abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa; inganno della medesima mediante sostituzione di persona. E che alle due diverse modalità corrispondano, nell’intenzione dei redattori del progetto di legge in questione, due distinte ipotesi di reato appare manifesto ove si consideri che la prima è corredata dalla previsione della relativa pena e la seconda è preceduta dalla espressa previsione che chi la pone in essere vada soggetto “alla stessa pena” stabilita per la prima. Se ne dovrebbe, quindi, dedurre che potrebbe considerarsi non consenziente e, quindi, vittima di reato anche la donna che, pur malvolentieri, si sia prestata al compimento dell’atto sessuale senza esservi stata in alcun modo costretta o indotta mediante taluna delle condotte sopra menzionate. 2 Il che appare assai difficile da sostenere. Non sembra, infatti, potersi dubitare che, richiedendosi soltanto, nel novellando art. 609 bis cod. pen., che il consenso sia “libero e attuale” e non anche “espresso” o “esplicito”, esso possa essere tacito, vale a dire manifestato “per facta concludentia”.3 Nel qual caso sembra parimenti indubbio che ad esso dovrebbe assegnarsi la prevalenza – oggettivamente e, a maggior ragione, nella soggettiva percezione del partner – rispetto ad eventuali manifestazioni, puramente labiali, di dissenso, da riguardarsi, quindi, “tamquam non essent”, sempre che – si ripete – al partner non sia addebitabile alcuna forma di violento o, comunque, indebito condizionamento dell’altrui volontà. Il che non significa far carico alla donna dell’onere, per dar corpo al proprio dissenso, di opporsi fisicamente all’altrui iniziativa, dovendosi ritenere necessario e sufficiente che ella cerchi almeno di sottrarvisi quando da ciò non appaia ragionevolmente prevedibile che possano derivare pericoli per la sua incolumità personale. Va da sé, poi, che, ove tali pericoli presentino, invece, caratteri di concretezza, ciò da altro non potrebbe derivare se non dall’atteggiamento del partner, da riguardarsi, quindi, come minaccioso e, per ciò stesso, qualificabile come reato di violenza sessuale.
3. Occorre, tuttavia, riconoscere che, alla stregua di quanto finora osservato, la nuova ipotesi di violenza sessuale costituita dalla sola mancanza del “consenso libero e attuale” verrebbe a perdere, di fatto, ogni autonoma rilevanza, dal momento che essa potrebbe riscontrarsi solo in presenza di taluna delle condizioni che già oggi rendono configurabile il reato. Di qui la possibilità che, volendosi invece evitare un tale risultato, si finisca per sostenere la configurabilità del reato per il solo fatto che l’atto sessuale venga posto in essere ignorando la labiale opposizione della donna ma senza che vi sia (o vi sia stato in passato, con effetti nell’attualità) alcun impiego di violenza, minaccia, abuso o inganno volti a coartare o condizionare la volontà della presunta persona offesa. La validità del consenso tacito o “per facta concludentia” verrebbe, così, ad essere esclusa, per la prevalenza attribuita al solo dissenso verbale.
Una tale conclusione, però, oltre a contrastare con la regola di comune buon senso secondo cui, nel contrasto tra le parole e i fatti, sono questi ultimi, di norma, a dover assumere rilievo, 4 contrasterebbe, paradossalmente, anche con la Convenzione di Istambul del 2011 contro tutte le forme di violenza nei confronti delle donne, proprio in attuazione della quale si sostiene che dovrebbe introdursi la nuova formulazione dell’art. 609 bis cod. pen. Se è vero, infatti, che l’art. 36 di detta Convenzione fa derivare dalla sola mancanza di un libero consenso la configurabilità della violenza sessuale, è altrettanto vero che la stessa Convenzione, all’art. 40, prevede come illecito di minore gravità quello costituito dalle “molestie sessuali”, fatte consistere in “qualsiasi forma di comportamento indesiderato, verbale, non verbale o fisico, di natura sessuale, con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, segnatamente quando tale comportamento crea un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. 5 Se, dunque, la creazione, in particolare, di un “clima intimidatorio”, mediante una condotta che, per raggiungere un tale risultato, non può che essere caratterizzata almeno da minaccia o abuso di autorità, dovrebbe, secondo la Convenzione, dar luogo soltanto alla configurabilità del minore illecito di “molestie sessuali”, non si vede con quale logica, mancando anche la minaccia o l’abuso di autorità (oltre che, ovviamente, la violenza fisica) potrebbe ritenersi configurabile il più grave illecito di violenza sessuale in presenza del solo dissenso verbale della donna. E può essere interessante osservare che nel novellato art. 178 del codice penale spagnolo, pur dichiaratamente ispirato ad una “lettura” particolarmente rigida dell’art. 36 della Convenzione, sintetizzata nella formula del “solo sí es sí”, si afferma, tuttavia, che il consenso all’atto sessuale “si considera sussistente solo quando è stato liberamente espresso attraverso atti che, tenendo conto delle circostanze del caso, esprimono chiaramente la volontà della persona”. Sono, quindi, sempre e comunque gli “atti”, secondo questa norma, e non le semplici parole, quelli ai quali deve farsi riferimento per stabilire l’esistenza o meno di un valido consenso.
4. Anche con riguardo all’ipotesi che l’iniziale consenso sia revocato nel corso del rapporto sessuale sembra doversi ritenere che la revoca, per dar luogo alla configurabilità del reato a carico del partner che voglia invece insistere nel rapporto, non possa limitarsi a pure e semplici espressioni verbali ma debba essere accompagnata da movimenti o atteggiamenti, anche di minima entità ma che siano comunque tali da escludere che quelle espressioni nascondano o possano nascondere una tacita permanenza del consenso. Di una tale esigenza, in verità, non si fa menzione nelle numerose pronunce della Cassazione che si sono limitate ad affermare, spesso in modo alquanto apodittico e superficiale, la sussistenza del reato in caso di prosecuzione dell’atto sessuale nonostante la sopravvenuta revoca del consenso. Ma ciò si spiega in quanto, il più delle volte, alla revoca, più o meno esplicita, del consenso risultava aver fatto seguito, da parte dell’agente, l’impiego, in varia misura, di violenza o minaccia; il che bastava a rendere, di per sé, configurabile il reato. 6 Vi è, peraltro, da osservare che, in ogni caso, non si vede come potrebbe ritenersi giustificata una criminalizzazione della condotta volta alla prosecuzione del rapporto, senza impiego di violenza o minaccia, in presenza di una revoca del consenso che sia o appaia priva di qualsivoglia oggettiva giustificazione quale, ad esempio, potrebbe essere il rifiuto di una pratica sessuale diversa da quella concordata. E, d’altra parte, ove si ammettesse una tale criminalizzazione, essa potrebbe, a rigore, colpire anche la donna che, in ipotesi, cercasse di trattenere l’uomo intenzionato a ricorrere al “coitus interruptus” per evitare il rischio di una gravidanza che la donna, invece, volesse accettare o, addirittura, perseguire. E’ appena il caso di ricordare, infatti, che il reato di violenza sessuale, tanto nell’attuale quanto in quella che dovrebbe diventare la futura formulazione della norma incriminatrice, può essere indifferentemente commesso tanto da un uomo quanto da una donna, non potendosi in alcun modo escludere che anche quest’ultima, nella imprevedibile varietà delle possibili circostanze, sia in grado di esercitare, nei confronti dell’uomo, violenze o minacce ovvero di abusare della propria autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica in cui potrebbe trovarsi il partner di sesso maschile.
5. Conclusivamente sembra potersi affermare che, anzitutto, già l’attuale formulazione dell’art. 609 bis cod. pen. è, a ben vedere, del tutto in linea, nella sostanza, con l’art. 36 della Convenzione di Istambul, dal momento che essa, nel far dipendere la configurabilità del reato dall’avere l’agente posto in essere taluna delle condotte descritte nella norma e costituenti, esaustivamente, quelle normalmente idonee ad escludere o invalidare il consenso della presunta persona offesa, realizza, di fatto, per altra via, la stessa identica condizione che, nel citato articolo della Convenzione, viene fatta consistere nella mancanza di un libero consenso. Ben potrebbe, quindi, sostenersi che l’art. 609 bis cod. pen. non abbisogna, in realtà, di alcuna modifica.
Qualora, però si ritenesse opportuna o, addirittura, necessaria una riformulazione della norma per renderla anche formalmente aderente al testuale tenore dell’art. 36 della Convenzione, allora meglio sarebbe limitarsi prevedere che il reato sussiste alla sola condizione costituita dalla mancanza di valido consenso – magari specificando che questo può essere anche tacito – e lasciare che si giunga, quindi, per via interpretativa, alla necessaria conclusione che il consenso può dirsi mancante o invalido soltanto in presenza di condotte dell’agente che siano dello stesso tipo di quelle ora descritte nell’attuale art. 609 bis cod. pen. Con il che si eviterebbe il segnalato pericolo che proprio dalla formulazione della norma, qualora divenisse definitivo il testo approvato dalla Camera, potesse invece desumersi la configurabilità del reato pur quando l’agente si limiti a non tener conto del dissenso puramente labiale della presunta persona offesa, al quale si accompagni o faccia seguito una sua totale e libera acquiescenza.
“Last but not least”, dovrebbe, infine, introdursi, in adempimento di quanto previsto dall’art. 40 della Convenzione, una minore figura di reato, da denominarsi “molestie sessuali” o in altro analogo modo, volta a sanzionare gli atti sessuali non penetrativi compiuti contro la volontà del “partner”, con contestuale soppressione dell’attenuante speciale prevista dall’ultimo comma dell’art. 609 bis cod. per “i casi di minore gravità”.
Pietro Dubolino
- Analogo appare, in argomento, l’orientamento espresso dalla Commissione diritto e procedura penale dell’Associazione nazionale magistrati nel parere redatto il 30 novembre 2025 per il Senato, secondo cui “Non pare….. fondato il timore, espresso da più parti, di un ribaltamento dell’onere della prova”, atteso che: “Resta pur sempre a carico della pubblica accusa l’onere di provare l’assenza di un consenso libero ed attuale al momento della commissione dell’atto sessuale; spetta poi al giudice la ricostruzione del fatto storico, alla luce degli elementi disponibili, onde ricostruire se, in un determinato contesto, vi sia stato o meno il consenso all’atto”. Ad un onere probatorio in materia di consenso si accenna, invece, nel parere espresso dall’Organismo congressuale forense il 3 dicembre 2025, con il richiamo a talune pronunce della Cassazione (in particolare quelle nn. 38909/2024, 3326/2021, 52835/2018), dalle quali, però, si rileva che il detto onere ha per oggetto non il consenso della presunta persona offesa ma l’errore nel quale, sul punto, l’imputato assuma di essere caduto, invocando, al riguardo, l’art. 47, primo comma, cod. pen.). ↩︎
- Tale sembra essere, ad esempio, l’opinione di B. Romano, il quale, su “Il dubbio” del 18 novembre 2025, critica il fatto che, nella proposta, nuova formulazione dell’art. 609 bis cod. pen., le condotte costituite da violenza, minaccia, abuso di autorità o di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, inganno di quest’ultima mediante sostituzione di persona, in quanto caratterizzate da maggiore gravità rispetto alla sola violazione del dissenso della persona offesa, non vengano previste come aggravante dell’ipotesi base. ↩︎
- In tal senso, fra gli altri, anche B. Romano, loc. cit. ↩︎
- Verrebbe qui in taglio la parabola evangelica dei due figli, uno dei quali, invitato dal padre ad andare a lavorare nella vigna, dice di no, ma poi va, mentre il secondo, a fronte di analogo invito, dice di si ma poi non va. La conclusione alla quale Cristo vuole indurre i suoi ascoltatori è, ovviamente, quella che è stato il primo e non il secondo ad adempiere alla volontà del padre (Matteo, 21, 28 -31). ↩︎
- Da segnalare, al riguardo, che da più parti, traendo spunto dalle problematiche derivanti dalla proposta riformulazione dell’art. 609 bis cod. pen., si è segnalata l’opportunità che all’unica tipologia di reato, riguardante indifferentemente la generalizzata categoria degli “atti sessuali”, se ne sostituiscano due, differenziando il trattamento sanzionatorio a seconda della maggiore o minore invasività degli atti sessuali. Il che risponderebbe anche a quanto, appunto, previsto dalla Convenzione di Istambul. In tal senso, oltre al citato parere dell’Organismo congressuale forense, anche quello espresso dall’Unione camere penali italiane il 2 dicembre 2025 e, più in dettaglio, lo scritto di A.Cadoppi, Violenza sessuale: la svolta verso un modello “consensuale”- Suggerimenti minimi per una riforma in linea coi principi fondamentali del diritto penale, in Sistema penale del 9 dicembre 2025. Si ricorderà, del resto, che, fino alla riforma del 1996, nel codice penale era contenuta la distinzione – soppressa ad apparente furor di popolo dai riformatori – tra il reato di “violenza carnale”, per la cui configurabilità era richiesta la congiunzione carnale di qualsiasi tipo, ed il meno grave reato di “atti di libidine violenti”, nella cui categoria rientravano tutti gli atti sessuali diversi dalla congiunzione. ↩︎
- Potrebbe in contrario evocarsi la sentenza n. 29356/2024 della Cassazione, nella cui massima ufficiale si afferma che: “In tema di violenza sessuale, l’esplicita e iniziale manifestazione di dissenso all’intrusione altrui nella propria sfera sessuale da parte della persona offesa non può ritenersi superata dai suoi successivi e impliciti comportamenti concludenti di segno contrario, sicché non è consentito all’agente confidare sulla mancata veridicità di un dissenso esplicito”. In base a tale principio, infatti, ben potrebbe sostenersi, anche con riguardo al dissenso non originario ma sopravvenuto, che i successivi “comportamenti concludenti di segno contrario” non escluderebbero il reato, pur in assenza di violenza, minaccia, abuso di autorità o abuso condizioni di inferiorità fisica o psichica della presunta persona offesa. Si tratta, però, di un principio che, in questi termini, non potrebbe certamente essere condiviso, dal momento che, per logica e per comune buon senso, deve darsi per scontato che il rifiuto che, in qualsiasi materia, venga opposto ad un’altrui richiesta perde valore a fronte di una successiva, libera accettazione della medesima richiesta “per facta concludentia”. Devesi, tuttavia, osservare che, dalla lettura dell’intera motivazione della sentenza in discorso, sembra evincersi che la Cassazione abbia, in realtà, soltanto inteso avallare il giudizio di fatto espresso dalla corte d’appello che, ribaltando l’assoluzione pronunciata all’esito del giudizio di primo grado, aveva ritenuto che ilo comportamento tenuto, da un certo momento in poi, dalla persona offesa non fosse inequivocabilmente dimostrativo della revoca dell’originario dissenso. ↩︎