Dopo aver invitato alla lettura dell’opera del professor Mauro Ronco, dal titolo ‘Voluntas ut ratio’, ne pubblichiamo una più estesa recensione a firma di Gabriele Civello.
1. Secondo la filosofia perenne che trova in San Tommaso d’Aquino il proprio culmine, la nozione di “volontà” avrebbe quantomeno due significati: la voluntas ut natura e la voluntas ut ratio[1].
La voluntas ut natura è la volontà umana la quale, per sua stessa essenza di appetito spirituale, ha per oggetto il bene nella sua universalità più ampia (c.d. “bonum in communi”), e in quanto, essendo appetito dell’uomo come persona, tende a un fine specifico e proprio dello stesso; si tratta dell’appetito umano che consegue a ciò che chiamiamo comunemente “intelligenza immediata” e che è caratterizzato necessariamente da una forma di intenzionalità verso il suo proprio oggetto.
Di contro, la voluntas ut ratio è la volontà intesa autenticamente come libertà; si tratta cioè dell’appetito che fa seguito alla conoscenza razionale o discorsiva propria dell’uomo. Come la ragione dipende dall’intelligenza immediata come suo stesso principio, così anche la libertà dipende dalla predetta voluntas ut natura. L’appetito intellettuale del bene – che ha la stessa universalità della ragione dell’ente e della verità –, e l’appetito del fine ultimo e specifico dell’uomo – quella che Aristotele chiamava eudaimonia e che possiamo tradurre con “felicità” – costituiscono i principi del volere. La libertà, dunque, rispetto alla volontà come appetito universale del bene, è l’indifferenza dominante della volontà rispetto a ogni bene finito che, in quanto tale e nella misura della conoscenza razionale dell’uomo, non ha il carattere di universalità del bene in generale. A sua volta, rispetto alla volontà come appetito del fine, essa appare come la facoltà di volere – e di scegliere – i mezzi che conducono a quel fine.
Movendo da tale somma dicotomia, lo studio di Mauro Ronco sulla Voluntas ut ratio – dedicato all’Ateneo patavino in occasione degli ottocento anni dalla sua fondazione – si propone di scandagliare la lunghissima parabola che va dalle nozioni di “volontà” e di “libertà” nella tradizione filosofica occidentale – soprattutto aristotelica (cfr. il cap. I dell’opera) – sino alla c.d. “teorica della colpevolezza normativa” fondata da Reinhard Frank al principio del secolo XX, giungendo poi ai dogmi del comportamentismo psicologico, anticamera dell’ulteriore oscuramento della volontà nel diritto penale contemporaneo.
La tesi fondamentale sostenuta dall’Autore è che la storia del pensiero giuridico-morale dell’Occidente non sia altro che una progressiva corruzione dell’originario paradigma della volontà come elemento reale dell’agire umano, via via sostituito da forme sempre più sofisticate e “virtuali” di voluntas normativizzata, non più intesa come espressione del reale e concreto dinamismo della persona umana, bensì come “ipostasi” sulla quale si sedimentano le cangianti incrostazioni sociali e giuridiche espresse dalla norma penale e dalle pretese ad essa sottese.
2. Il primo segnale della curvatura riduzionistica della volontà e della libertà nella filosofia della modernità viene individuato da Mauro Ronco nella confusione tra “volontà” e “desiderio” avviata dall’empirismo di David Hume, sin dal Trattato sulla natura umana (cfr. il cap. II dell’opera recensita).
Partendo dalla negazione dell’idea di “causa” – sostituita da criteri esperienziali di pura connessione contingente e “abitudinaria” tra determinati fattori materiali – il filosofo scozzese frantumò ben presto l’idea tradizionale dell’efficacia attiva della volontà rispetto agli accadimenti del mondo: l’uomo, afferma Hume, si crede autore e causatore degli eventi esteriori e, per di più, reputa di poter essere causa volontaria degli stessi. In realtà, l’idea di volontà, come quella di causa, è pura chimera per l’empirista, poiché essa è solo un’impressione interna al pari dei desideri e delle avversioni, delle angosce e delle gioie, delle speranze e dei terrori. In definitiva, non vi sarebbe alcuna distinzione reale tra volontà e desiderio, poiché la prima, al pari del secondo, esprimerebbe un mero auspicio interiore, pura velleità intima incapace di incidere sul mondo, producendo conseguenze reali e oggettive.
Analoghe conseguenze riduzionistiche derivarono dal materialismo della volontà nell’illuminismo francese: in particolare, con Diderot e D’Alambert, la volontà dell’uomo venne ridotta a puro fenomeno psichico indotto dalle sensazioni che provengono dagli oggetti esteriori, con conseguente radicale negazione di ogni libero arbitrio.
Proprio nell’humus dell’empirismo e del sensismo europeo avrebbero, poi, germogliato alcune teorie penali caratterizzate da un generale offuscamento della volontà intesa come ratio e libertà dell’uomo, nel suo reale dinamismo mondano.
A tal riguardo, nella Revision di Paul Johann Anselm Ritter von Feuerbach (1775-1833), si assisté alla più radicale separazione tra volontà e libertà: la volontà, infatti, venne spogliata della libertà, perdendo il suo contatto formale con la conoscenza intellettuale e divenendo, così, schiava dell’oggetto sensibile e delle percezioni sensoriali. Contro l’incombente devianza di una volontà dipendente dal desiderio sensibile, il rimedio divenne dunque l’intimidazione permanente che promana dalla minaccia del male della pena. Chi, violando il precetto, dimostra di non essere motivato dalla paura della pena è un soggetto pericoloso; pertanto, dovrà essere sottoposto alla pena.
Due sono le principali conseguenze di tale approccio, messe in luce da Mauro Ronco.
Anzitutto, la struttura psichica del dolo tende a restringersi alla mera dimensione delle facoltà cognitive, con la messa in disparte del momento propriamente volitivo; non è un caso che proprio con Feuerbach inizi la storia del c.d. “dolo eventuale”. In secondo luogo, con il tramonto dell’imputazione morale scompare la stessa “volontà colpevole”, intesa come disvalore intrinseco suscettibile di graduazione.
Lungo tale direttrice, la libertà viene ridotta al puro “agire violando la legge” nonostante l’intimidazione psicologica esercitata dalla pena; contestualmente, il concetto etico-morale di imputazione a volontà colpevole viene sostituito con quello di “punibilità”: il primo comportava un’ascrizione intrinseca di un fatto alle potenze conoscitive, volitive ed esecutive del soggetto agente; il secondo è un collegamento tutto estrinseco e stipulativo, quasi “a tavolino”, tra un determinato accadimento e le conseguenze che la legge assegna allo stesso, secondo la triade convenzionale “legge penale-pena-punibilità”. E ancora, il concetto di imputazione si legava alle idee tradizionali dell’intelletto, della ragione, dell’appetito razionale e dell’azione umana nella sua integralità; di contro, il nuovo concetto di punibilità è destinato a fondarsi sui nuovi parametri – pretesamente scientifici – dei “motivi”, delle “passioni” e delle inclinazioni a delinquere del reo.
A non migliori lidi condussero le altre teorie penali elaborate nel secolo XIX e a cavaliere con il secolo successivo.
Con Zitelmann e Von Liszt, la volontà diviene semplice impulso psichico, pura innervazione parificabile alla relazione causale esteriore, con il conseguente smarrimento dell’unità pratica tra conoscenza, finalità, intenzionalità e mozione dell’atto. Con Karl Binding – sulla scorta del portato irrazionalistico del pensiero di Schopenhauer – la volontà dell’uomo non sarebbe altro che ciò che scaturisce energicamente dal mistero della sua interiorità, tanto da ipotizzare la paradossale idea di una volontà senza conoscenza, vale a dire la presunta capacità di dare impulso a fatti o accadimenti né immaginabili né previsti dall’intelletto.
3. Il nucleo centrale della pars destruens dell’opera si rinviene nell’indagine di Mauro Ronco sulla c.d. “teorica della colpevolezza normativa” consacrata da Reinhard Frank nello scritto Über den Aufbau des Schuldbegriffs del 1907.
La ricerca dell’autore germanico sorge sulle ceneri delle teorie psicologiche della Schuld le quali, come detto, avevano variamente ridotto la culpa a puro impulso psichico collegato agli stimoli materiali, mera innervazione mentale ricondotta, nella sua sostanza, a una forma di esangue causalità “biologica” totalmente priva di ogni significato assiologico e, per di più, non suscettibile di alcuna graduazione di valore.
Quale reazione a tali erronee concezioni della colpevolezza, Frank propose di sostituire il concetto ormai logoro e asfittico di “Schuld” con quello – pretesamente più pregnante – di “Vorwerfbarkeit”, cioè di rimproverabilità, comprensivo di tutti quegli elementi non direttamente riconducibili al fatto tipico (Tatbestand) e all’antigiuridicità (Rechtswidrigkeit): il nuovo contenitore dogmatico della “colpevolezza” avrebbe, così, dovuto ricomprendere al proprio interno gli elementi del dolo e della colpa, l’imputabilità, la conoscibilità del precetto e ogni altra condizione personale necessaria al rimprovero e, dunque, alla punizione.
Sul punto, le critiche di Mauro Ronco risultano particolarmente rigorose e stringenti.
Anzitutto, la nozione normativa di “colpevolezza” – intesa, per l’appunto, come rimproverabilità – estirpa la Schuld da ogni referente ontologico e reale, affidando la stessa alle valutazioni contingenti ed estrinseche del potere politico o persino del singolo e contingente giudicante. Solo in apparenza, dunque, tale categoria sembra rinviare a un dato intrinsecamente personale, quando in realtà tale forma di rimprovero tradisce una natura essenzialmente oggettiva, fondata sulle pretese che l’ordinamento avanza rispetto alla persona del reo, non già sul concreto ed effettivo status soggettivo-personale dello stesso.
Inoltre, il contenitore stesso della “Vorwerfbarkeit” finisce per essere eccessivamente affollato e, soprattutto, estremamente eterogeneo e confuso, abbracciando elementi strettamente soggettivi del fatto tipico come il dolo e la colpa, elementi di teoria del reo come la colpevolezza, nonché l’infinita gamma di situazioni e circostanze tali da escludere la punibilità per ragioni di scusa o di inesigibilità.
Infine, la colpevolezza normativa esibisce un’evidente contraddizione o quantomeno una tautologia: la Schuld, infatti, non viene definita in sé e per sé, nel suo proprium, ma solo rispetto alla sua conseguenza, vale a dire la rimproverabilità, presupposto della punibilità. Ma dire che “colpevolezza” è “rimproverabilità” significa – obietta a questo punto l’Autore – determinarne il contenuto attraverso il giudizio che dall’esterno – dal giudice o dall’ambiente sociale – viene proiettato sul fatto commesso dal soggetto.
In definitiva: la colpevolezza in senso normativo – poi recepita in modo variegato in Italia da autori del calibro di Giacomo Delitala, Marcello Gallo, Dario Santamaria e Mario Romano (cfr. il § 6 del cap. III) – finisce per esprimere la divergenza della condotta rispetto a ciò che è dovuto in quanto sovraordinato all’agire del soggetto sul piano dei valori, nulla così aggiungendo – in termini di soggettivizzazione e personalizzazione dello strumento penale – rispetto ai concetti oggettivi di tipicità e di antigiuridicità.
In particolare, la curvatura normativa impressa allacolpevolezza fa sì che la stessa venga scissa in due tronconi: la prima fase è contrassegnata dagli elementi motivazionali, dalla sensazione al bisogno, dalla riflessione al desiderio e alla rappresentazione dei motivi ad agire; in definitiva, tutto ciò che attiene al “prima” della risoluzione, interpretato in chiave psicologica, va a confluire nella categoria della colpevolezza. Dopo l’innervazione e il conseguente atto di volontà, che segna il confine tra il “prima” e il “dopo”, subentra la condotta volontaria antigiuridica, che va a confluire nella categoria del “fatto antigiuridico”.
Così facendo, viene totalmente accantonato o quantomeno messo tra parentesi il vero momento saliente dell’atto umano giuridicamente rilevante, vale a dire proprio quella libera volontà che costituisce l’intercapedine autenticamente personale tra la pressione della psiche e l’agito materiale: come segnala l’Autore, la volontà che si radica nel libero arbitrio della persona umana viene, così, schiacciata tra l’incudine dei motivi e il martello della materialità della condotta. In tal modo, il processo della formazione della volontà resta estraneo alla questione se esista o meno un fatto antigiuridico: il torto è inteso come attuazione antigiuridica della volontà; la colpevolezza diviene la mera formazione rimproverabile di un volere.
La divisione tra formazione del volere e sua attuazione si ripercuote, poi, in una serie di dicotomie: “fissazione dello scopo” vs. “attuazione dello scopo”; “governo dell’impulso” vs. “governo del comportamento”; “motivazione” vs. “azione”; “libertà del volere” vs. “libertà dell’azione”. Ciò con conseguenze dogmatiche di carattere epocale: si pensi solo all’ambiguità del dolo e della colpa intesi come frammenti sia della fase motivazionale, sia della fase attuativo-esecutiva del volere, secondo la teorica della c.d. “doppia funzione” degli elementi soggettivi della fattispecie.
4. Il quarto capitolo di Voluntas ut ratio è interamente dedicato ai Dogmi del comportamentismo psicologico e l’ulteriore oscuramento della volontà nel diritto penale.
In estrema sintesi, il comportamentismo è quella teoria psicologica che, soppiantando i concetti tradizionali di “volontà” e persino di “coscienza”, riduce lo studio della psiche umana alle sole nozioni di impulso, reazione e adattamento; in breve, alla nozione di “comportamento”.
Campione di tale impostazione è senz’altro Gilbert Ryle (1900-1976) il quale, nell’opera The Concept of Mind (1949), si domanda cosa si intenda sotto le parole “mentale” o “situazioni mentali”. A differenza dei comportamentisti psicologici o metodologici, che mettono in disparte i dati della coscienza, ritenendoli non osservabili e, quindi, inattendibili in sede scientifica – ricadendo così nel materialismo meccanicistico ovvero ammettendo la possibilità di un mondo non osservabile accanto a quello osservabile –, l’intento di Ryle è di negare entità reale alle descrizioni in chiave mentale.
I concetti mentali, secondo Ryle, sono descrizioni di disposizioni, e non di eventi; essi designano capacità, tendenze, indicazioni a fare delle cose. Come bene spiega Sandro Nannini, “le spiegazioni del comportamento umano in termini psicologici non sono causali, bensì disposizionali. I termini psicologici non si riferiscono a stati o eventi ‘interni’, bensì esprimono tendenze, disposizioni comportamentali”.
Sulla stessa linea di Ryle fa un ulteriore passo Wilhelm Kamlah (1905-1976), che trae le conseguenze antropologiche dell’analisi semantica. Secondo questo Autore, con la parola “volere” si vuol significare che l’agente ha preso una decisione; che egli non l’ha modificata e che l’azione è conseguenza della decisione. “Volere” non è un’azione, e neppure una facoltà mentale, bensì la parola con cui noi parliamo delle decisioni non modificate, finché non siano eseguite. Consegue da ciò che “nell’antropologia abbiamo bisogno del termine «decisione», e non volontà”.
Il rimanente capitolo IV di Voluntas ut ratio è interamente destinato a comprendere quali siano le conseguenze, in termini penalistici, delle teorie psicologiche di stampo comportamentistico – pressoché tutte legate al dogma dell’assenza di libertà in capo al volere dell’uomo –, con speciale riferimento al processo di c.d. “normativizzazione” del dolo.
A tal proposito, l’Autore dedica ampio spazio all’analisi e alla critica delle concezioni normativistiche del dolo elaborate da Claus Roxin, Winfried Hassemer e Bernd Schünemann.
Pur nella differenza di vedute caratterizzante ciascuna figura di studioso, ciò che accomuna i tre penalisti tedeschi è l’intenzione di non esaminare più il dolo quale deliberazione razionale interna al soggetto agente, frutto della libera ponderazione tra motivi, intenzioni e impulsi esteriori; infatti, tali stati interiori vengono presunti come inesistenti o quantomeno come assolutamente inconoscibili.
A tale approccio classico – ancora presente, ad esempio, nell’ontologismo residuale di Armin Kaufmann – i citati penalisti contrappongono una nuova ricostruzione del dolo quale semplice concetto o predicato disposizionale, tutto aderente ai dati deontico-normativi della figura penale: il dolo non è più inteso come espressione di una volontà libera dell’agente, ma è via via trasformato in “decisione per la lesione del bene giuridico”.
È questa la ragione per la quale, nelle teorie normative, ampio spazio viene dato alla figura estrema del dolo eventuale: ciò che rende “doloso” un determinato atto umano non è tanto e non è più l’intenzione razionale verso un evento, quanto l’oggettiva curvatura del comportamento contrario al comando normativo. Ciò che conta non è una effettiva presa di posizione contro il bene giuridico, poiché vi è dolo anche quando, pur in assenza di detta “presa disposizione” espressa ed esplicita, il soggetto agente si dia conto della possibilità della produzione di un determinato risultato e, nonostante ciò, non desista dal proprio progetto di azione, manifestando indifferenza verso la produzione del risultato dannoso o pericoloso.
Emblematico l’approdo di Roxin in subiecta materia, dapprima nello scritto in onore di Rudolphi (2004) e, poi, nel Trattato (ed. 2006): “il concetto di decisione, come tutti i concetti giuridici, non deve essere valutato come puro fenomeno psichico, bensì secondo parametri normativi”. E ancora: “la delimitazione del dolo eventuale dall’imprudenza cosciente non è possibile senza un parametro normativo di valutazione”.
Come conclude l’Autore di Voluntas ut ratio, il punto cruciale sta nel passaggio dal dolo come complesso di elementi psichici, al dolo come interpretazione di un complesso di elementi esistenziali; da ciò deriva un’ulteriore importante conseguenza: per i “normativisti del dolo”, i c.d. “indicatori oggettivi” della dolosità del comportamento non assurgono a semplici indici o indizi di uno stato psicologico, ma si infiltrano e si incarnano a tal punto da diventare, essi stessi, parte integrante ed essenziale del concetto sostanziale di “dolo”.
D’altra parte, la normativizzazione della colpevolezza produce esiti rilevantissimi anche in tema di responsabilità colposa (cfr. il § 4 del cap. IV): quest’ultima, infatti, a maggior ragione rispetto al dolo, viene ridotta a pura inottemperanza a una regola cautelare di condotta o, addirittura, a pura creazione di un rischio non consentito; con la conseguenza che, una volta accertata l’antiprecettività della condotta materiale e il generico “nesso di rischio” tra la regola violata e l’accadimento esteriore, può tendenzialmente imputarsi al soggetto agente ogni e qualsivoglia conseguenza materiale che da tale condotta sia derivata, senza necessità di stabilire se tale conseguenza fosse concretamente dominabile dal governo epistemico, volitivo ed esecutivo del soggetto agente. Inevitabile, in tal caso, l’enorme espansione dell’area del dolo eventuale, a scapito del naturale perimetro della negligenza cosciente o persino incosciente.
5. A giudizio di Mauro Ronco, le aporie e i deficit che affliggono le concezioni normative della colpevolezza derivano, paradossalmente, dal previo impoverimento del dolo e della colpa ad opera delle precedenti teorie naturalistiche, le quali avevano estirpato tali concetti dal piano del volere e, soprattutto, della libertà del volere.
Solo il recupero del radicamento della Schuld nel basamento della libertà razionale del volere consente, pertanto, di confutare il materialismo e il fisicalismo delle teorie psicologiche ottocentesche, senza tuttavia cadere nell’opposto errore di un normativismo esasperato della culpa.
Tale recupero, peraltro, avviene in Voluntas ut ratio non solo valorizzando nuovamente le grandi verità della psicologia e dell’antropologia classiche – che affondano nel platonismo e nell’aristotelico-tomismo le proprie radici –, ma anche allegando le più aggiornate risultanze di matrice neuro-scientifica e psichiatrica.
La scoperta del c.d. “potenziale di prontezza dell’azione” (Bereitschaftpotential) e le altre importanti intuizioni nella psicologia e della neurologia contemporanee, confutatrici del paradigma cartesiano della separazione tra anima e corpo e della negazione della libertà d’agire, fanno riaffiorare prepotentemente concetti che, invece, la maggioranza dei penalisti avevano accantonato come quello di “intenzione” e di “agentività” (peraltro sempre rimasti ben presenti e vigili nel senso comune e nelle prassi sociali); i nuovi approdi neuroscientifici, inoltre, dimostrano che la catena che va dalla rete neuronale all’azione materiale non è in alcun modo decifrabile nei termini di una lineare consecutio “causa/effetto”: infatti, “la percezione cosciente può anche seguire l’input sensoriale, ma il percepito è stato oggetto di operazione in una duplicità di modi, grazie anzitutto alla stratificazione delle passate esperienze vissute dal soggetto e, in secondo luogo, tramite le relazioni reciproche che, attraverso il contributo in via principale della corteccia entorinale, si creano tra le varie cortecce sensitive. Si verificano continuamente scambi e impulsi tra i recettori e le cortecce sensitive; ogni area del cervello è soggetta a una destabilizzazione continua proprio a causa dell’impatto di tali impulsi”.
Anche alla luce delle importanti scoperte o riscoperte neuroscientifiche contemporanee, nonché rivalutando alcune riflessioni classiche sul ruolo della libertà rispetto al dinamismo pratico dell’uomo, Mauro Ronco è in grado, nel quinto e ultimo capitolo dell’opera, di trarre alcune conclusioni particolarmente pregnanti circa I corollari della libertà nel diritto penale.
Anzitutto, contro le tendenze normativizzanti della contemporaneità, si tratta di porre nuovamente al centro della scienza penale il concetto di “imputazione”, ingiustamente posposto a quello di “responsabilità”: non già un reato ci viene imputato, poiché ne siamo giudicati responsabili secondo criteri puramente normativi, ma – al contrario – saremo giudicati penalmente responsabili solo di quei fatti che ci siano stati previamente imputati, vale a dire siano stati ricondotti alla nostra sfera di libertà, di libera volontà. Non è che l’uomo venga giudicato in culpa in quanto egli risulti colpevole secondo il giudizio sociale cristallizzato nel giudizio penale (quasi che si assistesse alla crasi tra colpevolezza e antigiuridicità) ma, al contrario, l’uomo risulterà giuridicamente colpevole nella misura in cui sarà stata previamente accertata, in capo allo stesso, una culpa nei termini del dolo o della negligenza, e cioè nei termini di abuso della libertà.
Quanto poi alla collocazione della colpevolezza nel quadrante della teoria penale, l’Autore è in grado di chiarire i rispettivi rapporti che intercorrono tra gli elementi soggettivi del fatto e la “capacità di imputazione” tradizionalmente collocata nel contenitore della Schuld: “la capacità di imputazione, da un canto, è uno stato del soggetto; la volontà dell’atto, da un altro canto, esprime il dinamismo della persona verso il fine. […] Il dolo e la colpa rientrano logicamente entro la sfera del fatto tipico, poiché non vi è fatto tipico senza l’apporto tanto della “forza materiale”, quanto della “forza morale” della persona umana. La Culpa, allora, come abuso della libertà personale, appartiene alla teoria del reo e l’imputabilità ne diviene presupposto imprescindibile”.
Voluntas ut ratio, in definitiva, rappresenta il tentativo di rimettere al centro del quadrante penale la colpevolezza come abuso di libertà, nonché di confutare in pari grado sia le teorie che riducono la culpa a mero impulso psichico, sia le tendenze normativizzanti che, impregnando la valutazione di dolo e di colpa con il distillato delle pretese sociali, estirpano la colpevolezza dal piano reale dell’agentività umana, schiacciando la stessa entro i parametri interamente virtuali e stipulativi del dover essere giuridico.
Si tratta, in altri termini, per Mauro Ronco di recuperare la voluntas ut ratio prima e al di là di ogni criterio normativo, e dunque all’interno della concreta persona agente, senza tuttavia ricadere negli ingenui riduzionismi del materialismo e del naturalismo, cercando cioè di comprendere nuovamente la profondità e lo spessore spirituali da cui sgorga la fonte della libertà e della dignità umana.
[1] Sul punto, in modo chiarissimo, F.A. Lamas, El hombre y su conducta, Circa Humana Philosophia, Buenos Aires, 2013, 115, da cui traiamo le definizioni di voluntas ut natura e voluntas ut ratio citate nel corpo del testo.