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  1. Le economie di mercato si caratterizzano, per loro natura, per un andamento ciclico: i periodi di espansione culminano nel momento di saturazione della domanda; alla saturazione della domanda fa seguito una flessione della curva dell’offerta che, raggiunto un certo livello, viene riattivata dai nuovi bisogni della domanda, dando così vita a una nuova fase espansiva. A sua volta, il vigore dell’offerta genera per la comunità esternalità positive, come l’aumento dell’occupazione o l’incremento del gettito tributario. Può anzi dirsi che, se obiettivo fondamentale delle odierne democrazie occidentali è il mantenimento di una welfare community capace di soddisfare le esigenze di vita che i cittadini non sono in grado di fronteggiare autonomamente, sono proprio le esternalità positive connesse alla solidità dell’offerta ad essere il beneficio principale delle fasi espansive nell’ottica del bene comune e dell’economia pubblica.
    L’andamento ciclico sopra descritto si verifica tanto nelle fasi di svolgimento ordinario della vita economica, quanto a maggior ragione a seguito di eventi negativi eccezionali: infatti essi determinano, da un lato, una flessione repentina della domanda e dell’offerta e, dall’altro lato, a cessazione dell’evento straordinario, una più vigorosa ripresa della domanda, capace di stimolare l’offerta e le sue esternalità positive.
    L’esperienza storica ne ha tradizionalmente dato prova. Per rimanere al caso più eclatante per l’Italia, alla devastazione del Secondo Dopoguerra ha fatto seguito il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. E’ pertanto lecito ritenere, oltre che auspicare, che la cessazione dell’emergenza sanitaria causata dall’epidemia di coronavirus determini l’insorgenza di condizioni assimilabili per una ripresa economica.
  2. La sfida è, a questo riguardo, quella di interpretare in chiave economica le peculiarità della situazione odierna al fine di individuare gli strumenti economici e giuridici più appropriati per favorire e sostenere la rinascita.
    In questa prospettiva, occorre anzitutto prendere atto che l’esperienza storica si presta a offrire indicazioni soltanto di principio. Troppo diversi sono i contesti attuali rispetto a quelli verificatisi in passato per poter trarre spunto in merito al contenuto delle specifiche misure da adottare. Rispetto, ad esempio, alla situazione del Dopoguerra, si è oggi di fronte a un dramma che presumibilmente non avrà un momento di cesura netto, come fu la fine della guerra, poiché gli strascichi dell’epidemia si prestano a perpetuare i loro effetti anche dopo la cessazione della fase più acuta: ciò renderà la ripresa più lenta e meno decisa. Sempre rispetto alla situazione del Dopoguerra, oggi lo Stato Italiano:

    •  non può più disporre della politica monetaria, ossia del più potente strumento del governo dell’economia, che la Repubblica ha ceduto al sistema Euro;
    •  non può più disporre della politica daziaria, che ha ceduto alla competenza dell’Unione Europea e al sistema del WTO;
    •  subisce un contesto di globalizzazione economica esasperata in cui le imprese sono state nel tempo sostanzialmente incentivate a delocalizzare la produzione all’estero o comunque a compenetrarsi fortemente con realtà estranee alla comunità nazionale e per le quali, quindi, l’incremento dell’offerta (e, quindi, della produzione) non si presta a generare esternalità positive (in termini, ad esempio, di occupazione e partecipazione agli oneri tributari) per la comunità nazionale.

    Molte delle misure adottate nel Dopoguerra e che hanno consentito il boom economico, quindi, non sarebbero oggi neppure concepibili, sebbene la Costituzione non sia cambiata e i principi fondamentali del nostro ordinamento, su cui si è fondato l’intervento economico per il Dopoguerra, siano rimasti giuridicamente immutati. Dall’esperienza pregressa si può, quindi, trarre essenzialmente l’indicazione generalissima che per favorire la rinascita economica lo Stato deve fare quanto nelle proprie possibilità per sostenere la domanda, in modo che essa traini l’offerta, e per sostenere l’offerta, in modo che essa sia in grado di sostenere l’impeto della rivitalizzata domanda e produca quelle esternalità positive per la comunità (occupazione, gettito tributario ecc.) che sono l’obiettivo fondamentale che l’intervento pubblico nell’economia deve garantire nelle odierne democrazie occidentali per realizzare una comunità del benessere.
    Né la situazione si presta ad essere replicata immaginando come contesto di riferimento per gli interventi di sostegno all’economia un orizzonte diverso da quello dello Stato. Infatti, le predette funzioni monetaria e daziaria sono state affidate a sistemi giuridicamente distinti: il sistema Euro, infatti, non coincide con l’Unione Europea e tanto meno essi coincidono con il WTO. Ciò rende manchevole il presupposto giuridico per una politica opportunamente coordinata. Inoltre, nessuno dei contesti sovranazionali depositari delle funzioni suddette è dotato di una funzione politica autonoma. Conseguentemente, continuano ad essere essenzialmente gli Stati che ne sono membri a decidere le misure che tali istituzioni possono adottare e, in verità, anche a disporre la destinazione delle risorse economiche che le istituzioni stesse dovessero ridistribuire tra i membri.
    Da ciò consegue che il sistema attuale conferisce una sorta di potere di veto ai singoli Stati membri dell’organizzazione sovranazionale contro le misure proposte e richieste dagli altri Stati per affrontare la crisi economica, senza tuttavia offrire in cambio garanzie di strumenti comuni per sostenere l’economia. In questa prospettiva, il fallimento dell’Eurogruppo del 25 marzo 2020 e della proposta dell’emissione di “coronabond” europei risulta emblematica di due dati. Anzitutto, i singoli Stati devono prepararsi ad affrontare principalmente da soli la crisi economica e il sostegno alla ripresa: laddove, poi, giungano dalle istituzioni sovranazionali o da altri Stati aiuti per la ripresa (come fu il piano Marshall nel Dopoguerra), tanto meglio, ma essi non appaiono allo stato attuale profilarsi all’orizzonte e, conseguentemente, non sembra ragionevole farvi troppo affidamento. Occorre, quindi, iniziare a programmare la ripresa anzitutto rimboccandosi le proprie maniche, senza confidare in un deus ex machina. In questo contesto, in cui gli interessi nazionali degli Stati “rigoristi” sono talmente virulenti da impedire di fronteggiare economicamente la crisi e la ripresa in modo coeso, non ha senso ipotizzare una evoluzione in senso politico delle istituzioni sovranazionali di riferimento (in particolare, dell’Unione Europea).
    Il contesto attuale rende, pertanto, molto più complicato intervenire per favorire e sostenere la rinascita economica del Paese. Sul piano generale, tale constatazione non può non indurre a riflettere sull’effettiva idoneità dei percorsi intrapresi dallo Stato italiano sul piano internazionale e sovranazionale a tutelare gli interessi nazionali: e tale domanda si pone in modo tanto più impellente in quanto i partner internazionali che agiscono nei medesimi contesti, invece e come accennato, ai propri interessi nazionali guardano sempre con esasperata attenzione. Sul piano più specifico, risulta in definitiva che gli strumenti operativi di cui lo Stato Italiano può disporre nell’immediato futuro sono essenzialmente quelli finanziari e di politica del lavoro e fiscale (nella parte in cui rimasta ancora nel dominio della sovranità statale).
    Occorre, quindi, studiare come modulare tali leve per sostenere la domanda e l’offerta e non farsi trovare impreparati alla fine della crisi. Dalle considerazioni sopra esposte emerge che si tratterà, per natura, di strumenti  volti a sostenere la domanda interna e la produzione interna, non avendo uno Stato come la Repubblica Italiana la forza economica di potere influire sulla domanda estera (come ebbero modo di fare, invece, gli Stati Uniti con il Piano Marshall) né sull’offerta estera (per natura indisponibile alla sovranità di altri Stati). Si tratterà, inoltre, di misure da finanziare nell’immediato anche con l’indebitamento, come del resto sostenuto anche da Mario Draghi nel suo intervento sul Financial Times del 26 marzo: ciò se possibile in un contesto di riforma fiscale capace di valorizzare la generosità degli Italiani e, così, massimizzare il gettito rendendoli maggiormente motivati a concorrere alle pubbliche spese, secondo i principi esposti nel commento “Emergenza coronavirus e finanziamento della spesa pubblica: è possibile trarre indicazioni per la futura politica fiscale italiana?”, in Rivista Telematica di Diritto Tributario, 28 marzo 2020.

  1. Sul piano logico, gli strumenti di sostegno dell’offerta appaiono preliminari rispetto a quelli di sostegno della domanda. Occorre, infatti, che le condizioni per la rivitalizzazione della domanda siano preparate in anticipo, in modo tale che il sistema economico non si trovi impreparato di fronte alla fine della crisi e alla rivitalizzazione della domanda. Farsi trovare impreparati sul piano dell’offerta farebbe sì che la domanda interna dirigerebbe le proprie richieste altrove, con la conseguenza che le esternalità positive dell’incremento dell’offerta (aumento dell’occupazione, aumento del gettito tributario) non si produrrebbe per la comunità di riferimento, ma per altre. Il sostegno dell’offerta deve agire su tre piani: finanziario, fiscale e organizzativo.
    3.1. Il sostegno sul piano finanziario, ossia la diretta garanzia della liquidità per le attività economiche (imprenditoriali e professionali), è fondamentale sia per la fase acuta dell’emergenza sanitaria, come già osservato nel commento “Covid-19 e famiglia”, sia nella fase successiva fino alla piena ripresa dell’operatività del sistema economico. Se agli operatori economici mancasse la liquidità per remunerare i costi fissi (a cominciare dal personale dipendente), l’intero tessuto produttivo del Paese collasserebbe in tempi rapidi e si ridurrebbe in miseria la gran parte della popolazione.
    In questa prospettiva, e oltre alle misure fiscali con funzione di iniezione di liquidità di cui si dirà nel successivo paragrafo, appare corretto il modello, già approvato in altri Paesi come Germania e USA, e sostenuto anche da Mario Draghi nel suo intervento sul Financial Times del 26 marzo, di richiedere alle banche di offrire a imprese e professionisti prestiti a tasso zero, con garanzia pubblica per le restituzioni. Sempre in questa fase di ricostruzione, a ciò dovrà accompagnarsi, sotto il profilo normativo, una temporanea revisione della normativa bancaria relativa ai criteri di concessione del credito e una temporanea revisione delle norme sulla verifica della solidità degli istituti di credito e per la gestione della crisi d’impresa.
    Oltre a ciò, occorre ripensare più alla radice il sistema bancario e borsistico in modo tale da agganciarlo alle esigenze dell’economia reale e porlo al riparo da virtualità e speculazioni. Sul piano bancario, ciò si realizza anzitutto tornando a una divisione di funzioni tra banche d’affari e banche commerciali: già dopo la crisi finanziaria del 2008, del resto, alcuni Stati come USA (cfr. la cd. “Volcker Rule” del Dodd-Franck Act del 2010) e Regno Unito (cfr. la cd. “Vickers Rule” del Financial Services Act del 2013) si sono mossi sostanzialmente in questa direzione e non è più il tempo di rimandare la divisione delle sorti tra chi intende utilizzare il denaro per scommettere sulla finanza e chi, invece, ha bisogno di finanziamenti per mandare avanti la propria attività economica o vuole assicurare stabilità al proprio risparmio. Correlativamente, sul piano del mercato finanziario merita di essere regolamentata in modo più stringente la negoziabilità degli strumenti finanziari in cui possono investire le banche commerciali e i risparmiatori che ad esse si affidano, in modo da porli al riparo degli attacchi degli speculatori.
    3.2. Contestuale, e intrecciato, al piano finanziario è quello propriamente fiscale. Nella fase acuta della crisi, il versante tributario deve essere gestito in maniera tale da dare anzitutto tutto respiro finanziario alle attività economiche, a cominciare dalla sospensione degli obblighi di versamento dei tributi. Nella prospettiva della ripresa, la variabile fiscale deve essere orientata nella direzione di alimentare il tessuto imprenditoriale muovendosi contemporaneamente su almeno tre terreni.

    • In via preliminare, con effetto immediato nella fase acuta della crisi e fino alla piena ripresa, occorre dar corpo a quella funzione di “socio” dell’imprenditore e del professionista che lo Stato svolge nel momento in cui partecipa ai suoi guadagni chiedendo il pagamento di tributi. Nel momento in cui, per ragioni straordinarie come quelle attuali, imprese e professionisti entrano in crisi di fatturato, lo Stato “socio” non può non partecipare a questa crisi. Dovrà, conseguentemente, essere garantito in questa fase a imprese e professionisti una copertura statale del calo di fatturato verificatosi. Tale copertura potrà essere articolata come differenziale tra gli utili medi degli ultimi tre esercizi (ciò al fine di sterilizzare eventuali andamenti eccezionali del singolo periodo) e un massimale di tasso di profitto individuato dal legislatore in modo tale da garantire la remunerazione dei fattori della produzione. Nel caso in cui, in questa fase, l’imprenditore o professionista rimanga capace di liquidità e in utile fiscale, tale copertura statale potrà avvenire tramite concessione di un credito d’imposta; nel caso di crisi di liquidità o perdita, dovrà trattarsi di una erogazione di finanza liquida. In entrambi i casi, seppur mediata nel primo tramite un istituto propriamente tributario (il credito d’imposta), la misura assolve quindi una primaria funzione di garanzia della liquidità, aggiungendosi alle iniezioni indicate nel precedente paragrafo e ponendosi al centro del sistema di protezione pubblica di quelle attività economiche (e relativo indotto) i cui introiti sono stati abbattuti e in molti casi azzerati dal coprifuoco sanitario.
    • In secondo luogo, occorre agire per salvaguardare e incentivare quelle esternalità positive, in particolare l’occupazione, che il rafforzamento dell’offerta genera nella comunità di riferimento. Sotto il profilo della salvaguardia, chiaro è il riferimento alla necessità di garantire la CIG straordinaria per chi abbia lavoratori dipendenti (anche soltanto uno), dovendosi così confermare fino a consolidamento della ripresa l’impostazione prevista per la fase acuta dell’emergenza dagli artt. 19 ss. del d.l. n. 18/2020. Per chi, in particolare i professionisti, non sia disponga di lavoratori dipendenti o non sia comunque inserito in strutture (come studi associati) che ne dispongano, dovrà essere consentito l’alleggerimento degli oneri che più direttamente incidono sul cuneo fiscale: dovrà, quindi, essere stabilita un’esclusione (almeno temporanea) dell’applicazione dell’IRAP, laddove dovuta, per queste categorie soggettive. Sotto il profilo dell’incentivo delle esternalità positive in materia di occupazione, la riduzione del cuneo fiscale sarebbe certamente il primo viatico: sebbene la narrazione politica sembri eludere la questione quando periodicamente rievoca il tema del cuneo, va osservato che esso è creato anzitutto dall’IRAP (che escludeva e, tuttora, continua a limitare la scomputabilità dalla sua base imponibile delle spese per lavoro dipendente), per cui la prima misura da adottare per chi voglia ridurre il cuneo fiscale sul lavoro è abolire l’IRAP od omologarne l’imponibile a quello dell’imposta sul reddito, sul modello dell’addizionale regionale. Oltre a ciò, al fine di incentivare le esternalità positiva sono da auspicare superdeduzioni ai fini dell’imposta sul reddito per l’assunzione di lavoratori dipendenti in numero che superi il personale già a servizio ante-crisi: se, adesso, è deducibile ai fini IRES il 100% delle spese di lavoro dipendente, la superdeduzione per incentivare la ripresa potrà prevedere, ad esempio, una deducibilità delle spese per nuovi lavoratori nella misura del 110%. Per i professionisti, dovrà invece essere concessa analoga superdeduzione dall’IRPEF degli oneri per contributi previdenziali.
    • In terzo luogo, è opportuno agire per favorire la competitività delle imprese e dei professionisti italiani sul mercato internazionale. Ciò non deve avvenire soltanto in via indiretta, come negli ultimi anni si è cercato di fare ad esempio accordando incentivi per lo sviluppo tecnologico. Possono essere concepite anche misure dirette, come ad esempio un bonus per le esportazioni: esso potrà essere configurato come credito d’imposta parametrato al fatturato con l’estero, da erogare esclusivamente alle imprese e ai professionisti che offrano un piano per reinvestirlo in beni e servizi costituenti esternalità positive per il Paese (ad esempio, nuova occupazione o nuovi stabilimenti produttivi) e che dimostrino la pratica sul mercato interno di prezzi non superiori a quelli praticati sui mercati esteri.

    3.3. Sul piano organizzativo, occorre ripristinare un consapevole sistema di politica industriale per il Paese. Smantellato l’intervento pubblico diretto nell’economia, liquidata l’IRI, l’Italia non ha più avuto una politica industriale degna di questo nome, ossia un sistema di valutazione strategiche delle esigenze produttive del Paese e dell’individuazione dei meccanismi mediante i quali garantire che esse siano soddisfatte. Troppo spesso la politica industriale italiana si è ridotta semplicemente a giocare di rimessa, ad esempio cercando di evitando la delocalizzazione dei grandi complessi produttivi e, più in generale, cercando di contrastare gli effetti di una globalizzazione che, per il resto, è stata subita passivamente e mai, non solo cavalcata, ma neppure governata efficacemente.
    Simili valutazioni strategiche, come ovvio, non implicano necessariamente un intervento diretto dello Stato nella produzione economica, ma richiedono l’adozione di una serie di politiche volte in due direzioni.

    • La prima direzione è preliminare e richiede la predisposizione di un sistema scolastico e universitario idoneo a dirigere i giovani a specializzarsi nelle professioni e nelle attività economiche di cui vi sia effettivo bisogno nel Paese.
    • La seconda direzione è sostanziale e richiede di delineare strategie di ampio respiro e lungimirante prospettiva temporale volte, da un lato, a incentivare gli imprenditori a intervenire nei settori ritenuti importanti per il Paese e, dall’altro lato, a creare gli spazi per consentire ai beni e servizi prodotti nel Paese di diffondersi in Italia e all’estero. Per quanto attiene al primo aspetto, è ad esempio inconcepibile che un Paese evoluto come l’Italia non si sia premurato di coltivare un’industria sanitaria a servizio del sistema sanitario nazionale (garantendo a essa spazi di riserva di sbocco nel mercato interno, oltre a eventuali altre misure idonee a garantirne l’equilibrio economico) che fosse in grado, nel momento del bisogno, di convertirsi nella produzione dei beni medici essenziali per fronteggiare l’impennata della domanda connessa all’esplodere dell’epidemia. Per quanto attiene al secondo aspetto, senza fantasticare che l’Italia sia in condizione di organizzare aperture commerciali come sta facendo la Cina con la nuova Via della Seta, strategie e accordi di promozione del Made in Italy più sistematici e meno estemporanei di quelli portati avanti negli ultimi lustri sono certamente ben concepibili.
  1. Se sul piano logico gli strumenti di sostegno dell’offerta appaiono preliminari rispetto a quelli di sostegno della domanda, per le ragioni sopra esposte, sul piano sostanziale gli strumenti a sostegno dell’offerta assumono un ruolo se possibile ancor più centrale. E’ l’aumento della domanda, infatti, che richiede un aumento dell’offerta: il movimento contrario ha carattere marginale, poiché la sovrabbondanza dell’offerta è suscettibile di tradursi in un incremento del volume d’affari (e, quindi, in prospettiva aggregata, in un aumento dal PIL) soltanto nella misura in cui sussista una residua elasticità della curva della domanda (da sollecitare tramite pubblicità, sconti e strumenti similari) ma essa, in generale, ha carattere meno significativo, specialmente nei momenti di crisi e post-crisi. Come si è sopra accennato, un Paese come l’Italia è in condizione incidere sulla curva della domanda soltanto in chiave interna. Conseguentemente, l’esigenza di stimolare la domanda si coordina con l’esigenza di garantire le esternalità positive per la comunità (che si correlano all’aumento della produzione interna) introducendo meccanismi volti a supportare lo sbocco sul mercato interno dei beni e servizi prodotti nel Paese.
    Nell’ambito delle imposte sui redditi, ciò può avvenire in particolare articolando un meccanismo di crediti d’imposta per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel Paese (identificabili come tali secondo i criteri dell’art. 4 della l. n. 350/2003 o dell’art. 16 del d.l. n. 135/2009). Per le imprese e i professionisti, ciò potrà avvenire ancora una volta mediante il sistema della superdeduzione: se i beni e servizi acquistati per l’esercizio dell’attività sono made in Italy, le spese potranno essere considerate deducibili, non già nella misura ordinaria del 100%, bensì in quella ad esempio del 110%. Per le persone fisiche, potrà essere stabilita una detrazione generale di una percentuale delle spese sostenute per l’acquisto di beni e servizi made in Italy. Nessun tetto massimo dovrà essere previsto per tale detrazione, poiché la funzione di stimolo dell’offerta che essa mira a perseguire cresce quanto più cresce la spesa per beni e servizi. Per converso, siffatta detrazione dovrà essere coordinata con il sistema delle detrazioni vigenti, escludendola per i beni e servizi già oggetto di specifica detrazione e subordinato le detrazioni già esistenti alla provenienza italiana dei beni e servizi che ne costituiscono oggetto. Per gli incapienti, l’erogazione di sussidi alla spesa (come la carta delle famiglie o il reddito di cittadinanza) dovrà essere vincolata all’acquisto di beni e servizi made in Italy. In questo versante, naturalmente, rimarranno fermi gli importi massimi del sussidio determinati secondo le disposizioni generali in materia di assistenza sociale: non è, del resto, alle categorie economiche destinatarie dei sussidi di povertà che si affida la funzione di aumento della domanda aggregata in chiave di stimolo dell’offerta.
  1. Diversamente da interventi selettivi sulle aliquote IVA (come potrebbe essere la riduzione di quelle gravanti su beni e servizi italiani rispetto a quelli esteri), le misure sopra prospettate rientrano nel pieno dominio della sovranità nazionale e non richiedono, dunque, alcun placet da parte delle organizzazioni sovranazionali di cui l’Italia è parte.
    Si ricorda, in particolare, come l’Unione Europea sia priva di competenze in materia di imposte sui redditi nazionali, né d’altra parte le misure sopra proposte si pongono in contrasto con altri principi che la prassi della Commissione Europea e la giurisprudenza della Corte di Giustizia hanno affermato come indirettamente rilevanti in materia. All’evidenza, esse infatti non violano alcuna delle libertà fondamentali (circolazioni di persone, merci, servizi e capitali), non costituiscono misure equivalente a dazi doganali (poiché nessun onere pecuniario è imposto alle merci in ingresso, secondo la definizione fornita dalla Corte di Giustizia fin dalla sentenza 25 gennaio 1977, causa 46/76, Bahuis), né costituiscono aiuti di Stato (poiché difetta, chiaramente, il requisito della “selettività” degli aiuti, essendo esse estese a tutti i soggetti residenti in Italia, e, in ogni caso, perché si rientra in una ipotesa classica di operatività della fattispecie di cui all’art. 107, paragrafo 2, lett. b del TFUE, trattandosi all’evidenza di istituti “destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali”).
    Fermo restando ciò, è chiaro che in una fase drammatica come quella odierna, in cui addirittura viene sospeso l’esercizio di libertà costituzionali e diritti umani fondamentali, non possono essere lacci e lacciuoli economici europei a intralciare l’intervento dello Stato a salvataggio del Paese. Di questo, peraltro, sembrano essersi rese conto le stesse istituzioni europee che, nel non decidere le misure a sostegno dei Paesi, hanno, comunque, dichiarato che non verrà sanzionato il ricorso all’indebitamento (essendo sospesi gli obblighi del patto di stabilità) e a certe tipologie di aiuti di Stato (cfr. il pur insufficiente quadro temporaneo per gli aiuti di Stato C(2020)1863 approvato dalla Commissione in data 19 marzo). D’altronde, se la delega di competenze a istituzioni sovranazionali non si traduce in un concreto supporto nell’ora del bisogno, e se addirittura esse ponessero ostacoli agli interventi autonomamente organizzati dagli Stati per salvare il Paese e il suo tessuto economico, cosa ce ne faremmo di istituzioni del genere?

 

Prof. Avv. Angelo Contrino * Professore Ordinario di Diritto Tributario nell’Università “Bocconi” di Milano

Avv. Francesco Farri * Dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e dell’Impresa nell’Università “La Sapienza” di Roma

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