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Domani, 6 luglio, le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sulla esposizione del Crocifisso nei luoghi pubblici. La vicenda trae origine da un docente che nelle ore d’insegnamento aveva rimosso il Crocifisso, in contrasto con la volontà degli studenti, che in maggioranza si erano espressi a favore della sua collocazione nell’aula, e disapplicando un provvedimento del Preside: per il suo comportamento, in conflitto anche col preside, al docente era stata irrogata la sospensione di 30 giorni dalle funzioni, sanzione ritenuta legittima in entrambi i gradi di merito. Giunta la questione alla Suprema Corte, la Sezione lavoro ha richiesto una decisione in merito delle Sezioni unite. Sul punto su questo sito https://www.centrostudilivatino.it/crocifisso-ancora-nel-mirino-la-parola-e-alla-cassazione/; https://www.centrostudilivatino.it/crocifisso-fuori-dalle-scuole-la-questione-alle-sezioni-unite/; https://www.centrostudilivatino.it/il-crocifisso-al-vaglio-delle-sezioni-unite-della-cassazione/ .

Sul tema il 30 giugno si è svolto, organizzato dal Centro studi Rosario Livatino, il webinar Verso un nuovo caso Lautsi? L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, col patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Roma. Dopo le relazioni pubblicate venerdì del prof. Carlo Cardia (https://www.centrostudilivatino.it/il-crocifisso-davanti-alle-sezioni-unite-simboli-religiosi-e-diritti-umani/) e sabato del pres. Claudio Zucchelli (https://www.centrostudilivatino.it/2-il-crocifisso-davanti-alle-sezioni-unite-dove-la-discriminazione/), oggi ospitiamo quella del prof. Angelo Licastro, ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università di Messina: il testo, con modifiche e adattamenti, è un estratto dell’articolo già apparso sulla Rivista Stato, Chiese e pluralismo confessionale (www.statoechiese.it), n. 7/2021, pp. 35-68.  

1. Il tema del diritto antidiscriminatorio è di straordinaria attualità in questo momento. È chiamato in causa, sia pure da prospettive differenti, in alcune questioni spinose che in questi ultimi tempi interessano i rapporti tra Stato e Chiesa. Si tratta di uno strumento che va maneggiato con estrema cautela, perché il principio di eguaglianza è in costante tensione col modo stesso in cui prende forma l’ordinamento giuridico, attraverso processi di selezione (e quindi di differenziazione) di fatti della vita reale.

È per questo che il diritto antidiscriminatorio di matrice europea, se portato alle estreme conseguenze, rischia di travolgere alcune specificità nazionali, esasperando un processo di “omogeneizzazione” delle legislazioni degli Stati – già di per sé indotto dal naturale incedere dell’integrazione europea – che rischia di cancellare aspetti caratteristici della loro stessa identità costituzionale.

Il ricorso che ha dato impulso all’intervento della Suprema Corte ha questo di nuovo: mette in risalto, nella questione del crocifisso, la tutela antidiscriminatoria del lavoratore europeo. Io mi soffermerò solo su questi aspetti, seguendo l’ordine logico in cui va verificata la ricorrenza di una eventuale discriminazione, senza indugiare su altre lagnanze che il ricorrente ha fatto valere e che non mi pare sollevino questioni capaci di mettere in discussione le acquisizioni della giurisprudenza più autorevole.

2. La Cassazione, senza neppure accennare alla eventualità che possa ricorrere la discriminazione indotta da molestie (che pure il ricorso aveva riproposto), appare propensa ad escludere la discriminazione diretta, mentre sembra dare un certo credito alla tesi della possibile ricorrenza di una discriminazione indiretta dell’insegnante, prodotta da un provvedimento (emanato dal dirigente scolastico) solo apparentemente neutro, in quanto produttivo di effetti pregiudizievoli per il lavoratore.

Quanto alla prospettata discriminazione diretta, i Supremi Giudici sembrano confermare le conclusioni cui erano giunti i giudici di merito, in linea con quanto aveva già detto la Corte di Giustizia dell’Unione europea, a proposito della legittimità del divieto di esibire il velo islamico in azienda. Viene esclusa la lamentata discriminazione, in considerazione del fatto che il provvedimento tratta in maniera identica tutti i docenti della classe.

C’è però da dubitare che un provvedimento del datore di lavoro debba considerarsi apparentemente neutro (e non direttamente discriminatorio) solo perché colpisce allo stesso modo tutti gli insegnanti di una classe o i dipendenti di una impresa. Quello del corretto termine di comparazione è fondamentale quando si tratta di valutare la ricorrenza di un trattamento ingiustamente differenziato. Se si comparano tra loro lavoratori che stanno subendo tutti una medesima discriminazione, si concluderà inevitabilmente per l’inesistenza di qualsiasi discriminazione.

A mio parere, deve piuttosto ritenersi esclusa la discriminazione diretta, in quanto il provvedimento non può ritenersi oggettivamente adottato per motivi religiosi. È cioè il senso della presenza del simbolo nell’aula l’elemento che dovrebbe indurre a considerare come (almeno apparentemente) neutro il provvedimento del dirigente scolastico, che richiamava la decisione degli studenti espressa nell’assemblea, ritenuta “coerente con la cultura italiana, che ha nel pensiero cristiano una componente fondamentale”.

Torna qui la questione del crocifisso come simbolo religioso o (anche) evocativo di significati storico-culturali. E il contesto di esposizione è tutt’altro che insignificante al riguardo, non potendosi pensare, come ha chiarito bene il Consiglio di Stato, al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad un oggetto di culto, con riflessi sulla non punibilità ai sensi dell’art. 404 c.p. di eventuali condotte di vilipendio o danneggiamento.

3. L’assenza di una esplicita caratterizzazione religiosa del trattamento differenziato è tipica della discriminazione indiretta, verso la quale potrebbe, quindi, essere attratta la vicenda in esame.

A tal proposito, uno dei passaggi-chiave dell’ordinanza è quello in cui la Cassazione sembra reputare come plausibile una lesione della libertà di coscienza e di religione del docente, per il fatto che egli, operando in una aula dove si trova esposto il simbolo, potrebbe subire l’effetto del “richiamo di valori propri di un determinato credo religioso a fondamento dell’attività pubblica prestata”.

In effetti, se davvero l’esposizione del crocifisso nelle scuole servisse a rappresentare l’esistenza di una compenetrazione tra esercizio della pubblica funzione di insegnamento e i valori propri di un determinato credo religioso, la conclusione sarebbe obbligata: a parte i problemi per la libertà di coscienza dell’insegnante, una tale situazione sarebbe incompatibile col principio di distinzione degli ordini dello Stato e delle confessioni.

Ma basta scorrere i programmi di insegnamento per capire che l’esposizione del crocifisso nelle aule non assolve a questo tipo di funzione. Quindi i termini della questione mutano. Si può soltanto prospettare l’ipotesi che qualcuno cada in errore, ritenendo falsamente che il simbolo evochi quella commistione. In questo caso, diventa però centrale la natura di simbolo “passivo” riconosciuta dalla Corte di Strasburgo e che i Supremi Giudici sembrano invece svalutare. Se tale natura vale a escludere che possa cadere in errore l’alunno, a maggior ragione, secondo quanto affermato dai giudici di merito, bisogna escludere che possa cadere in errore una persona matura e dotata di spirito critico come l’insegnante.

Né mi pare che i termini della questione mutino insistendo sulla “laicità” della scuola intesa nei termini di salvaguardia del “pluralismo” delle idee. Fermo restando che il crocifisso non impedisce affatto che a scuola sia garantito e promosso il libero confronto delle idee e delle diverse visioni del mondo, sarebbe da mettere in conto semmai, ancora una volta, una situazione di errore o di falsa rappresentazione della realtà.

Tuttavia, a mio parere, escluso ogni pregiudizio alla libertà di coscienza e di religione, l’insegnante potrebbe lamentare la sua soggettiva condizione o sensazione di disagio vissuta nel luogo in cui è chiamato a svolgere la prestazione lavorativa. Non una vera e propria lesione della sua libertà religiosa o di coscienza, dunque, ma pur sempre un “pregiudizio” determinato da motivi religiosi. Qui sta a mio avviso il “di più” che può offrire, nella materia in esame, al ricorrente, il ricorso al diritto antidiscriminatorio: il “particolare svantaggio”, in cui consiste la discriminazione indiretta, non riceve dalla legge alcuna specifica “tipizzazione” normativa, non deve cioè necessariamente rivestire alcuna forma predefinita per potere assumere concreta rilevanza, in quanto capace di abbracciare, in astratto, qualsiasi pregiudizio comparativamente più gravoso che sia subito dal lavoratore rispetto a tutti gli altri, anche senza una violazione vera e propria della sua libertà religiosa o di coscienza.

Anche in presenza di un oggettivo pregiudizio, però, il provvedimento non è discriminatorio se oggettivamente giustificato da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

4. La questione della finalità legittima, anzitutto.

Qui si deve ribadire un punto e cioè che il dirigente scolastico avrebbe agito del tutto legittimamente se lo avesse fatto al fine di assicurare il rispetto della norma regolamentare che prescrive l’esposizione del simbolo anche nelle scuole superiori. E secondo me alla luce di questa norma dovrebbe risolversi la questione concreta che stiamo esaminando.

La Cassazione ha ripetuto, senza approfondirla, una affermazione diffusa in dottrina secondo cui (solo) per le scuole medie “inferiori” l’art. 118 del regio decreto del 1924, n. 965, prevede per ogni aula la presenza dell’immagine del crocifisso. Si tratta però di un equivoco. In realtà il citato regolamento parla di scuole “medie”, ribadendo che esse sono “di primo e di secondo grado” (art. 1). Il riferimento, nel titolo del provvedimento normativo, alla istruzione “media” non può essere inteso come riferito a quella che noi oggi comunemente intendiamo come scuola “media”, anche perché l’istituzione della scuola media di durata triennale avverrà solo nel 1940 e solo nel 1962 sarà disciplinata come esclusivo percorso post-elementare, unificando i molteplici percorsi precedentemente esistenti. Non c’è distinzione alcuna, dunque, sotto questo profilo, tra i diversi ordini e gradi di scuole.

Alcuni studiosi tuttavia ritengono che le norme regolamentari del 1924 e del 1928 siano ormai tutte implicitamente abrogate, tesi che non pare però condivisa dalla stessa Corte cost. (ord. n. 389 del 2004) e che è stata puntualmente disattesa dal Consiglio di Stato (parere 27 aprile 1988). Persino il legislatore sembrerebbe essersi indirettamente espresso sul punto, nella vicenda riguardante i famosi provvedimenti taglia-leggi di semplificazione del nostro sistema normativo: mentre il regio decreto del 1928, riguardante le scuole elementari, non è mai stato inciso da questi provvedimenti, il regio decreto del 1924 figurava, in un primo momento, nell’elenco delle disposizioni abrogate da uno di questi decreti legge, dal quale è stato eliminato da un successivo decreto legge “[r]itenuta […] la straordinaria necessità ed urgenza di sottrarre all’effetto abrogativo […] alcune disposizioni di cui risulta indispensabile il mantenimento in vigore”.

In via subordinata, se le Sezioni Unite dovessero ritenere abrogate le disposizioni del 1924 o non applicabili alle scuole superiori, ci possono essere due strade atte a fondare la legittimità della finalità perseguita dal provvedimento.

A fornire base legale al provvedimento potrebbe essere l’esigenza di tutelare il diritto al rispetto della “coscienza morale e civile degli alunni” (art. 2 d.lgs. n. 297 del 1994), nei termini in cui questa ha avuto modo di esternarsi attraverso la deliberazione adottata dall’assemblea di classe. La scelta potrebbe essere letta, secondo la stessa ordinanza, come espressione positiva di tale diritto, nei cui confronti si pone concretamente in conflitto la libertà di quel singolo docente.

Certo, si tratta di superare le perplessità sulla compatibilità di ogni operazione di questo tipo – ispirata a una logica maggioritaria – sia con la natura di questo diritto (che a me sembra strettamente personale) sia col principio di laicità dello Stato, dal momento che il criterio quantitativo è suscettibile di entrare in conflitto con il corollario della “laicità” identificato dalla Consulta nell’atteggiamento di “imparzialità” ed “equidistanza” nei confronti di tutte le religioni.

Peraltro, mentre il suddetto corollario non tollera sicuramente forme differenziate di tutela per quanto riguarda le garanzie rientranti nella libertà di religione e di coscienza, non è scontato che sia destinato a impattare allo stesso modo su tutto quanto risulti conseguenza dellavalorizzazione delle tradizioni, della storia e della culturadi un popolo.

La seconda via è quella che ritiene la materia in esame inclusa, allo stato attuale della legislazione, nelle competenze degli organi di autogoverno della scuola, secondo una soluzione, già adottata dalla giurisprudenza, che trova ampi consensi anche in dottrina.

Un esito del genere non sarebbe privo di vantaggi se valutato, ad esempio, dalla prospettiva della praticabilità di soluzioni “ritagliate” sulle esigenze concrete dei singoli istituti, col rifiuto dell’adozione vincolante di criteri necessariamente uniformi per tutto il territorio nazionale e aprendo invece a possibili differenziazioni territoriali nel modo di coniugare – senza traumatiche lacerazioni del tessuto sociale – la rappresentazione delle tradizioni identitarie con le ragioni del pluralismo e della laicità.

Interessante, da questo punto di vista, è la soluzione bavarese, che pure viene chiamata in causa dall’ordinanza. Qui però la Corte semplifica forse eccessivamente nel ritenere che essa si fonda sul principio maggioritario. Ciò è vero solo in parte. Essa, in realtà, si caratterizza per il fatto di affidare al direttore didattico, in caso di contestazioni (e io ritengo che da noi questo tipo di contestazioni sarebbero l’eccezione e non certo la regola), l’individuazione di una soluzione in grado di realizzare un equo bilanciamento tra le convinzioni religiose e ideologiche di tutta la classe, tenendo conto della volontà della maggioranza degli studenti “nella misura del possibile”: non si chiude a esiti eventualmente diversi, dunque, compresa, in determinate scuole, l’eliminazione del simbolo o l’aggiunta di altri simboli. Allo stato attuale, è dubbio che da noi quest’ultimo tipo di soluzione possa essere adottata, sebbene la giurisprudenza si sia pronunciata (negativamente, in mancanza di una apposita norma) con riguardo ai tribunali mentre all’interno delle aule scolastiche le esigenze di neutralità del servizio pubblico sono certamente meno stringenti rispetto ai luoghi dove si amministra la giustizia.

5. I requisiti del carattere appropriato e necessario delle misure pongono la questione se sono possibili ragionevoli accomodamenti che vadano incontro alle esigenze del docente.

L’ordinanza ne suggerisce uno, ossia la rimozione del crocifisso all’inizio delle lezioni da parte dell’insegnante e il suo ricollocamento al termine delle stesse.

Accanto a innegabili pregi, la soluzione non sarebbe priva di inconvenienti, soprattutto perché l’atto stesso del rimuovere e poi del riaffiggere il crocifisso apparirebbe in contrasto proprio con quella sua “debole” connotazione simbolica sulle cui basi la giurisprudenza più autorevole ne ha ammesso la compatibilità con la salvaguardia della libertà di religione degli alunni: si rischierebbe, in altri termini, di rafforzare involontariamente la carica evocativa dell’oggetto.

Se non viene in gioco una violazione della libertà di coscienza o di religione dell’insegnante, ma solo una sua sensazione di disagio, sulle ragioni che potrebbero giustificare una forma estrema di autotutela da parte dell’insegnante dovrebbe, a mio parere, prevalere l’esigenza di evitare che si alimenti un clima di perenne conflitto tra docenti e studenti all’interno della comunità educativa.

6. Concludo, segnalando che tutta questa vicenda mi pare viziata da quello che, a mio parere, è un errore di diritto, ossia la ritenuta applicabilità della norma regolamentare alle sole scuole medie inferiori. Al di là di questo aspetto, l’ordinanza non sembra prefigurare come ineluttabile lo scenario del “muro bianco” – a prescindere dalla questione se una tale soluzione sia davvero “eticamente neutrale” o no – mostrandosi sensibile non solo nei confronti dei diritti del docente ma anche verso quelli degli studenti, ricostruiti, questi ultimi, come si è visto, in una inedita versione “positiva”. Non ci si limita, infatti, a considerare l’aspetto meramente “negativo” dell’indebito condizionamento della loro libertà di coscienza, in quanto parrebbe possibile anche una “proiezione” nell’ambiente scolastico, attraverso l’esposizione del simbolo, del diritto al rispetto della loro coscienza morale e civile.

Angelo Licastro

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