Recenti casi di cronaca danno spunto per esaminare il contenuto, gli ambiti di applicazione e i limiti del dovere di fedeltà dell’avvocato, quel precetto che in termini generali impone al professionista di perseguire l’esclusivo interesse del proprio cliente. In questo quadro, va pure considerata la questione del potenziale conflitto fra il dover di fedeltà cui è soggetto anche il praticante avvocato e l’obbligo di denunciare una eventuale notitia criminis gravante sull’appartenente alle Forze dell’Ordine che intenda svolgere la predetta pratica forense.
1. «Per far credere a una cliente che il procedimento per il reintegro a lavoro dopo un licenziamento da parte della società ALFA (n.d.r.) di Sassari, seppure a rilento stava proseguendo, sarebbe arrivata a creare una falsa ordinanza – apparentemente emessa dal tribunale di Sassari – con tanto di firma del giudice, in modo da continuare a percepire la parcella»[1].
Quello citato è solo uno dei casi di cronaca che negli ultimi anni hanno visto alcuni avvocati protagonisti in negativo di vicende al limite dell’inverosimile, spesso finite anche dinanzi al giudice penale, con condanne per falso materiale, per aver l’avvocato formato atti giudiziari falsi[2].
Non v’è dubbio che tali contegni implichino anche una responsabilità disciplinare, come puntualmente rilevato dal Consiglio Nazionale Forense: «costituisce gravissima violazione dei principi di probità, dignità, decoro e lealtà, ai quali la professione deve sempre ispirarsi, oltre che dei doveri di fedeltà (art. 10 nuovo c.d.f.) e fiducia (art. 11 nuovo c.d.f.) il comportamento dell’avvocato che falsifichi atti giudiziari e li utilizzi al fine di nascondere al cliente l’omesso svolgimento della relativa attività professionale commissionatagli» (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 137 del 16 novembre 2019; v. anche Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 70 del 31 marzo 2021, relativa a un caso di falsificazione di un atto di transazione da parte del difensore).
Più in generale, casi come questi rimandano al canone di cui all’art. 10 del codice deontologico forense, per il quale «l’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa».
2. Il Consiglio Nazionale Forense ha in più occasioni affermato che nel rapporto tra avvocato e cliente la “fiducia” costituisce un aspetto essenziale e ha definito il dovere di fedeltà uno dei capisaldi per il corretto esercizio della professione forense.
Ciò implica per il professionista una serie di obblighi, cui non può arbitrariamente sottrarsi. Primo fra tutti, l’obbligo di rendere una adeguata informativa al cliente sullo stato dell’affare affidatogli: «vìola gli artt. 9, 10, 12, 26 n. 3 e 27 n. 6 CDF (essendo venuto meno al dovere di lealtà, correttezza, diligenza e fedeltà) l’avvocato che omette, senza giustificato motivo, di adempiere al mandato professionale, venendo altresì meno all’obbligo di informazione al cliente» (Consiglio distrettuale di disciplina di Bologna, decisione n. 4 del 20 gennaio 2020).
Tale informazione deve ovviamente essere veritiera e completa, mercé la violazione dei medesimi precetti ora richiamati; deve ritenersi infatti che «un rapporto fiduciario, quale è quello che lega l’avvocato al suo cliente non può tollerare alcun comportamento che violi un aspetto essenziale della “fiducia”, consistente nella completezza e verità delle informazioni destinate all’assistito» (Consiglio distrettuale di disciplina di Genova, decisione n. 33 del 16 novembre 2021).
Sotto questo profilo, il difensore deve prestare adeguata attenzione anche all’individuazione dei soggetti con i quali si relaziona: in una recente sentenza il Consiglio Nazionale Forense ha infatti sanzionato un avvocato che aveva «gestito una causa in modo del tutto indipendente dal rapporto con il cliente e dalla tutela dei suoi interessi», sottolineando come lo stesso non avesse «mai avuto un rapporto diretto con la parte assistita», ma avesse concordato tutta l’attività con i fratelli di quest’ultima, soggetti terzi in posizione di conflittualità con il congiunto per gli interessi economici sussistenti; è stato così affermato il principio per cui «pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante e contrario al dovere di fedeltà e fiducia l’avvocato che gestisca una causa in modo del tutto indipendente dal rapporto con il cliente e dalla tutela dei suoi interessi, concordando tutta l’attività con un soggetto terzo e senza avere mai un rapporto diretto con la parte assistita» (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 100 del 9 ottobre 2019).
Bisogna peraltro considerare che il dovere di fedeltà nei confronti del cliente e quello di difesa impongono all’avvocato un impegno totale a favore della parte assistita, ma l’ampiezza di tale dovere non può sconfinare nell’illecito; un limite, questo, correlato all’imprescindibile rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, cui lo stesso Codice Deontologico fa espresso riferimento.
Così, il Consiglio Nazionale Forense nel confermare le sanzioni inflitte dagli organi di disciplina di primo grado ha chiarito che la correttezza e la diligenza dell’operato del difensore all’interno del processo «impedisce nel modo più assoluto il ricorso a stratagemmi e condotte dolosamente finalizzate a minare i principi di parità processuale tra le parti e ad ingannare lo stesso giudicante per indurlo ad assumere provvedimenti in contrasto con quanto legittimamente emerso in sede processuale e coincidenti con un astratto ideale di giustizia sostanziale di una parte o del suo difensore e l’avvocato autore di una tale condotta non può invocare a propria discolpa il canone di cui all’art. 10 del Codice Deontologico Forense» (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 188 del 19 dicembre 2019).
La casistica delle possibili violazioni si articola in fattispecie dai contenuti sensibilmente diversi, secondo lo schema della tipizzazione “per quanto possibile”, di cui all’art. 3 co. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 (cf. https://www.centrostudilivatino.it/2-le-norme-deontologiche-garanzia-di-autonomia-dellordine-professionale/).
In sostanza, è responsabile disciplinarmente per la violazione del dovere di fedeltà, spesso in concorso con la violazione di altri precetti, l’avvocato che non svolga l’attività professionale nell’esclusivo interesse del proprio cliente. Si passa così dalla condotta dell’avvocato che, nell’espletamento del mandato conferitogli per ottenere il risarcimento di un danno, corrisponde al proprio assistito una somma inferiore a quella ottenuta della controparte, trattenendo per sé il resto e così procurandosi un ingiusto profitto (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 10 maggio 2017, n. 54, che ha sanzionato tale condotta con la radiazione), sino a quella del professionista che assume un incarico difensivo contro un ex cliente del quale aveva in passato curati gli interessi, con la possibilità di fare uso di informazioni acquisite nello svolgimento del precedente mandato (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 18 luglio 2011, n. 107).
4. In questo ambito si deve poi dare conto della vicenda giurisprudenziale che interessa la posizione degli appartenenti alle Forze dell’Ordine che richiedano di essere iscritti nel Registro dei Praticanti semplici, al fine di svolgere la pratica forense e accedere poi all’esame di abilitazione alla professione di avvocato (molto spesso, al solo fine di acquisire il corrispondente titolo professionale, stante l’incompatibilità di cui all’art. 18 della legge 31 dicembre 2012 n. 247).
Corte di Cassazione e Consiglio Nazionale Forense ragionano da tempo sul potenziale conflitto tra il dovere che grava sugli appartenenti alla Forze dell’Ordine di denunciare ai superiori e all’autorità giudiziaria competente una eventuale notitia criminis che gli stessi dovessero “intercettare”e il dovere di segretezza, riservatezza e di fedeltà cui sono invece sottoposti non solo gli avvocati, ma anche i praticanti semplici, non abilitati al patrocinio sostitutivo.
Come noto, infatti, i praticanti «osservano gli stessi doveri e norme deontologiche degli avvocati e sono soggetti al potere disciplinare del consiglio dell’ordine» (secondo quanto stabilito dall’art. 42 della menzionata legge 31 dicembre 2012 n. 247).
Con la sentenza 26 novembre 2008 n. 28170 le Sezioni Unite della Cassazione Civile avevano registrato le perplessità espresse dal Consiglio Nazionale Forense in relazione al prospettato riconoscimento del diritto dell’appartenente alle Forze dell’Ordine all’iscrizione nel registro dei praticanti semplici, in quanto la stessa «condurrebbe al paradosso di un praticante che in tale qualità potrebbe venire a conoscenza di fatti che sempre come praticante dovrebbe tenere riservati, mentre come carabiniere avrebbe l’obbligo di denunciare»; tuttavia avevano poi affermato il principio di diritto secondo cui «trattandosi di preclusioni volte a garantire l’autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale, le incompatibilità di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3[3], non si applicano ai praticanti non ammessi al patrocinio, che possono di conseguenza essere iscritti nell’apposito Registro Speciale anche se legati da un rapporto di lavoro con soggetti pubblici o privati».
5. L’affermazione del suesposto principio era stata giustificata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione anche in considerazione del fatto che il prospettato conflitto costituirebbe una mera eventualità «comunque scongiurabile mediante l’adozione di opportuni accorgimenti di fatto fra cui, per esempio, quello di circoscrivere la pratica a determinati settori o a casi preventivamente valutati dall’affidatario».
Tale posizione non ha tuttavia convinto il Consiglio Nazionale Forense, che nel luglio del 2013 ha in due occasioni riaffermato la propria posizione nel senso dell’incompatibilità.
Prima col parere del 17 luglio 2013 n. 87, reso in risposta ad apposito quesito n. 292, formulato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, ove si era scritto che «per consolidato orientamento di questo CNF l’iscrizione nel registro dei praticanti ovvero lo svolgimento della pratica forense è incompatibile con lo status di appartenente alle forze dell’ordine. Nel caso di specie la risposta è nello stesso quesito così come posto. Infatti, l’appartenente a corpo militare, quale l’Aeronautica Militare, a prescindere dalle funzioni e/o mansioni svolte nell’ambito del rapporto, può assumere la qualifica di pubblico ufficiale e, quindi, su di lui può gravare l’obbligo di denunzia. Ciò trova conferma nella previsione di cui all’art. 7 bis del d.l. n. 92/2008, che ha previsto la possibilità di conferire agli appartenenti alle forze militari, in casi di necessità, le qualifiche e funzioni di pubblico ufficiale e di ufficiale di pubblica sicurezza, equiparandoli di fatto alle forze dell’ordine. Anche a prescindere da una tale considerazione l’incompatibilità sussisterebbe, comunque, in ragione del vincolo di subordinazione gerarchica che caratterizza certamente i corpi militari, indipendentemente dal grado e dalle specifiche mansioni e/o funzioni prettamente amministrative svolte, incompatibile con l’indipendenza, segretezza e riservatezza che devono caratterizzare anche l’attività del praticante/tirocinante avvocato. Per quanto esposto la tutela dei fondamentali doveri di segreto professionale e di fedeltà al cliente impongono di negare l’iscrizione dell’appartenente alle forze dell’ordine nel registro dei praticanti/tirocinanti».
Quindi con la sentenza del 19 luglio 2013, n. 120 il Consiglio Nazionale Forense aveva affermato che «é ben vero che le incompatibilità di cui all’art. 3 RDL 1578/33 non si applicano ai praticanti avvocati non ammessi al patrocinio, i quali pertanto possono essere iscritti all’omonimo registro anche se legati da un rapporto di lavoro subordinato a soggetti pubblici o privati. E’ tuttavia altrettanto vero che la qualifica di pubblico ufficiale ed il connesso dovere ex art. 361 c.p. di denunciare ai superiori e all’autorità giudiziaria competente la notitia criminis si pone evidentemente agli antipodi con i doveri di segretezza e riservatezza e di fedeltà cui sono invece sottoposti, come gli avvocati, i praticanti. Ne consegue che, nel caso di appartenente alle Forze dell’Ordine, ad essere incompatibile con l’esercizio delle funzioni di praticante avvocato non è tanto la condizione di pubblico dipendente, quanto piuttosto lo status particolare cui è sottoposto l’agente e l’ufficiale di pubblica sicurezza, su cui grava un dovere di intervento ed un obbligo di denuncia di fatti comunque appresi che non può ritenersi conciliabile con i predetti doveri cui è tenuto il praticante avvocato, e ciò, nonostante l’eventuale adozione di accorgimenti di fatto quale la individuazione di determinati settori o di casi preventivamente valutati dall’affidatario attorno ai quali circoscrivere la pratica».
6. Non contribuisce peraltro a far chiarezza neppure la recente sentenza n. 248 del 29 dicembre 2021 del Consiglio Nazionale Forense, la cui motivazione in punto di diritto si struttura in due parti: una prima parte in cui si premette che il ricorrente, appartenendo alle Forze dell’Ordine, «ha il dovere di denunciare ai superiori e all’autorità giudiziaria competente la notitia criminis e che tale dovere confligge con il dovere di segretezza, riservatezza e di fedeltà cui sono invece sottoposti, come gli avvocati, i praticanti, anche non abilitati al patrocinio sostitutivo» e si precisa che «tale conflitto non potrà dirsi eluso nonostante l’eventuale adozione di accorgimenti di fatto quale la individuazione di determinati settori o di casi preventivamente valutati dall’affidatario attorno ai quali circoscrivere la pratica forense».
A tale premessa segue però una conclusione di segno opposto: «sul punto la Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ. sez.un. 28170/2008) come richiamata dal ricorrente ha tuttavia ritenuto che le incompatibilità di cui all’art. 3 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 non si applicano ai praticanti avvocati ammessi al patrocinio, che possono di conseguenza essere iscritti nell’apposito registro speciale anche se legati da un rapporto di lavoro con soggetti pubblici o privati, e ciò vale anche per gli appartenenti all’arma dei Carabinieri. Con detto arresto si è ritenuto, quindi, che il rischio di un conflitto di appartenenza sia limitato e rimediabile con accorgimenti pratici, quale ad esempio la limitazione della pratica agli affari esenti da commistioni. Ulteriore correttivo si ritiene possa essere individuato nell’esclusione del patrocinio sostitutivo.
Questo Consiglio non ha motivi di discostarsi da detta giurisprudenza, con la quale è stato quindi riconosciuto che la pratica legale svolta dai predetti agenti o funzionari di P.S. mantenga una propria ragione anche se ad essi è preclusa la successiva iscrizione all’albo, poiché consente loro la possibilità di precostituirsi un titolo professionale futuro».
La questione resta aperta, sia per effetto di pronunce non conformi sul punto, sia perché, seppur su un piano strettamente teorico, gli opportuni accorgimenti di fatto suggeriti dalle Sezioni Unite, consistenti nel circoscrivere la pratica a determinati settori o a casi preventivamente valutati dall’affidatario,non consentono di escludere a priori che nella trattazione del singolo caso possa presentarsi in itinere una di quelle situazioni di conflitto tra l’obbligo di denunciare la notitia criminis dell’appartenente alle Forze dell’Ordine e il dovere di fedeltà del difensore (e del praticante avvocato).
Angelo Salvi
[1] Notizia tratta da La Nuova Sardegna del 6 gennaio 2022 e reperibile al link https://www.lanuovasardegna.it/sassari/cronaca/2022/01/06/news/avvocata-infedele-falsifica-una-sentenza-per-avere-la-parcella-1.41101082.
[2] Ciò in quanto – secondo la giurisprudenza – un atto giurisdizionale, sia esso penale o civile, può essere lesivo della fede pubblica anche nel caso in cui non riproponga pedissequamente tutti i requisiti formali dell’atto che intende simulare, perché ciò che rileva è l’impatto che quell’atto è idoneo ad avere sulla generalità dei soggetti che con esso possono entrare in contatto (in tal senso, si legga Cass. pen., Sez. V, Sentenza 27/04/2022 n. 16235).
[3] Il riferimento è al testo della “vecchia” legge professionale forense, poi sostituita dalla vigente legge 31 dicembre 2012 n. 247.