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Il giudice istruttore Bonifazi (Ugo Tognazzi), integerrimo magistrato, indagando sul sospetto omicidio di una giovane, Silvana, desume dall’interrogatorio dei genitori della ragazza il possibile coinvolgimento di Lorenzo Santenocito (Vittorio Gassman), un imprenditore edile ricco e senza scrupoli: sotto l’etichetta delle “pubbliche relazioni”, si serviva di Silvana per intrattenere i suoi altocati clienti. Santenocito, dopo aver cercato di bloccare sia con le minacce che con le lusinghe l’inchiesta di Bonifazi e dopo fatto rinchiudere in manicomio il proprio anziano padre, che non si era prestato a fornirgli un alibi per la sera della morte di Silvana, riesce finalmente a procurarsi una falsa testimonianza, che dovrebbe scagionarlo. Bonifazi però smaschera il falso alibi  e ne ordina l’arresto. L’industriale tuttavia non ha ucciso Silvana: lo scoprirà lo stesso giudice istruttore, leggendo il diario della povera ragazza. Al termine di una giornata in cui Roma impazzisce per la vittoria della Nazionale di calcio sull’Inghilterra, Bonifazi giunge con amarezza alla vera conclusione dell’inchiesta: certe cose avvengono perché sono il “sistema” e l’ottusa coscienza generale a consentirle. Distruggendo la prova dell’innocenza dell’indiziato, il giudice deciderà perciò di trascinarlo ugualmente in tribunale, per colpire, attraverso lui, tutto quello che egli rappresenta.

1. Oltre che un film profetico, In nome del popolo italiano è il ritratto di una nazione. Risi, supportato dalla sceneggiatura di Age e Scarpelli, racconta una Italia degli anni 1970, attraversata da istanze rivoluzionarie. A ‘destra’ l’industriale Renzo Santenocito (Vittorio Gassman) tangentista con agganci nelle alte sfere, a ‘sinistra’ il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi) che cerca di incastrarlo in un caso di omicidio. Il quadro rappresentato è nell’insieme decadente: mostri architettonici in demolizione, mari inquinati dagli scarichi industriali, strade che si sgretolano, palazzi di giustizia che vengono giù a pezzi. L’orrore ambientale è specchio dell’avidità e della grettezza morale di un Paese che tira avanti con il colpo di gomito e la strizzatina d’occhio: il qualunquismo è trasversale e colpisce tutti. All’interno della stessa magistratura vi sono connivenze politiche e “strabismi legislativi”.

Gassman rende al meglio la figura dell’ingegnere Santenocito: un uomo che dietro la ricercatezza dei termini nasconde il vuoto di un nuovo mostro in giacca e cravatta in preda a soliloqui del tipo: “io rifiuto il piattume delle terminologie indifferenziate. Più parole, più idee. Si! Io amo il linguaggio aderenziale e desemplicizzato…”.

Il film, uscito nel pieno degli gli anni di piombo, ha un’atmosfera plumbea e catastrofica, incarnata nella rappresentazione di spiagge sporche e abbandonate, di degrado ambientale conseguente all’inquinamento che in quegli anni era davvero incontrollato (la legge Merli, la prima che ha affrontato l’inquinamento delle acque, è solo del 1976), del crollo del Palazzo di Giustizia e del grigiore dei suoi androni e degli uffici: un’aria catastrofica che coinvolge i (magistrali) protagonisti, l’imprenditore senza scrupoli e l’integerrimo magistrato.

2. Il giudice Bonifazi è il prototipo dell’anti-eroe. Crede nella giustizia e la vuole esercitare nel nome del popolo italiano, nel nome e per conto degli italiani probi ed onesti. Ma quanti e quali sono gli italiani onesti e integerrimi fino in fondo? «Ma voi altri magistrati, non lo avete ancora capito che questo popolo italiano nel nome del quale sentenziate non merita un cacchio?», dice a inizio film a Bonifazi il professor Rivaroli, incaricato di effettuare l’autopsia della giovane escort Silvana. Il popolo italiano è anche quello gretto, violento e volgare, che si riversa in piazza a festeggiare in modo sguaiato la vittoria in una partita di calcio.

E il magistrato interpretato da Tognazzi è cosi ligio al dovere di operatore di giustizia? Bonifazi brucia il diario di Silvana, quello che riporta la prova dell’innocenza di Santenocito , in carcere per un omicidio che non ha compiuto: la ragazza, escort di professione, non per mantenere una famiglia povera, ma per ambizioni di ricchezza e successo, si è suicidata.

È deprecabile che un giudice si faccia prendere la mano e percorra la strada di un feroce giustizialismo: ma se Santenocito era innocente per l’omicidio, lo era per il resto? Un uomo di bassa caratura morale, che costruisce un falso alibi, che ha fondato e sviluppato un impero economico valicando confini etici e morali, ancor prima che le leggi; pronto a mandare in manicomio l’anziano padre che si era rifiutato di aiutarlo, con il falso alibi. Quanti Santenocito esistevano, ed esistono? 

3. Il giudice istruttore Bonifazi conduce le indagini sulla morte di Silvana, egli è dunque un Giudice, si “sente” profondamente Giudice e non “uomo di parte” come lui considera il Pubblico Ministero: emblematica in questo senso è la discussione che ha, nei corridoi e per le scale del Palazzo di Giustizia con il dott. Perrocchio, p.m. che aveva “passato” all’ufficio di Bonifazi il caso della “puttanella drogata” (parole di Perrocchio) e chiedeva una veloce conclusione delle indagini.

Quello che proprio Bonifazi non sopporta è l’atteggiamento di questo p.m., non sopporta che definisca così chiami quella povera ragazza, non sopporta che gli metta fretta nello svolgimento delle indagini e che gli dica in quale direzione rivolgere le sue attenzioni investigative (“indebite interferenze”, le chiama così Bonifazi).

Bonifazi considera Perrocchio un pubblico accusatore freddo e cieco, preoccupato solamente di applicare le norme. P.M. e Giudice: l’annosa diatriba del nostro ordinamento giudiziario che negli ultimi due decenni è stata alla ribalta della “questione giustizia” (e lo è ancora), ma che arriva da lontano, tanto che Age e Scarpelli nel 1971 marcavano questa distinzione tra i due personaggi della loro storia: il Giudice deve essere “terzo” tra le parti del processo, egli non è una “parte” processuale come invece è il pubblico accusatore.

4. È qui che si evidenziano le profonde differenze non solo tra Bonifazi e Perrocchio, ma tra il Giudice ed ogni altro personaggio del film: la presunta superiorità morale di Bonifazi lo spingerà a far di tutto per arrivare a cercare quella “verità” che si è precostituita nella mente perché, se i fatti fossero davvero andati così come egli ha pensato (e cioè che Silvana sia stata uccisa dall’Ing. Santenocito), ne avrebbe un piacere immenso (e non solo perché avrebbe fatto punire il colpevole, ma perché Santenocito è comunque colpevole, e non può essere altrimenti per Bonifazi), perché egli in cuor suo sa bene da che parte sta il male e dove il bene, ed un Giudice (o comunque un magistrato che abbia indipendenza morale) deve – come vedremo, a ogni costo – estirpare la mala pianta.

Bonifazi getterà nell’immondizia il diario di Silvana, dal quale apprende – per averlo scritto la stessa Silvana – che le ecchimosi e i segni delle percosse sul suo corpo (“botte e colpi e compagnia bella, insomma qualcuno l’ha menata…” aveva affermato il medico legale Brunori, sbagliando clamorosamente), non sono altro che la conseguenza di un “normale” tamponamento con “gran testata al parabrezza. La fronte e un ginocchio mi fanno malissimo” (dal diario di Silvana): e lui che era certo che fosse stata picchiata e che lo avesse fatto il suo indiziato eccellente!

Ma il colpo finale alle sue convinzioni di colpevolezza è scritto nel diario alla pagina del 7 Maggio (data della morte di Silvana): la ragazza ha vergato queste poche, eloquenti, parole “7 Maggio. Fourteenth lesson. No: this is my last lesson, questa è la mia ultima lezione. Ruhenol”. Il Ruhenol è un medicinale contenente un alcaloide sintetico, tipo “eroina” e la ragazza è morta per “eccessivo uso di oppiacei”, come aveva affermato il medico legale.

Che cosa farà dunque del diario che scagionerebbe Santenocito? È qui che il Giudice si pone contro quella legge che lui chiamato ad applicare: getta il diario nell’immondizia, facendo perdere per sempre la prova dell’innocenza del Suo “nemico”: egli è dunque convinto che la Giustizia si attui (anche) attraverso queste manipolazioni, purché il sistema venga finalmente scardinato e quindi i biechi personaggi come Santenicito siano comunque perseguiti perché la loro “colpa” è quella di ostacolare un percorso “inarrestabile”.

5. Rileggendo un libro pubblicato nel 1998, nel quale il magistrato Francesco Misiani ripercorre gli anni della sua attività di Giudice a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta (“La toga rossa” di Carlo Bonini e Francesco Misiani; Marco Tropea Editore), a pagina 29 troviamo scritto: “La sintesi è nella mozione approvata a Roma, in dicembre (il 5 Dicembre 1971, esattamente lo stesso anno in cui il film è stato scritto, ndr). “Il nostro comune assunto teorico” si legge “è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”.

Obiettivo è dunque “La realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare la giustizia delle sue caratteristiche di strumento e di tutela degli interessi delle classi dominanti per renderla funzionale alle esigenze di uguaglianza, partecipazione ed emancipazione, sociale ed economica, delle classi lavoratrici”.

La Giustizia “da piegare” per il raggiungimento di un obiettivo. Come la “giustizia” praticata dalla Corte Marziale in “Orizzonti di gloria”: la condanna dei tre fanti era scritta, la loro punizione non era dovuta perché realmente colpevoli, ma perché ritenuti simbolo di ciò che i loro “carnefici” volevano in quel momento avversare e combattere[1].

Il diritto diventa così solo quello del più forte e non quello di tutti. Il Giudice Bonifazi ha ceduto a tutto questo: si può considerare un buon giudice?

Per un uomo di legge, la verità dovrebbe essere l’obiettivo dell’azione, a costo di scagionare il peggior nemico. «Io mi chiedo: se è ancora utile investire tante energie per l’applicazione delle leggi o se invece, rinunciando a vacue speranze e ad aspettative mai ripagate, non ci convenisse accettare l’ingiustizia come regola e non come eccezione, questo nella speranza ovviamente che almeno l’ingiustizia sia uguale per tutti», recitava Alberto Sordi in “Tutti dentro[2].

Il suo Salvemini, per incastrare i colpevoli e i “pesci grossi”, esce dai confini dell’azione giudiziaria, veste i panni del detective, e manda in carcere anche persone che non hanno responsabilità. Nel finale si ritrova ingiustamente incriminato e la sua posizione è al vaglio di giudici verosimilmente onesti, che potrebbe condannarlo, giustamente, per delle prove che sembrano effettivamente inconfutabili, ma che in realtà sono state costruite a tavolino dai suoi nemici. E allora la speranza è nell’ingiustizia che restituisca a Salvemini la sua innocenza. Bonifazi invece incastra con una falsa accusa chi era riuscito sempre a eludere la legge. Il sistema si può combattere in questo modo? Si possono distruggere centri di potere giocando così sporco? «Io sono stufo di essere difensore di leggi che proteggono una società che fa schifo, perché consentano a individui come lei di prosperare e proliferare», è lo sfogo di Bonifazi.

Ma Santenocito gli risponde: «Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto. Lei non è un buon giudice». Noi da che parte stiamo? O vi è la strada, del tutto alternativa, del rispetto della verità del fatto, raggiunta nel rispetto delle regole, della quale è stato maestro Rosario Livatino?

Daniele Onori


[1] Cfr https://www.oralegalenews.it/magazine/in-nome-del-popolo-italiano/12369/2020/

[2] Cfr https://www.centrostudilivatino.it/3-tutti-dentro-1984-di-alberto-sordi/

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