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Per Grozio poiché l’uomo è un animale sociale, è per sua natura portato a relazionarsi coi propri simili, anche se gli egoismi e gli interessi individuali sono causa di conflitti. Gli uomini devono quindi darsi delle leggi per poter vivere insieme. Essi istituiscono tra loro un patto rinunciando a una parte dei poteri che ciascuno ha in quanto essere libero in natura. L’obiettivo di questo patto è l’utile, quale forma necessaria di benessere diffuso tra tutti gli uomini.

1. L’olandese Huig van Groot (1583-1645), il cui nome italianizzato è Ugo Grozio, è considerato il fondatore del giusnaturalismo moderno. Appartenente a una famiglia di studiosi, fu nominato a soli vent’anni, grazie a un ingegno precocissimo, storiografo ufficiale del Repubblica delle Province unite, e iniziò la composizione degli Annales et historiae de rebus belgicis, pubblicati postumi nel 1657. Al periodo giovanile appartiene la stesura della prima parte del De iure praedae, al cui completamento egli giunse nel decennio seguente, pubblicando nel 1609 Mare liberum, base di tutte le future dottrine sul diritto della navigazione. Impegnato nelle dispute politiche e religiose fra arminiani e calvinisti, fu condannato al carcere a vita, pena cui si sottrasse con l’evasione. Fuggito a Parigi, lì fu impegnato nella fase più intensa dei suoi studi giuridici e di filosofia del diritto: del 1625 è la sua opera maggiore, il De iure belli ac pacis.

Alla corte di Parigi, egli incontrò la ferma opposizione del card. Richelieu, accanito avversario delle sue tesi circa i rapporti fra Chiesa e Stato, e poi del card. Mazarino. I suoi ultimi anni, pur amareggiati dalle continue lotte politiche alla corte francese, furono fecondi di opere: Introduzione alla giurisprudenza olandeseHistoria Gothorum, Vandalorum et LongobardorumDe antiquitate rei publicae BatavicaeDissertatio de origine gentium americanarum.

2. Vissuto nel periodo delle lotte di religione, Grozio si chiese se fosse possibile trovare per il diritto un fondamento che non fosse teologico, che cioè andasse al di là della sfera religiosa. Lo trovò nel concetto di diritto naturale, e per questo venne considerato l’iniziatore di quell’indirizzo del pensiero giuridico detto giusnaturalismo (dal latino ius, diritto, e naturalis, naturale: diritto naturale) che sostiene appunto l’esistenza di un diritto naturale conforme alla natura dell’uomo, perciò intrinsecamente giusto e universale, cioè valevole sempre e ovunque, in ogni circostanza.

Grozio abbandonò Parigi nel 1632, per tornare in Olanda, dove però fu costretto alla clandestinità, e quindi emigrò ad Amburgo. In questi anni la proposta groziana per la soluzione dei conflitti religiosi si rivolge all’ecumenismo, che egli propugna non solo teoricamente, ma cerca di realizzare con l’impegno politico, in virtù della carica di ambasciatore svedese in Francia, ottenuta nel 1634 dalla regina Cristina di Svezia.

Ritornato a Parigi per svolgere tale incarico, riprese la consuetudine con gli ambienti governativi da cui era stato distolto negli anni della prigionia e della clandestinità. Nel 1645, tuttavia, stancatosi del faticoso ufficio diplomatico, partì alla volta di Stoccolma per rassegnare le dimissioni nelle mani di Cristina, ma durante il viaggio di ritorno in patria, a causa di un naufragio, fu costretto a far scalo a Rostock, nel Meclemburgo, ove fu colto dalla morte il 28 agosto.

3. Il vertice del pensiero groziano è il De jure belli ac pacis, del 1625, col quale egli basa il diritto esclusivamente sulla ragione umana. Il punto di partenza sta nell’identificazione di ciò che è naturale con ciò che è razionale, sull’assunto che la natura dell’uomo è la ragione: in questo vi è una radicale differenza rispetto all’ordine del diritto descritto da San Tommaso d’Aquino (https://www.centrostudilivatino.it/tommaso-daquino-il-diritto-fra-ragione-e-relazione/) e con la scuola della Riforma cattolica (https://www.centrostudilivatino.it/5-francisco-suarez-e-il-de-legibus-tra-i-fondamenti-del-pensiero-giuridico-occidentale/).

Grozio fa scaturire la certezza dello jus naturae dalla sua necessità, poiché esso disciplina quelle azioni nelle quali si manifesta la peculiarità della natura umana, razionale e sociale. Poiché le leges naturae sono espressione della naturale razionalità e socialità dell’uomo, impongono comportamenti certi, ovvero perfettamente prevedibili, in quanto essi, riflettendo la specificità della natura umana, non potrebbero essere diversi da come sono. Ne discende che un atto contrario al dettato dello jus naturae venga avvertito inevitabilmente come ingiusto dagli uomini, in quanto contrastante con la loro natura complessiva.

Si può pertanto considerare probabilmente conforme allo jus naturae ciò che è giusto per tutti i popoli, o almeno per tutti quelli più civili[1], vale a dire lo jus gentium, che è specificamente costituito da quei precetti che sono riconosciuti validi dalle nazioni più civili[2].

4. Se i princìpi del diritto delle genti – o almeno alcuni di essi – possono coincidere con le norme del diritto naturale, ciò accade perché, secondo il giusnaturalista olandese, è il sensus communis degli uomini – che Eraclito definiva λόγον ξυνός[3] – ad indurre soggetti appartenenti a realtà sociali diverse a volere la medesima cosa, vale a dire a includere una stessa norma nel diritto naturale. Il comune sentire di cui parla Grozio altro non è che l’espressione a livello collettivo della partecipazione della ragione umana alla costruzione razionale, che sorregge l’ordine naturale. Solo in tal modo si può comprendere come Grozio affidi al consensus gentium, ossia a ciò che Aristotele aveva definito ‘valido per i più’[4], l’individuazione di precetti che abbiano una pretesa di universalità.

Il razionalismo di Grozio non aveva in sé elementi filosofici più significativi, in senso laico, di altri pensatori che l’avevano preceduto. La diversità stava però nel fatto che egli agiva in un momento storico e in un contesto culturale molto particolare. Mentre infatti l’opera di un Vásquez o di altri teologi di scuola tomista era coerente con l’impostazione della Riforma cattolica, il De jure belli ac pacis divenne subito famoso come espressione di quell’Umanesimo, agitato dalla Riforma luterana, penetrato nei regni divenuti i nuovi protagonisti della storia: Olanda, Francia, Inghilterra, Germania.

Per questo motivo fu interpretato nello spirito della cultura moderna, che fece del giusnaturalismo groziano il proprio programma etico-giuridico, così come fece del pensiero di Bacone, Cartesio e Galileo il proprio programma metodologico e scientifico. Nel giusnaturalismo razionalistico, così come lo trovò esposto nel De iure belli ac pacis, la cultura del Seicento vide l’avvio di una laicizzazione, che rompe il quadro della continuità fra lex divina, lex naturalis e lex positiva della tradizione aristotelico-tomista, per pervenire a una fondazione dell’etica su basi puramente umane.

Letto così, Grozio, oltre ogni sua intenzione, e ben al di là di quanto avrebbe comportato il reale valore filosofico della sua opera, diventò l’iniziatore di una nuova epoca della filosofia etico-giuridica, e conseguentemente politica.

Daniele Onori


[1] Cfr. Hugonis Grotti, De jure belli ac pacis, cit., I, I, XII, 1, p. 15: «a posteriori vero, si non certissima fide, certe probabiliter ad modum, juris naturalis esse colligitur id, quod apud omnes gentes, aut moratiores omnes tale esse creditur. Nam universalis extimationis causa vixulla videtur esse posse praeter sensum ipsum, communi qui dicitur».

[2] Grozio tuttavia, pur non approfondendo i rapporti tra il diritto naturale ed il diritto delle genti, distingue chiaramente l’uno dall’altro. Essi, infatti, presentano un’origine ed una finalità diversa: mentre lo jus naturae deriva dalla naturale razionalità e socialità umana ed ha come obiettivo proprio la piena realizzazione della natura dell’uomo, lo jus gentium, invece, ha origine nella comune volontà dei popoli e mira alla loro utilità: cfr. ivi, I, Prol. 16-17, pp. XII-XIII .

[3] Cfr. ivi, I, I, XII, 1, p. 16.

[4] Nel primo libro dell’Etica Nicomachea, in cui Aristotele specifica l’argomento ed il metodo dell’opera, egli sostiene che i dati di partenza dell’etica, attinenti a ciò che deve essere fatto o a quale sia la vita virtuosa, non riguardano una conoscenza dello stesso grado della conoscenza degli enti matematici e metafisici, la cui verità degli enunciati è apodittica, legata alla logica. Difatti, l’oggetto della politica e dell’etica è il bene, o meglio l’azione rivolta al bene, la quale si manifesta nella prassi. Di conseguenza, poiché tali scienze si fondano su dati provenienti dalla prassi, che è contingente e priva del valore assoluto di un ente metafisico dotato di necessità, esse avranno un metodo ragionato, ma unicamente secondo il grado di certezza della probabilità: guarderanno, quindi, a ciò che è valido per i più, non per tutti. A questo riguardo, cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. di Carlo Natali, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007, libro I, cap. I, pp. 2-7.

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