Pare che l’incendio che ha attraversato numerosi istituti penitenziari non sia affatto spento. E che stia covando sotto la cenere. L’allarme è contenuto in una nota del 20 marzo scorso inviata dal Capo della Polizia, il prefetto Franco Gabrielli, ai vertici delle Forze di Polizia. Il dato interessante, che è indice di una prima analisi compiuta verosimilmente dagli inquirenti sui protagonisti delle rivolte, è quello relativo ad alcuni ambienti che soffierebbero sulle braci ancora ardenti, composti non solo dai familiari dei reclusi e quindi da ambienti riconducibili ai circuiti della criminalità, comune o organizzata, ma anche – così si legge nella nota- da “diverse anime del movimento anarchico”. Le indagini accerteranno se vi è stata una regia e da parte di chi. Quel che è certo è che vi è chi profitta a vario modo del disordine e non sempre perché sinceramente preoccupato per le condizioni di vita dei carcerati italiani.
- Partiamo dalla situazione degli istituti di pena.
Tanti, in questi giorni di reclusione forzata da coronavirus, si stanno esercitando in una pratica obsoleta, l’esame di coscienza. Gli esiti variano sensibilmente a seconda, come è ovvio, della modalità scelta: c’è chi si limita a guardarsi allo specchio e chi incomincia ad osservare i fatti. Il ritorno al reale è condizione indispensabile per individuare i mali che ci hanno sfigurato, come singoli e come corpo sociale, e che hanno rappresentato il terreno di diffusione del morbo; e per identificare le priorità, quelle vere, in quanto radicate nei fatti, non quelle immaginate da chi, neppure in circostanze così drammatiche, è disposto a smettere i panni dell’ideologia.
Veniamo, allora, ai fatti. I dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria riferiscono, al 23 marzo scorso, della presenza nelle carceri italiane di 59.388 detenuti; di questi, gli italiani sono 40.006 e gli stranieri 19.382.
Un primo elemento emerge evidente: il 32,6% della popolazione carceraria è composta da persone che ben potrebbero (o avrebbero potuto) trovarsi altrove, scontando la pena presso i paesi di provenienza, se opportune intese con gli stessi fossero state concluse, o se quelle concluse avessero compiuta esecuzione. Con l’altrettanto solare conseguenza che, se appunto i detenuti stranieri fossero stati rimpatriati, l’indice di sovraffollamento – pur se, sul punto, i metodi di calcolo lasciano spazio a più di qualche dubbio – sarebbe tale da consentire ai reclusi condizioni di vita indubbiamente migliori (attualmente la capienza regolamentare è stimata a 50.894 unità).
Come diceva un grande storico, Marco Tangheroni, la storia si fa proprio con i “se”; con la capacità, cioè, di ricostruire, con aderenza ai fatti, le cause di determinate situazioni di cui nel presente si sperimentano gli effetti, e con l’umiltà di imparare dagli errori commessi. Ma vi è chi confonde, ancora una volta annebbiato dall’ideologia, la necessaria protezione dello straniero in difficoltà con la immotivata permanenza sul suolo nazionale di chi le difficoltà le ha create a chi lo ha accolto, ingrossando le fila della criminalità.
- Un ulteriore dato merita di essere posto in evidenza, quello relativo alla posizione giuridica dei reclusi. Orbene, sempre al 23 marzo, i detenuti in attesa del primo giudizio rappresentano il 15,7% del totale. Sempre tanti, si intende; ma ben lungi dal rappresentare la maggioranza, che invece è saldamente nelle mani, con la ragguardevole maggioranza del 69%, dei definitivi, cioè di quei detenuti che hanno attraversato tutti i gradi di giudizio.
Se a questo dato sommiamo quello risultante dalla cornice normativa vigente, siamo anche in condizione di dare un volto a chi popola nella stragrande maggioranza le nostre carceri: persone che si sono rese responsabili di crimini gravi, perché condannate a pene elevate. Ed allora, sempre proseguendo in un salutare esame di coscienza, non pare aderente alla realtà dei fatti, ma il frutto di una distorsione ideologica dura a morire pure al tempo del Coronavirus, sostenere che l’affollamento delle carceri è conseguenza di una sorta di panpenalismo, ovvero della tendenza a utilizzare la sanzione penale per tante, troppe condotte: preoccupazione pure condivisibile, a patto di stabilire chi depenalizza cosa e perché. Giacché vi è pure chi coglie l’occasione per propugnare (si veda quanto scritto da Livio Pepino su Questione Giustizia del 19 marzo scorso) “una depenalizzazione di settori cruciali come la disciplina degli stupefacenti e quella dell’immigrazione”.
Ed ancora, se i fatti ci dicono che in carcere non ci sono soggetti incensurati o criminali resisi responsabili di reati bagatellari, ma persone che necessitano di un serio percorso rieducativo, neppure può essere catalogata fra le risposte realistiche un generalizzato ed indiscriminato ricorso agli strumenti dell’amnistia e dell’indulto. Ben diversa è l’ipotesi – sostenuta su questo sito dal prof. Mauro Ronco – di un indulto assai circoscritto, sia per il quantum condonato sia con riferimento alle condizioni soggettive per beneficiarne.
Giacché vi è chi sembra sfruttare le proteste dei detenuti per scagliarsi contro la pena in sé, vista come il portato di una demagogia populista e non come la necessaria riparazione della giustizia violata, l’indispensabile tutela di chi ha sofferto, la salutare occasione di redenzione di chi ha violato consapevolmente le regole del consorzio civile.
- E veniamo, infine, alle condizioni di questi ultimi ed alle ragioni, manifestate, delle proteste.
Non vi è dubbio che le carceri riflettono le condizioni generali in cui versa una società; e non solo per la qualità della popolazione carceraria, che, seppur in numeri assoluti non dissimile da quella delle maggiori nazioni europee, è caratterizzata dalla significativa presenza di soggetti organicamente inseriti in contesti di tipo mafioso. Ma anche per le caratteristiche dell’intero circuito penitenziario, fatto di edifici inadeguati per numero e molto spesso per qualità, e di una catena di comando che sovente lascia da soli i direttori a gestire situazioni strutturalmente emergenziali, divenute tali per l’assenza di una visione strategica.
L’epidemia, pertanto, ha rappresentato l’occasione per protestare non solo contro la restrizione dei colloqui, spesso dettata dal timore di ulteriori e più stringenti limitazioni dovute anche a difetti della comunicazione, interna ed esterna al circuito penitenziario; ma anche, come è stato evidenziato in un articolato resoconto comparso l’11 marzo scorso su una rivista non sospetta di demagogia carceraria come l’Internazionale, dalla rivendicazione di migliori condizioni di vita e di provvedimenti di clemenza ampi e generalizzati. Tranne che per la rivolta di Foggia, che ha registrato un’allarmante evasione di massa, anche di pericolosi criminali, non sembra emergere un fattivo interesse della criminalità organizzata di stampo mafioso: prova ne sia l’assenza di tumulti in regioni tradizionalmente afflitte da questo cancro, quali la Calabria e la Sicilia. Il che, se tranquillizza per un verso, allarma per un altro, potendo essere interpretato come la prova di un perdurante controllo dei sodalizi mafiosi anche della vita all’interno degli istituti, come l’interessato silenzio di chi rimane in attesa di approfittare dei provvedimenti di clemenza che potrebbero conseguire quale risposta immediata, specie, come si è detto, se strutturati senza operare le dovute distinzioni e limitazioni.
Se si tratta, in definitiva, di adottare soluzioni che mirino, per un verso, ad alleviare le condizioni di vita dei detenuti e, per altro, ad estendere anche agli istituti quelle norme di precauzione che valgono per tutti e che si basano essenzialmente sul distanziamento; a tale scopo, occorre, in tempi brevi, giungere a ridurre la popolazione carceraria quanto meno entro i limiti della capienza regolamentare. Tra le misure prospettate, in alternativa a quella di un indulto circoscritto, potrebbe pure ipotizzarsi il ricorso ad un permesso straordinario, strettamente legato all’emergenza sanitaria in corso, e, pertanto, dalla durata temporale circoscritta, da fruire presso il domicilio da parte dei detenuti con un residuo di pena contenuto, concedibile dal magistrato di sorveglianza previa la sola verifica della sussistenza delle condizioni soggettive. Tale ultima soluzione, oltre ad evitare il ricorso a condoni mascherati, consentirebbe, inoltre, un’applicazione uniforme, dagli esiti prevedibili e certi, e non soggetta alla discrezionalità interpretativa dei vari uffici di sorveglianza.
- Per concludere. Torniamo al punto da cui siamo partiti. E’ indiscutibile che in un momento così drammatico qual è quello che stiamo vivendo – che vede sommarsi l’attualità delle vicende tragiche di tante comunità e di tante famiglie con l’incertezza del paesaggio sociale ed economico che ci attende passata, si spera quanto prima, la tempesta -, accrescere il senso di insicurezza soffiando sulla rabbia dei detenuti, ovvero sfruttando il silenzio complice della criminalità organizzata, è davvero manifestazione del peggiore sciacallaggio, quello ideologico. Quello, cioè, di chi vuole utilizzare il disordine e la conflittualità sociale per demolire quel che resta delle istituzioni e dei principi di giustizia che devono reggere ogni consorzio civile. Per realizzare l’insensato obiettivo nichilistico di una disperazione anche sociale.
Non si tratta di descrivere un complotto. Ripeto: saranno le indagini a dare eventualmente un volto a coloro che il Capo della Polizia sospetta possano soffiare sul fuoco dei tumulti. E’ solo il richiamo a disinnescare le condizioni che rendono possibile ai “maestri” dell’inganno relativistico ed agli agitatori dell’odio sociale di continuare la loro opera in danno non solo di chi davvero soffre condizioni di vita difficili nelle carceri, ma anche di un intero corpo sociale già così provato.
Una società, quella italiana, che ci auguriamo, dopo il Coronavirus, sappia debellare anche quel che resta del morbo dell’ideologia, nonostante le sue multiformi e suadenti mutazioni.
Domenico Airoma, Procuratore aggiunto della Rep. Tribunale Napoli Nord