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Pubblichiamo, prima della sosta per la S. Pasqua, due interventi a tempestivo commento – con proposte migliorative – del D.L. n. 23/2020, appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. L’esame della normativa di emergenza riprenderà, Dio piacendo, martedì 14 aprile.


L’annunciato “decreto liquidità”, destinato a dar fiato al sistema economico italiano ridotto in ginocchio per il blocco sanitario, è arrivato nella tarda serata dell’8 aprile, con il n. 23 del 2020. Esso ha un pregio e un difetto. Il pregio è che costituisce effettivamente una valida misura per incentivare la ripresa di alcune attività economiche. Il difetto è che le attività economiche che esso incentiverà saranno presumibilmente soltanto quelle di avvocati e commercialisti, al cui soccorso imprese e altri professionisti dovranno ricorrere per districarsi in una normativa di difficilissima comprensione e di ancor più farraginosa applicazione al fine di capire quali mai siano i diritti che il decreto conferisce e se essi spettino o meno nei vari casi concreti.

  1. Basta leggere l’articolo 1, che si estende per ben quattro pagine, per avere un saggio della cavillosità dell’intervento. Ma non è tutto. Infatti, occorrono altre sei pagine, diffuse nell’art. 13, per avere un quadro completo, valevole anche per le PMI. Oltre, naturalmente, alle previsioni specifiche per settori speciali disseminate anche altrove nel decreto. Almeno dieci pagine di procedure, quindi, per dettare le condizioni alle quali lo Stato concede la propria garanzia sui prestiti che le imprese richiedono alle banche per finanziarsi in questa fase di emergenza: senza prestiti, infatti, le imprese che non conseguono idonei ricavi a causa del blocco non possono pagare i costi fissi e, quindi, devono chiudere. Sennonché, in assenza di idonea garanzia, difficilmente una banca concederebbe finanziamenti a imprese che, come oggi avviene, sono costrette a operare in condizioni antieconomiche a causa del blocco; correlativamente, se le banche concedessero prestiti in tali condizioni senza chiedere garanzie per assicurarsi la restituzione di quanto prestato, sarebbe concreto il rischio di default del sistema bancario, con conseguente riduzione in miseria del Paese. Per questo, come già segnalato nel precedente intervento, la garanzia pubblica sui finanziamenti bancari delle imprese è misura indispensabile in questa fase e moltissimi Stati (dagli USA alla Germania) l’hanno prontamente adottata. Ebbene, in Italia per comprendere se e quanto lo Stato potrà garantire i mutui e, quindi, se e quanto l’impresa potrà chiedere in prestito a una banca, l’impresa stessa dovrà districarsi fra pagine e pagine, commi e commi di complessissime previsioni e la banca dovrà tutelarsi compiendo altrettante verifiche. In tutto questo, come farà ad essere garantita la necessaria tempestività all’accesso al credito? E come farà ad essere garantita l’adeguata prevedibilità delle decisioni? Amara è la comparazione con le modalità con cui analogo intervento di garanzia pubblica è stato realizzato, ad esempio, nel Regno Unito o negli Stati Uniti: un modulo di autocertificazione di una pagina.

 

  1. Oltre al metodo, è anche il contenuto del decreto a lasciare ampiamente a desiderare. Perché limitare a sei anni la durata dei prestiti garantibili dallo Stato (art. 1, c. 2, lett. a e art. 13, c. 1, lett. c), quando la ripresa da questa grande depressione potrebbe facilmente richiedere tempi molto superiori? Perché escludere tout court dalla garanzia le grandi imprese in difficoltà (art. 1, c. 2, lett. b; diversa la previsione per le PMI di cui all’art. 13, c. 1, lett. g), senza distinguere quelle con prospettiva di prosecuzione dell’attività da quelle in procedura liquidatoria? Perché garantire soltanto una misura massima del 90% del prestito (art. 1, c. 2, lett. c e art. 13, c. 1, lett. b), sopra la soglia (risibile e comunque circondata da innumerevoli caveat) di 25.000 euro per le PMI con meno di cinquecento dipendenti (art. 13, c. 1, lett. m)? Perché prevedere soltanto nel caso residuale del prestito inferiore a 25.000 euro un calmiere ai tassi d’interessi praticabili dall’istituto bancario (art. 13, c. 1, lett. m)? Perché l’intento di semplificare la cervellotica procedura per le imprese medio-grandi (tra 500 e 5.000 dipendenti) viene perseguito invertendo la logica dei fattori, ossia subordinando l’erogazione della garanzia a una valutazione preliminare di rischio da parte della banca (art. 1, c. 6), anziché permettendo all’imprenditore di presentarsi in banca con la garanzia già in tasca e poter, così, ottenere subito il finanziamento? Perché chiedere compensi (art. 1, c. 2, lett. e e h e art. 9-quinquies, lett. i del d.l. n. 269/2003, come modificato dall’art. 2 del decreto) per una misura a sostegno della ripresa come dovrebbe essere il rilascio della garanzia pubblica? Dev’esser questo il costo per le imprese dell’intermediazione di Sace S.p.A. (specie considerando che le garanzie concesse dal fondo di garanzia per le PMI sono gratuite: art. 13, c. 1, lett. a) e degli equilibri politici che ad essa si connettono? Perché commisurare la percentuale d’importo (che decresce con il crescere dell’impresa), oltre che all’importo del fatturato globale, anche al numero dei dipendenti nella sola Italia (art. 1, comma 1, lett. d), con la conseguenza che le imprese con sede in Italia ma con produzione delocalizzata potranno godere di una garanzia più solida di quella cui avrebbero avuto diritto se non avessero delocalizzato? Perché istituire soltanto un comitato per il sostegno finanziario all’esportazione (art. 9-septies del d.l. n. 269/2003, come modificato dall’art. 2 del decreto, e art. 3 del decreto), senza curarsi anche dello stimolo dei consumi interni?

 

  1. Infine, un ultimo aspetto merita di essere evidenziato. Perché subordinare al placet della Commissione Europea (menzionato nell’art. 1, c. 12 ed evocato come un mantra durante tutto il corso dell’art. 13) l’operatività della garanzia pubblica ai finanziamenti delle imprese, con conseguenti ulteriori ritardi applicativi, quando l’Unione Europea ha dimostrato la propria totale incapacità e mancanza di volontà nel fronteggiare le richieste dell’Italia e, soprattutto, quando l’esclusione dell’applicazione della normativa sugli aiuti di Stato discende direttamente dal comma 2, lett. b) dell’art. 107 del TFUE (trattandosi, all’evidenza, di “aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali”)? Forse per consentire alle istituzioni europee di apparire benevolenti e di essere presentate come tali all’opinione pubblica italiana, in un maldestro tentativo di recuperare a esse legittimazione, quando in realtà l’Italia ha diritto di applicare la misura in questione in virtù della propria sovranità nazionale e, per di più, per diretta disposizione degli stessi trattati europei?

 

A tutte queste domande, e a molte altre che potrebbero porsi, il sistema disegnato dal “decreto liquidità” non offre risposte ragionevoli. Più che un “decreto liquidità”, sembra così che il Governo Italiano abbia varato un decreto “sabbie mobili”. Non sono queste le pastoie di cui c’è bisogno per far ripartire l’economia italiana dopo il dissesto causato dal coronavirus.

Avv. Francesco Farri

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