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Pubblichiamo il provvedimento emesso dalla Corte Distrettuale dello Stato di Washington, sezione distaccata di Seattle, relativo all’ordine esecutivo n. 13769, firmato dal Presidente degli USA Donald Trump il 27 gennaio 2017, che inibisce per 90 giorni ai cittadini provenienti da Siria, Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen l’ingresso negli Stati Uniti. Rispetto al provvedimento emesso dalla Corte di New York (Darweesh v. Trump, No. 1:17-cv-00480 (E.D.N.Y. 2017)), ripreso con un breve commento dal nostro sito lo scorso 2 febbraio, ci sono differenze significative, anzitutto di natura processuale, suscettibili di determinare esiti differenti, stavolta di portata generale. Nel caso in esame (State of Washington v. Trump, No. C17-0141JLR (W.D.WA 2017)) il ricorrente, infatti, è lo Stato federale di Washington: non un privato o un ente collettivo per una classe di privati come nel caso Darweesh. Più precisamente, il Tribunale di Washington è stato adito non come Tribunale statale ma come Tribunale federale, ovvero con competenza giurisdizionale sui casi che riguardano il governo degli Stati Uniti o i suoi rappresentanti, la Costituzione degli Stati Uniti o le leggi federali, oppure controversie tra Stati o tra gli Stati Uniti e i governi stranieri.

 Le principali conseguenze (e differenze) rispetto al procedimento innanzi al Tribunale distrettuale di NY, nel quale era stata richiesto un provvedimento atipico che impedisse l’espulsione, sono due:

 a) la efficacia spaziale del giudicato (legato al rapporto tra Stati federali e poteri presidenziali o alla legittimità dei relativi provvedimenti, e non a quello tra caso specifico e poteri presidenziali o legittimità dei relativi provvedimenti) non è circoscritta al distretto di Corte di Appello interessato dal caso specifico, ma è estesa a tutto il territorio USA poiché tutti gli Stati sono potenzialmente lesi dalla eventuale illegittimità del provvedimento presidenziale;

b) il giudizio potrebbe giungere innanzi alla Corte Suprema, Tribunale di ultima istanza della giurisdizione federale.

Sebbene i requisiti siano sempre quelli di un provvedimento di urgenza (fumus boni juris e periculum in mora), quello emesso dal Tribunale di Washington è tecnicamente un TRO (temporary restraing order), ovvero un provvedimento cautelare ante causam di durata limitata, e non una preliminary injunction che è sempre un provvedimento cautelare ma valido fino alla decisione di merito. Nel merito il Tribunale, chiarita la portata dei poteri giurisdizionali (federali e non statali) attivati nel caso di specie e precisata la differenza tra i provvedimenti cautelari emanabili, dichiara  sussistenti e provati dagli stati ricorrenti (a quello di Washington si è affiancato il Minnesota) i requisiti della parvenza del buon diritto e del danno grave e irreparabile, il tutto con riferimento alla paventata limitazione dei poteri dello Stato federale in tema di educazione, sviluppo, lavoro, politiche familiari e libertà di movimento conseguenti alla puntuale applicazione dell’ordine esecutivo. Di conseguenza il Tribunale ha sospeso, con efficacia erga omnes, l’applicazione delle parti più significative dell’ordine esecutivo fino alla eventuale emissione di una preliminary injunction conseguente all’esame più approfondito della questione, all’ascolto delle parti e al deposito di memorie per cui è stato concesso termine fino a oggi 6 febbraio.

State of Washington v. Trump, No. C17-0141JLR

Nel frattempo, il Dipartimento di Giustizia ha proposto immediato reclamo avverso questo primo provvedimento cautelare (come detto valido solo sino alla eventuale emissione di ulteriore provvedimento cautelare sub specie di preliminary injunction efficace invece fino alla statuizione di merito) del giudice della Corte distrettuale dello Stato di Washington. Con il reclamo il dipartimento di Giustizia ha chiesto la emissione di un provvedimento immediato, inaudita altera parte, in attesa della decisione sul reclamo stesso avverso il TRO. Il 9^ circuito della Corte d’Appello ha respinto il 4 febbraio la richiesta di provvedimento inaudita altera parte, assegnando ai reclamati termine fino alla mezzanotte del 5 febbraio per memorie e ai reclamanti fino alle 15 di oggi per repliche.

Il Centro studi Livatino è in grado di offrire ai propri lettori sia il testo del reclamo del Dipartimento di Giustizia sia lo scarno provvedimento di rigetto di decreto inaudita altera parte.

Contrariamente a quanto rappresentato dai media, non è stato rigettato “l’appello proposto dall’amministrazione americana” bensì una domanda preliminare contenuta nel reclamo avanzato avverso un provvedimento cautelare di 1^ grado. Al momento non vi è alcuna pronuncia di merito sull’ordine esecutivo in questione e, di conseguenza, alcuna pronuncia di appello sulla stessa; pende un reclamo proposto dall’amministrazione avverso un provvedimento cautelare e provvisorio: in questa sede è stata rigettata dalla Corte d’Appello la richiesta di un ordine d’emergenza inaudita altera parte per la sospensione dell’efficacia del provvedimento cautelare di 1^ grado in attesa della pronuncia sul reclamo avverso lo stesso.

La battaglia giudiziaria è, dunque, complessa e ancora alle primissime battute; e non è detto giungerà mai al termine o comunque al termine in tempo utile. L’ordine esecutivo, infatti, è valido 90 giorni: vi è ragione di credere che questo tempo non sia sufficiente ad ottenere una pronuncia di merito definitiva e che se l’ordine esecutivo non verrà rinnovato (magari perché nel frattempo sostituito da diverso provvedimento o atto legislativo vero e proprio) tutti questi giudizi si estingueranno per cessata materia del contendere o comunque i loro arresti saranno privi di efficacia reale. Anche per questi motivi, dunque, la vicenda sembra più una battaglia mediatica e politica che non una complessa questione giuridica. Continueremo ad ogni modo a seguirla.

Francesco Cavallo avvocato – PhD Università del Salento e Visiting Research Fellow Fordham University School of Law NY

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