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Il contributo analizza le fattispecie previste dall’art. 24 del codice deontologico forense, in tema di conflitto di interesse, inquadrando la norma nell’ambito del più generale quadro costituzionale e ponendola in relazione alla corrispondente fattispecie prevista dall’art. 63 del Testo Unico sugli Enti Locali, con cui la normativa deontologica forense si intreccia in tutte quelle ipotesi in cui il professionista assuma anche un incarico di amministratore locale, come nel caso di avvocato consigliere comunale o circoscrizionale.

1. Il conflitto di interessi è una condizione giuridica che si verifica quando viene affidata un’alta responsabilità decisionale a un soggetto che ha interessi personali o professionali in contrasto con l’imparzialità richiesta da tale responsabilità, che può venire meno a causa degli interessi in causa. Può verificarsi in diversi contesti e ambiti: economia, diritto, politica, lavoro, sanità.

Il fondamento costituzionale del conflitto di interessi è rinvenibile negli articoli 54, 97 e 98. Nello specifico, l’articolo 54 fa riferimento allo svolgimento delle funzioni pubbliche da parte dei funzionari con disciplina e onore, mentre l’articolo 97 fa riferimento ai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Inoltre, l’articolo 98 detta il principio secondo il quale i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, lasciando intendere proprio l’esclusivo interesse verso quest’ultima e pertanto l’interesse pubblico.

La disciplina riguardante il conflitto di interessi rappresenta una delle misure più importanti di prevenzione della corruzione, perché risulta l’espressione di una lesione anche solo potenziale di interessi pubblici che potrebbe però comportare fenomeni corruttivi e, di conseguenza, risulta fondamentale prevenire tale situazione con l’obbligo per il dipendente di astenersi in caso di conflitti di interessi, anche solo se potenziale.

Con la legge del 6 novembre del 2012, n. 190, il legislatore ha introdotto l’articolo 6-bis alla legge del 7 agosto del 1990, n. 241[1], rubricato «conflitto di interessi» con l’obiettivo di prevenire il possibile contrasto che potrebbe crearsi tra la missione pubblica e gli interessi privati, nonché al fine di rafforzare la salvaguardia dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione. Pertanto, con tale disposizione si vuole sottolineare come il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici coinvolti nel procedimento hanno l’obbligo di segnalare ogni conflitto di interesse, anche solo potenziale.

2. Nel codice deontologico forense la norma che lo disciplina è, invece, l’art 24, che va però letto in combinato disposto con l’art. 9, rubricato «doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza», il quale dispone che l’avvocato debba esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. I suddetti doveri vanno osservati anche al di fuori dell’attività professionale.

L’art. 24, rubricato «conflitto di interessi», dispone che:

1. l’avvocato debba astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale (comma 1);

2. il legale, nell’esercizio dell’attività professionale, deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale (comma 2);

3. il conflitto di interessi sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico (comma 3);

4. l’avvocato deve comunicare alla parte assistita e al cliente l’esistenza di circostanze impeditive per la prestazione dell’attività richiesta (comma 4).

La violazione dei doveri di cui ai commi 1, 3 e 5 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni. La violazione dei doveri di cui ai commi 2 e 4 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente, formatosi sotto il vigore della norma che in precedenza disciplinava la materia[2], sosteneva che la condotta dell’avvocato, al fine di integrare un illecito disciplinare, presupponesse l’esistenza di un conflitto di interessi “effettivo” (Cass. Sez. Unite, 15 ottobre 2002 n. 146193).

Diversamente l’attuale art. 24 vieta all’avvocato qualunque tipologia di condotta che possa generare un conflitto di interessi anche solo “potenziale”. In tal modo la norma vigente ha notevolmente ampliato la casistica degli illeciti disciplinari in materia, rendendo il conflitto di interessi un illecito di pericolo.

Il divieto di prestare attività professionale in conflitto di interessi anche solo potenziale (art. 24 CDF, già art. 37 codice previgente) risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato ma, altresì, alla loro apparenza (in quanto l’apparire indipendenti è tanto importante quanto esserlo effettivamente)[3], dovendosi in assoluto proteggere, tra gli altri, anche la dignità dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone, quindi a tutela dell’immagine complessiva della categoria forense, in prospettiva ben più ampia rispetto ai confini di ogni specifica vicenda professionale.

Conseguentemente: 1) poiché si tratta di un valore (bene) indisponibile, neanche l’eventuale autorizzazione della parte assistita – pur resa edotta e, quindi, scientemente consapevole della condizione di conflitto di interessi – può valere ad assolvere il professionista dall’obbligo di astenersi dal prestare la propria attività; 2) poiché si intende evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato, perché si verifichi l’illecito (c.d. di pericolo) è irrilevante l’asserita mancanza di danno effettivo[4].

La costante giurisprudenza della Cassazione (ex multis, sentenza n. 22882/2011) edel Consiglio Nazionale Forense, fornisce una lettura della norma sul conflitto di interessi molto rigorosa: la norma sul conflitto di interessi mira a evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato e, quindi, perché si verifichi l’illecito è sufficiente che “potenzialmente” l’opera di quest’ultimo possa essere condizionata da rapporti di interesse con la controparte[5].

L’art. 24 del codice deontologico forense è volto a evitare situazioni in cui si potrebbe essere indotti a dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato. Per questa ragione, ai fini della sussistenza dell’illecito, è sufficiente che l’opera del professionista possa essere condizionata, anche solo potenzialmente, da rapporti con la controparte ed è irrilevante che le parti siano consapevoli o abbiano prestato il proprio consenso alla prestazione professionale.

A ben vedere la disciplina del conflitto di interessi trova le proprie radici in norme più generali rinvenibili nello stesso Codice: si pensi ai doveri di lealtà e correttezza, di fedeltà di segretezza e riservatezza, nonché al fondamento dei rapporti che devono sussistere con la parte assistita e con la controparte, improntati sulla fiducia e sul divieto di assumere incarichi contro ex clienti.

3. La evidenziata compenetrazione di regole e principi che contraddistinguono l’art. 24 si riflette, poi, sulla difficoltà di delimitare la portata della disposizione che alimenta una casistica ricca.

Se appare scolastica la violazione dell’art. 24 nell’ipotesi dell’avvocato che assume la difesa di due soggetti portatori di interessi configgenti, non altrettanto può dirsi qualora il conflitto di interessi rilevi solo potenzialmente, non già concretamente.

Infatti, dopo l’enunciazione dei principi di cui ai comma 1 e 2, la norma – come l’art. 37 previgente – distingue due ulteriori canoni di comportamento che l’avvocato deve seguire nell’espletamento della sua funzione.

Il primo canone opera una sorta di tipizzazione legale del conflitto di interessi (che perciò si sottrae alla valutazione della sua sussistenza in concreto) esplicitando che esso sussiste ogniqualvolta il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altro assistito, ovvero quando la conoscenza degli affari di una parte può avvantaggiare ingiustamente un altro assistito ovvero, ancora, quando lo svolgimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento di un nuovo incarico.

Il secondo canone enuncia, invece, la regola secondo cui l’obbligo di astensione sussiste se le parti aventi interessi in conflitto si rivolgano ad avvocati che siano partecipi della stessa società di avvocati o della medesima associazione professionale ovvero che esercitino negli stessi locali.

A tal proposito giova sottolineare che dal 2006 (delibera CNF 27.1.2006) sono state equiparate le situazioni dell’associazione professionale alla mera condivisione dello stesso studio, che statisticamente sappiamo riguardare un numero molto più elevato di situazioni.

Il che risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato ma, altresì, alla loro apparenza.

4. Il tema del conflitto di interessi assume una dimensione particolarmente significativa per la figura dell’Avvocato amministrativista il quale molto spesso si trova a dover valutare “a tavolino” se l’assunzione di un certo incarico possa o meno configurare una violazione di quegli obblighi imposti dall’art. 24. E ciò dal momento che l’Avvocato amministrativista opera all’interno di un territorio più o meno circoscritto, confrontandosi sempre e comunque con le medesime Amministrazioni comunali, provinciali, regionali, statali ovvero con Enti di vario genere e specie, dai quali assume incarichi o avverso i quali promuove giudizi (per conto, in questo caso, di privati).

Il problema del conflitto di interessi, comune in tutto il territorio nazionale, assume uno spessore certo più concreto in provincia.

In particolare, si è posta la questione se l’avvocato che ricopra una carica istituzionale o elettiva possa o meno assistere in giudizio un cittadino che intenda promuovere (o resistere in) giudizio nei confronti dell’Ente presso cui il legale svolge il proprio ufficio.

Non è infrequente, infatti, che dalla contemporanea assunzione di un mandato professionale (che deve essere esercitato secondo i principi di indipendenza, lealtà correttezza e fedeltà) e di un mandato politico di tipo rappresentativo, possa insorgere una situazione di conflitto di interessi.

La tematica è stata a più riprese esaminata dal Consiglio Nazionale Forense.

Con parere n. 16 del 3 ottobre 2001, si è data risposta ad un quesito avanzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Grosseto, concernente l’eventuale incompatibilità tra lo status di consigliere comunale e l’assunzione del patrocinio in controversie promosse contro l’amministrazione comunale nell’ambito dell’esercizio della professione forense, nei seguenti termini:  «non sembra che possa ravvisarsi una causa di incompatibilità tra quelle tassativamente previste per la professione di avvocato nell’ordinamento professionale vigente. Deve, tuttavia, rilevarsi che il contegno concreto del professionista potrebbe assumere rilievo sul piano disciplinare per violazione dell’art. 37 c.d.f. (conflitto di interessi).

Sul piano dell’opportunità è, poi, fuor di dubbio che il corretto esercizio del mandato professionale e il pieno assolvimento degli obblighi connessi all’assunzione di un mandato politico rappresentativo sconsiglino l’assunzione del patrocinio in cause promosse contro l’ente locale nel cui Consiglio siede l’avvocato in questione».

Nel menzionato parere, dunque, il conflitto d’interessi è appena adombrato: il professionista/amministratore pubblico che accetti la difesa del cittadino contro il “proprio” Ente, potrebbe incorrere in una situazione di conflitto di interessi, esponendosi conseguentemente all’applicazione, da parte degli organi disciplinari del consiglio dell’ordine di appartenenza, delle sanzioni ritenute “adeguate e proporzionate” alla violazione commessa.

Di tenore ancor più garantista il parere n. 80 del 22 novembre 2005 con il quale il Consiglio Nazionale Forense, rispondendo a un quesito pressoché analogo al precedente (riguardante la posizione deontologica di un consigliere comunale che aveva assistito un congiunto in una vertenza nella quale controparte era il Comune di elezione), ha rilevato: «l’art. 37 cod. deont. [o lo stesso dicasi per l’art. 24 vigente, ndr] ha riguardo soprattutto al conflitto di interessi tra l’avvocato ed il suo assistito, pur specificando che l’attività difensiva non può concretarsi in un’interferenza con altri incarichi, anche extraprofessionali. La prima ipotesi pare, in linea generale, da escludersi alla luce del fatto che l’avvocato non è titolare, quale consigliere comunale, di un interesse personale alla soccombenza di un cittadino nell’ambito di un procedimento giudiziario in materia urbanistica. Né, d’altronde, pare che l’attività di rappresentanza in giudizio possa determinare una concreta interferenza con il mandato di consigliere comunale. Ciò premesso, la Commissione ritiene che non spetti ad essa, in ogni caso, valutare la sussistenza di profili di incompatibilità che esulano dalla deontologia forense, ma che rientrano nella tutela degli interessi di altro ente, quale un Comune, allorché questo dovesse lamentare un pregiudizio cagionato dall’attività di un membro dei propri organi rappresentativi».

Questa interpretazione pone però alcuni dubbi e desta perplessità.

Si pensi all’avvocato/consigliere comunale il quale, dopo aver votato l’adozione di un nuovo strumento urbanistico, assista in un giudizio avanti il TAR competente un concittadino che intende avversare la nuova destinazione impressa dal PRG ai terreni di sua proprietà.

O ancora all’ipotesi in cui l’avvocato/consigliere patrocini un partecipante a una procedura concorsuale bandita dal Comune ove svolge il proprio mandato.

5. La normativa deontologica sul conflitto di interessi si intreccia con la normativa di incompatibilità dell’incarico di Consigliere comunale o circoscrizionale disciplinata nell’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 267/2000 (TUEL).

In particolare, il comma 1, n. 4) del predetto art. 63 dispone testualmente che «non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale o circoscrizionale: […] colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente, con il comune o la provincia […]». Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la nozione di “parte” cui si riferisce il menzionato articolo 63, comma 1, n. 4), del decreto legislativo n. 267/2000 n. 267/2000, assume carattere “tecnico”, ossia è da intendersi alla parte in senso processualistico, onde occorre la pendenza di un’effettiva controversia giudiziaria e non semplicemente una lite potenziale o un contrasto, potenziale o reale, di interessi (v., ex multis, Cass. Civ., sez. I, sent. 12 febbraio 2008, n. 3384; Id., sent. 24 febbraio 2005, n. 3904; Id., sent. 19 maggio 2001, n. 6880). La “lite”, invece, deve riflettere uno scontro di interessi tra le parti, che debbono risultare contrapposte. Per “lite pendente”, quindi, deve intendersi la “pendenza” di un’effettiva controversia giudiziaria e non è sufficiente la semplice constatazione dell’esistenza di un procedimento civile o amministrativo nel quale risultino coinvolti, attivamente o passivamente, l’eletto o l’ente, ma occorre che a tale dato formale corrisponda una concreta contrapposizione di parti, ossia una reale situazione di conflitto, onde sussiste l’esigenza di evitare che il conflitto di interessi che ha determinato la lite possa orientare le scelte dell’eletto in pregiudizio dell’ente amministrativo, o comunque, possa ingenerare all’esterno sospetti al riguardo (in questi termini Cass. Civ., sez. I, 28 luglio 2001, n. 10335).

Quanto alla esimente di cui al comma 3 del medesimo articolo 63[6], il suo fondamento è da rivenirsi nella necessità di evitare che liti pretestuose o strumentali possano originare da comportamenti tenuti dagli amministratori nell’esercizio del mandato e finalizzati al perseguimento degli interessi della collettività amministrata per creare una fittizia causa di incompatibilità.

Al fine dell’operatività della esimente de qua l’indagine ermeneutica deve svolgersi su due piani: anzitutto, si deve ricostruire il fatto rilevante nel quadro della fattispecie normativa (e il fatto rilevante è il fatto generatore della lite, ossia quello da cui origina la controversia); secondariamente, deve verificarsi l’esistenza di un rapporto di connessione tra quel fatto e l’esercizio del mandato e il fatto idoneo ad escludere l’incompatibilità è solo quello inerente alla funzione di pubblico amministratore, cioè tale da sostanziarsi in un atto o in un comportamento correlato all’esercizio della funzione e concorrente al perseguimento degli interessi generali propri di essa (v. Cass. Civ., sez. I, sent. 18 dicembre 2007, n. 26673; Id., sent. n. 6426/2002 cit.; Id., sent. 24 marzo 1993 n. 3503).

E’ indubbio ad ogni buon conto che anche nel caso dell’incompatibilità che come nel caso del conflitto di interessi l’analisi andrà fatta caso per caso in quanto secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza il discrimine tra atti connessi all’esercizio del mandato e atti estranei allo stesso è fornito dall’interesse per il quale l’atto viene compiuto, onde la connessione viene meno solo quando la funzione pubblica sia lo strumento per il perseguimento di interessi personali dell’amministratore o di terzi e non anche quando la stessa, seppur non correttamente esercitata, sia comunque finalizzata al perseguimento di interessi generali. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione ha opinato nel senso che «[…] la deroga correlata all’ipotesi in cui la lite riguardi un fatto connesso con l’esercizio del mandato ha una ratio evidente, consistente nell’intento di escludere fra le cause di incompatibilità quelle controversie insorte per il perseguimento degli interessi generali e non già per fini personali dell’amministratore, di talché deve tenersi presente che detta deroga è volta a salvaguardare il libero esercizio delle funzioni dal timore di incorrere in situazioni di incompatibilità, magari artatamente predisposte nell’ambito della lotta politica […]» (così Cass. Civ., sent. 4 marzo 2016, n. 4258).

Carla Canale


[1] Si  riporta il testo dell’art. 6-bis citato «il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».

[2] L’art. 37 del codice deontologico in vigore sino al 2014, poi sostituito dal riportato art. 24.

[3] In argomento v. anche, in questa rubrica, A. Salvi, Imparzialità del giudice – neutralità dell’apparenza, reperibile al seguente link:https://www.centrostudilivatino.it/5-imparzialita-del-giudice-e-neutralita-dellapparenza/.

[4] V., in proposito, Consiglio Nazionale Forense (pres. Masi, rel. Caia), sentenza n. 67 del 31 marzo 2021.

[5] Peraltro, il massimario raccoglie anche casi di conflitto di interessi reale e non meramente potenziale (ad esempio, v. la sentenza 178/2021, ove il CNF confermava la sospensione dall’esercizio della professione dell’avvocato che aveva assunto la difesa nello stesso procedimento sia dell’attore che del terzo evocato in giudizio dal convenuto).

[6] Art. 63, co 3, TUEL: «l’ipotesi di cui al numero 4) del comma 1 non si applica agli amministratori per fatto connesso con l’esercizio del mandato».

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