Pubblichiamo due articolati commenti alle recenti sentenze della Corte di Cassazione sulla maternità surrogata (sezioni unite civili), a firma del dott. Aldo Vitale, e sulla fecondazione artificiale post mortem (1^sez.civile), prof. Emanuele Bilotti, dopo che nei giorni scorsi abbiamo pubblicato per intero le due pronunce (qui e qui) e alcune prime più sintetiche note.
La fecondazione artificiale post mortem nella sentenza della 1^ sezione civile della Cassazione n. 13000/2019
di Emanuele Bilotti [1]
Con sent. 15 maggio 2019, n. 13000 la Suprema Corte ha stabilito che, nonostante il divieto deducibile dall’art. 5 della l. 19 febbraio 2004, n. 40, secondo cui la coppia che può accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita deve essere formata da un uomo e da una donna «entrambi viventi», la nascita in Italia conseguente a una fecondazione omologa post mortem, praticata all’estero, dev’essere certificata dall’ufficiale di stato civile competente con indicazione delle generalità di entrambe le figure genitoriali, e perciò con attribuzione al nato del cognome del padre defunto, sempre che chi rende la dichiarazione di nascita possa attestare che il defunto, in vita, aveva consentito all’accesso alle tecniche insieme alla moglie o alla convivente e aveva altresì autorizzato l’una o l’altra all’impiego post mortem del proprio seme crioconservato.
Secondo i giudici della Suprema Corte questo esito consegue direttamente all’applicazione dell’art. 8 della l. n. 40/2004, secondo cui «i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».
Questa conclusione è a sua volta il portato di due assunti distinti, entrambi indispensabili a sorreggerla.
Per i giudici della Suprema Corte la norma indicata è anzitutto applicabile in ogni caso di nascita a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, e dunque anche in caso di fecondazione post mortem, senza che rilevi il carattere illecito di una simile pratica, che pure non viene disconosciuto.
Inoltre, sempre a dire di quei giudici, l’art. 8 cit. prevede una modalità speciale di accertamento dello status filiationis, totalmente alternativa rispetto a quelle previste dalle norme del codice civile per la filiazione matrimoniale ed extramatrimoniale: norme, queste ultime, certamente inapplicabili ai fini dell’accertamento della paternità nel caso di specie, stante la nascita ben oltre il termine, indicato dall’art. 232 cod. civ., di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio per morte di uno dei coniugi e stante la sicura inammissibilità di un riconoscimento anteriore al concepimento in virtù dell’art. 254.
Il risultato cui cooperano i due assunti appena indicati è chiaro: soltanto laddove si ritenga sia l’applicabilità dell’art. 8 cit. anche in caso di fecondazione post mortem sia la specialità del sistema di accertamento della filiazione previsto dalla stessa norma né l’art. 232 né l’art. 254 possono rappresentare un ostacolo all’accertamento della paternità di un soggetto già defunto al tempo del concepimento, che però abbia autorizzato l’utilizzo post mortem del proprio seme crioconservato.
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A ben vedere, entrambi gli assunti indicati appaiono alquanto problematici – il primo, forse, ancor più del secondo – con la conseguenza che la stessa conclusione cui i giudici della Suprema Corte sono pervenuti in ordine alla paternità del nato da fecondazione post mortem finisce per essere opinabile.
Quanto anzitutto all’idea che «la disciplina dell’attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configur[erebbe] un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico» in quanto «detto status verrebbe attribuito direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A.», non sembra davvero indiscutibile l’argomento addotto dai giudici della Suprema Corte secondo cui nessuna incertezza potrebbe mai darsi in ordine alla riferibilità della nascita alla donna e all’uomo che hanno espresso il consenso all’accesso alle tecniche, onde tale consenso sarebbe sufficiente ad accertarne la genitorialità.
Certo, in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita non sembra possibile occultare un concepimento derivante da una relazione della donna con un terzo. Bisogna però considerare anche la possibilità di un errore nell’attuazione delle tecniche. Nella prospettiva di una rigorosa alternatività del meccanismo di accertamento dello status di cui all’art. 8 cit. rispetto alle norme codicistiche, e dunque nel presupposto che il consenso prestato all’accesso alle tecniche sia sufficiente a identificare la maternità e la paternità del nato, un simile errore non sarebbe altrimenti rimediabile mediante le note azioni volte a rimuovere l’accertamento di uno status privo di corrispondenza nel dato biologico.
È vero che la giurisprudenza di merito, adducendo anche il superiore interesse del nato alla certezza e alla stabilità dello status accertato alla nascita, ha ritenuto di risolvere un noto caso di errore nell’attuazione di una fecondazione omologa proprio nel senso appena indicato, e cioè rigettando le pretese della donna e dell’uomo i cui gameti avevano formato gli embrioni impiantati per errore nell’utero di un’altra donna. Una simile decisione ha indubbiamente contribuito ad accreditare la tesi della specialità del meccanismo di accertamento dello status di cui all’art. 8 cit.
Nel senso che la norma in questione non introdurrebbe nessuna innovazione quanto all’accertamento dello status, è stato tuttavia autorevolmente osservato anche che, non essendo prevista alcuna deroga alle disposizioni secondo cui l’ufficiale di stato civile non può indicare nell’atto di nascita le generalità di genitori che non procedano al riconoscimento o non consentano per atto pubblico di essere nominati, lo stesso ufficiale di stato civile non potrebbe indicare le generalità dei genitori a fronte della semplice esibizione della documentazione che attesti il loro consenso a pratiche di procreazione artificiale.
E si è pure osservato che, laddove ha voluto derogare alle norme vigenti dell’ordinamento di stato civile, il legislatore del 2004 lo ha fatto chiaramente, in particolare prevedendo che «la madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata» (art. 9, co. 2, l. n. 40/2004).
I giudici della Suprema Corte replicano nondimeno che «il divieto di anonimato materno, lungi dal presupporre l’operatività dei principi generali, ben può costituire espressione proprio delle differenze esistenti tra procreazione naturale e procreazione medicalmente assistita con riferimento alla determinazione dello status del nato, poiché… il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente assistita determinerebbe una “responsabilità” riguardo alla filiazione, tale da escludere la stessa facoltà per la donna di non essere nominata».
La questione sembra insomma destinata a rimanere piuttosto incerta.
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In ogni caso, anche a voler dare per buona la tesi della specialità della modalità di accertamento della genitorialità in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, resta comunque da chiarire se un accertamento fondato semplicemente sul consenso prestato all’accesso alle tecniche debba operare anche nelle ipotesi in cui quell’accesso sia stato effettuato al di là dei limiti in cui è consentito dalla legge, e segnatamente anche nel caso della fecondazione post mortem.
Al riguardo appare anzitutto condivisibile l’affermazione più volte ricorrente nella motivazione della decisione della Suprema Corte secondo cui l’illiceità della fecondazione post mortem non può rappresentare un ostacolo all’accertamento del rapporto di filiazione in capo al nato, onde l’interprete non può sottrarsi al compito di individuare la disciplina a tal fine applicabile.
Assai più problematico sembra essere invece l’assunto secondo cui quell’illiceità neppure dovrebbe impedire l’applicazione dell’art. 8 cit. con conseguente accertamento della genitorialità non solo in capo alla partoriente, ma anche in capo al defunto che, in vita, abbia acconsentito alla fecondazione post mortem della moglie o della convivente col proprio seme crioconservato.
L’argomento addotto in tal senso dai giudici della Suprema Corte è in definitiva quello ormai consueto – in quanto già utilizzato dalla “fondamentale” Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, con riferimento a un caso di accesso alla tecnica eterologa da parte di una coppia formata da due donne, e dunque comunque al di là di un limite di legge – secondo cui «le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato».
In effetti, anche la particolare insistenza dei giudici della Suprema Corte sul fatto che il legislatore del 2004 non ha limitato espressamente l’applicabilità dell’art. 8 cit. alle sole ipotesi di procreazione assistita “lecita” acquista un qualche pregio solo in quanto attesterebbe «una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa».
Un argomento di questo tipo – e cioè la “sicura preminenza della tutela del nascituro” – è invero difficilmente confutabile. In effetti, per quanto un’altra recentissima decisione delle Sezioni Unite sembri ora voler ridimensionare proprio un simile argomento (cfr. Cass., Sez. Un., 8 maggio 2019, n. 12193), appare comunque inaccettabile che il nato possa subire un pregiudizio a causa di una violazione di legge da parte degli adulti.
Il punto è però che, nella decisione in esame, i giudici della Suprema Corte assumono che il mancato accertamento del rapporto genitoriale in capo a un soggetto già defunto al momento del concepimento costituisca per il nato un pregiudizio grave, e dunque, per converso, che la sua miglior tutela postuli l’accertamento anche di un simile rapporto oltre a quello con la donna che lo ha partorito. Si afferma infatti con chiarezza che nel caso della fecondazione (omologa) post mortem, a differenza di quanto avviene nel caso della fecondazione eterologa, non sarebbe «ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità».
In realtà, proprio l’esistenza di un divieto legislativo di fecondazione post mortem dovrebbe indurre l’interprete a concludere in senso opposto. E ciò perché, a ben vedere, quel divieto trova la sua ragion d’essere appunto nell’idea che l’accertamento della paternità di chi sia già defunto al momento del concepimento rappresenti un grave pregiudizio per il nato.
I giudici della Suprema Corte affermano invero che il divieto in questione sarebbe posto «allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna». In realtà, più precisamente, il divieto di fecondazione post mortem intende evitare il concepimento – e non la nascita – di un orfano di padre: un risultato che la tecnica omologa di fecondazione assistita rende nondimeno astrattamente possibile. E ciò perché si ritiene evidentemente che in tal modo si attingerebbe un livello di strumentalizzazione davvero intollerabile del nato, non più bilanciato dal preteso interesse fondamentale degli adulti alla genitorialità.
Né si può pensare che una simile valutazione per cui il valore sovrautilitaristico della persona deve tornare a imporsi all’autodeterminazione individuale sia destinata a recedere per il semplice fatto che la fecondazione post mortem è stata comunque realizzata e la gestazione è giunta a compimento. In tal caso l’accertamento della paternità in capo a chi fosse già defunto al tempo del concepimento e avesse autorizzato l’utilizzo post mortem del suo seme crioconservato rimarrebbe quale segno indelebile di quella che l’ordinamento considera una strumentalizzazione intollerabile del nato.
Insomma, la fecondazione post mortem è vietata proprio perché non si vuole dare ingresso nel sistema a un simile accertamento genitoriale in quanto ritenuto pregiudizievole per il nato. E ciò nonostante che quell’accertamento trovi una corrispondenza certa nel dato biologico e nella volontà di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato.
In base alle norme vigenti non sembra dunque condivisibile quel che affermano i giudici della Suprema Corte, e cioè che nel caso della fecondazione post mortem non ricorra un contrasto tra favor veritatis e favor minoris. Sembra piuttosto attendibile un assunto di segno contrario, e cioè che nell’interesse del minore – per evitare il perpetuarsi di una strumentalizzazione a suo carico – la paternità biologica debba essere rimossa e occultata.
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Non sfugge che un esito di questo tipo potrebbe comportare a carico del nato un sacrificio di ordine patrimoniale. Quest’ultimo, infatti, insieme all’accertamento della paternità sarebbe privato anche dei connessi diritti successori.
In verità, anche secondo una parte autorevole della dottrina, stante il chiaro disposto dell’art. 462, co. 1, cod. civ., la connessione altrimenti indiscutibile tra accertamento dello status e riconoscimento dei diritti successori potrebbe non essere affatto scontata nelle diverse ipotesi di fecondazione post mortem. Tanto più che proprio il riconoscimento dei diritti successori in capo al nato da fecondazione post mortem potrebbe indurre nella madre condotte finalizzate a incidere sull’amministrazione dei beni o sulla loro stessa destinazione, con ulteriore strumentalizzazione del nato. Si deve poi considerare che, ai sensi dell’art. 462, co. 3, cod. civ., anche i non concepiti possono essere destinatari di disposizioni testamentarie purché si tratti di figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore, sicché chi consente all’impiego post mortem del proprio seme crioconservato potrebbe anche disporre a favore del nato.
In ogni caso, anche a voler ritenere che il mancato accertamento della paternità porti con sé un possibile pregiudizio di ordine patrimoniale per il nato da fecondazione post mortem, non sembra comunque ragionevole che, per scongiurare una simile eventualità, possa mettersi in discussione una valutazione normativa che, come si è visto, si fonda sull’intento di evitare un grave pregiudizio alla dignità della persona.
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Beninteso, anche una simile valutazione del legislatore – come ogni valutazione del legislatore – è certamente opinabile. Ma il punto non è questo. Il punto è che l’interprete istituzionale non dovrebbe sentirsi autorizzato a disapplicare una determinata ratio normativa in nome della sua pretesa ingiustizia o della pretesa maggiore conformità a giustizia di una differente ratio normativa. In certi casi egli ha piuttosto il dovere di sollevare la questione di legittimità costituzione della norma che ritenga irragionevole o comunque inconciliabile col sistema della legalità costituzionale.
Nel caso di specie, del resto, il ricorrente non aveva mancato di avanzare anche una simile richiesta, che è stata tuttavia elusa dai giudici della Suprema Corte, in quanto, a loro dire, la questione della liceità o meno della fecondazione post mortem non sarebbe rilevante ai fini della decisione del giudizio di rettifica.
In realtà, come si è già detto, quella questione è irrilevante solo nel senso che la violazione del divieto di fecondazione post mortem non può impedire l’accertamento dello status del nato. Non sembra però che la questione della liceità o meno della fecondazione post mortem sia irrilevante anche al fine di decidere secondo quali regole tale status debba essere accertato, e segnatamente se a tal fine debba o meno applicarsi l’art. 8 cit., dovendosi dunque accertare anche la paternità di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato.
Sono invero gli stessi giudici della Suprema Corte a rivendicare con forza che la prospettiva in cui intendono muoversi è piuttosto quella del superamento del divieto legislativo di fecondazione post mortem in vista di una pretesa miglior tutela del nato, e dunque quella della sostituzione di una precisa ratio normativa con una ratio normativa differente, considerata più giusta.
Si legge infatti nella motivazione della decisione in esame che «la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare» e che «in un tale scenario, nel quale la genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è necessario comprendere se i divieti di genitorialità pure evincibili dal nostro ordinamento possano fungere da “controlimite” alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra superare i confini della tradizione ed accettare, regolandoli, i nuovi percorsi della genitorialità stessa» (corsivo aggiunto).
È chiaro cosa significhi quest’ultima espressione: significa che, in vista della miglior tutela del nato, il giudice si sente chiamato ad assumere su di sé un compito proprio del legislatore, facendo prevalere sulla valutazione consegnata alla norma una valutazione differente e ritenuta più giusta.
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Nella motivazione della decisione in esame ricorre invero anche l’idea secondo cui, pur ritenendo inapplicabile l’art. 8 cit. in caso di fecondazione post mortem ed escludendo pertanto che l’accertamento della paternità di chi abbia autorizzato l’utilizzo post mortem del proprio seme crioconservato debba realizzarsi fin dal momento della formazione dell’atto di nascita ad opera dell’ufficiale di stato civile, quell’esito non sarebbe davvero evitabile giacché «il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici».
Una simile affermazione sembra alludere alla posizione riferita dagli stessi giudici della Suprema Corte secondo cui «la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità». È chiaro quale sia il ragionamento dei giudici della Suprema Corte di fronte a una simile posizione: se l’accertamento della paternità del defunto è comunque conseguibile in via giudiziale, tanto vale allora consentire un simile accertamento già con la formazione dell’atto di nascita.
La tesi da cui muove tale ragionamento non sembra tuttavia fondata. È infatti appena il caso di precisare che nel sistema codicistico di accertamento della filiazione, nonostante il “sicuro legame genetico” esistente tra il nato e chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato, nessuna azione di stato potrebbe consentire di pervenire ex post a un accertamento in contrasto con la presunzione di concepimento durante matrimonio o con la regola che non consente riconoscimenti anteriori al concepimento.
In contrario non vale addurre la previsione dell’art. 234, co. 1, cod. civ., giacché in quel caso si tratta pur sempre di provare «che il figlio… è stato concepito durante il matrimonio» per quanto sia nato oltre il termine dell’art. 232. Si tratta del caso della gravidanza di eccezionale durata, che non ha nulla a che vedere con l’ipotesi in esame. Né è ipotizzabile che la paternità del defunto possa essere giudizialmente accertata, giacché l’art. 269, co. 1, cod. civ. dispone chiaramente che ciò è possibile solo nei casi in cui il riconoscimento è ammesso. E nel caso di specie il riconoscimento non è ammesso.
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Un altro argomento sul quale i giudici della Suprema Corte insistono a più riprese al fine di fondare la necessità dell’accertamento della paternità di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato è «l’interesse del nato… di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità».
Anche sulla concludenza di un simile argomento sembra tuttavia possibile esprimere qualche riserva. Beninteso, non è dubitabile che il diritto alla conoscenza delle origini biologiche esibisca un sicuro fondamento nella Costituzione e nelle diverse Carte dei diritti. Escludere il diritto del nato allo status nei confronti di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato non significa però mettere in discussione anche il suo diritto alla conoscenza delle origini biologiche.
Se è vero infatti che, di regola, quest’ultimo diritto non si dà come situazione autonoma, giacché l’interesse da esso garantito si realizza col diritto allo status fondato sulla generazione, è pur vero che in talune ipotesi eccezionali, a tutela dell’interessato, la legge rimuove il valore costitutivo dello status filiationis proprio del dato biologico, ma al soggetto privato dello status riconosce nondimeno, in funzione rimediale, un autonomo diritto alla conoscenza delle origini biologiche. È quel che accade nel caso dell’adozione piena e che, stando almeno al pronunciamento del giudice delle leggi (cfr. Corte cost., sent. n. 162/2014), dovrebbe accadere anche nel caso della nascita da fecondazione eterologa. E cioè nei casi in cui si ritiene che sussista un contrasto tra favor veritatis e favor minoris.
Un meccanismo analogo di tutela autonoma del diritto alla conoscenza delle origini biologiche dovrebbe allora operare anche nel caso della fecondazione post mortem, ove pure, come si è cercato di chiarire, la legge ritiene che sussista un contrasto tra favor veritatis e favor minoris limitatamente all’accertamento della paternità di chi abbia consentito la generazione autorizzando l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato. Di conseguenza, pur dovendosi escludere un simile accertamento, il nato non sarebbe perciò privato del diritto alla conoscenza delle origini biologiche.
[1] Ordinario di Diritto Privato e Coordinatore del Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza all’Università Europea di Roma