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Se l’Italia degli anni cinquanta non era ancora un mercato appetibile per il commercio di stupefacenti, esprimeva però buone potenzialità per il traffico delle medesime sostanze dai paesi produttori verso i paesi dell’occidente sviluppato. Soprattutto la Sicilia era divenuta, grazie alla presenza delle strutture logistiche e ai contatti internazionali della mafia, una vera e propria “portaerei della droga” e saranno proprio gli Stati Uniti a premere sul Governo italiano per una modificazione in senso maggiormente repressivo della legislazione. La legge 22 ottobre 1954 n. 1041, “Disciplina della produzione, del commercio e dell’impiego di stupefacenti” nasce con queste premesse di carattere politico: ha un carattere fortemente repressivo ed è indirizzata quasi esclusivamente a colpire chiunque abbia a che fare, a vario titolo, con qualsiasi sostanza ritenuta stupefacente, senza alcuna distinzione tra consumatore e spacciatore.

Terzo di tre articoli. Leggi l’articolo 1 e l’articolo 2.

Nel Regno d’Italia le fonti di rifornimento per il consumo di stupefacenti erano state soprattutto farmacie e industrie farmaceutiche, che non rispettando le autorizzazioni sui limiti imposti dalla legge alla produzione e alla vendita avevano creato una sorta di mercato parallelo.

Si aggiunga che si era sviluppata una rete trafficanti internazionali, che trasportava le materie prime, come oppio e hashish dai paesi di produzione a quelli di consumo, sfruttando i porti italiani come luoghi di transito.[1]

Basti pensare che a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia si scoprì essere al centro del traffico internazionale di stupefacenti, scoppiarono infatti un scandalo relativo alle fuoriuscita illecita di eroina da ditte farmaceutiche italiane.

Tutto questo lo racconta lo storico David Courtwright che rivelò come negli Stati Uniti, tra il 1947-1949, fosse cresciuto il consumo di eroina e che una parte di questa provenisse dalle industrie farmaceutiche italiane[2], passando spesso attraverso il Territorio Libero di Trieste, all’epoca ancora sotto l’amministrazione del Governo Militare Alleato.

Se l’Italia degli anni cinquanta non era ancora un mercato appetibile per il commercio di stupefacenti, esprimeva però buone potenzialità per il traffico delle medesime sostanze dai paesi produttori verso i paesi dell’occidente sviluppato. Soprattutto la Sicilia era divenuta, grazie alla presenza delle strutture logistiche e ai contatti internazionali della mafia, una vera e propria “portaerei della droga”, per usare una definizione cara alle agenzie di lotta alla droga statunitensi.

E saranno proprio gli Stati Uniti a premere sul Governo italiano per una modificazione in senso maggiormente repressivo della legislazione. Infatti, pressanti inviti da parte della Commissione Stupefacenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e particolari pressioni da parte del governo degli Stati Uniti convinsero l’Italia a rimettere mano all’impianto legislativo in materia, nel tentativo di stroncare il traffico di oppiacei tra la Turchia e l’America. La Sintesi della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia del 1976 offre una importante panoramica sul ruolo rivestito dal Paese, analizzando il periodo di tempo che spaziava dal dopoguerra agli anni Settanta. L’Italia era considerata come uno snodo fondamentale nel traffico internazionale, sia per la sua posizione geografica strategica che per l’intervento di reti mafiose nel traffico internazionale[3].

Quest’ultimo aveva due diverse «correnti» di transito: una ascendente, consistente nel passaggio di materiale grezzo e semilavorato (oppio, morfina base); l’altra discendente, costituita da prodotto finito (eroina). Nel primo caso, oppio e morfina provenienti da Turchia (Istanbul, Izmir, Ankara), Libano (Beirut) e Afghanistan (Kabul) giungevano ai laboratori di raffinazione clandestini situati nel sud della Francia, passando per i porti italiani dell’Adriatico o, via terra, attraverso il confine orientale del Paese. Nel secondo caso, l’eroina raffinata in Francia raggiungeva il mercato statunitense attraverso i porti di Napoli, Genova e Palermo.

In questa rotta, nota come French Connection, la mafia siciliana svolse un importante ruolo di collegamento grazie ai suoi contatti con i gangster italoamericani, molti dei quali erano stati espulsi dagli Stati Uniti e rimpatriati in Italia nell’immediato secondo dopoguerra. Tra questi si possono ricordare personaggi di spicco, come Salvatore Lucania, meglio noto come Lucky Luciano, Joe Adonis, Francesco Paolo (Frank “Tre Dita”) Coppola e molti altri.

La chiusura di Tangeri come porto franco, in seguito all’indipendenza del Marocco del 1956, conferì un ruolo ancora più centrale nel narcotraffico al porto di Napoli. Già durante l’occupazione americana il porto si vide attraversare dal contrabbando di sigarette per intensificarsi dopo la partenza degli alleati nel 1948, grazie ad un grande porto al centro del Mediterraneo; la mancanza di un clan predominante; ampi strati di marginalità economica; un atteggiamento di tolleranza sia da parte delle autorità che della popolazione perché considerato come un mezzo di sostentamento per le classi più disagiate. [4]

Nel 1965, dopo la pubblicazione della prima relazione parlamentare antimafia, voluta dal governo di centrosinistra[5], fu predisposto un intervento legislativo che non colpiva l’organizzazione mafiosa definendo una specifica fattispecie di reato (che sarà introdotta con la legge Rognoni-La Torre del 1982) ma estendeva le misure di prevenzione personale, ovvero sorveglianza speciale e divieto/obbligo di soggiorno per i mafiosi o gli indiziati di appartenenza alla mafia. [6]

Attraverso questo strumento, molti mafiosi siciliani furono spediti, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, in domicilio coatto a Napoli, in un momento in cui si stavano ridefinendo gli equilibri tra siciliani e marsigliesi per la gestione del contrabbando di sigarette e del traffico di stupefacenti. Ricevettero l’obbligo di dimora a Napoli e provincia mafiosi come Stefano Bontade, Gaetano Riina, Salvatore Bagarella, Vincenzo Spadaro e altri, favorendo i contatti diretti con i gruppi criminali napoletani e trasformando la stessa camorra. [7]

Nel corso degli anni Cinquanta, la produzione di stupefacenti per uso medicinale fu sottoposta ad un giro di vite con una nuova  e più rigida normativa, con l’approvazione della legge n.1041 del 22 ottobre 1954, sollecitata dall’ONU e dal Narcotic Bureau statunitense. [8] La legge 22 ottobre 1954 n. 1041, “Disciplina della produzione, del commercio e dell’impiego di stupefacenti” nasce con queste premesse di carattere politico: ha un carattere fortemente repressivo ed è indirizzata quasi esclusivamente a colpire chiunque abbia a che fare, a vario titolo, con qualsiasi sostanza ritenuta stupefacente, senza alcuna distinzione tra consumatore e spacciatore. Risulta evidente che la legge del 1954 non deve dare risposte ad un problema di importanti dimensioni sociali e sanitarie, ma piuttosto offrire strumenti per una battaglia di polizia internazionale contro la malavita del bacino del Mediterraneo (Medio Oriente, Italia, Francia) che riforniscono gli Stati Uniti di eroina e morfina.

Nel 1954 il problema di rinnovare la disciplina sugli stupefacenti entra in agenda25, in modo congiunturale, su impulso del Governo, che recepisce un bisogno statuito26 espresso da organismi sovranazionali ed extranazionali, senza dover dare risposte ad un bisogno avvertito socialmente.

La legge n. 1041 interviene sul problema su due piani. Da una parte inasprisce il regime sanzionatorio, stabilendo con l’articolo 6 la reclusione da 3 a 8 anni e con la multa da lire 300.000 a 4 milioni chiunque “acquisti, venda, ceda, esporti, importi, passi in transito, procuri ad altri, impieghi o comunque detenga sostanze o preparati indicati nell’elenco degli stupefacenti”, rendendo inoltre obbligatorio il mandato di cattura e l’arresto in caso di flagranza. Dall’altra ribadisce la scelta già fatta nelle leggi precedenti che, assimila il tossicodipendente al malato psichiatrico, prevedendo come scelta terapeutica possibile solo il ricovero in ospedali psichiatrici. L’alternativa carcere o manicomio proposta dalla legge n. 1041 risulta quindi inadeguata ad affrontare la nuova realtà sociale così come emerge alla fine degli anni sessanta.

In quegli anni aumentavano la produzione e la circolazione delle sostanze stupefacenti, ma cresceva anche la domanda nei mercati occidentali, fenomeno legato alle migliori condizioni economiche e al benessere diffusosi con la ripresa economica postbellica.

L’elaborazione di una stima relativa al consumo di stupefacenti risulta più ardua per diversi motivi, a partire dall’illegalità della pratica, che ne rende difficili i rilevamenti di informazioni sistematiche. Alcune informazioni possono essere desunte dalla letteratura medica. In un saggio del 1965, Giovanni Battista Belloni e Virginio Porta, professori di clinica delle malattie nervose e neuropsichiatria, proposero una stima sulla diffusione del consumo di stupefacenti del decennio precedente, confrontando i censimenti condotti negli ospedali psichiatrici, i dati Istat e quelli resi noti dalla polizia.[9]

Emergevano importanti discrepanze numeriche tra le diverse fonti usate. Risultavano essere pochi i tossicomani ricoverati negli ospedali psichiatrici (ad esempio, se ne registravano solo 42 nel 1956), mentre l’Istat, che aveva calcolato anche i ricoveri nelle case di cura private, relativi all’anno 1954, ne offriva un numero 8 volte maggiore, arrivando alla cifra di 33686.

Non erano comunque contemplati i consumatori “sommersi” e i tossicomani ricoverati all’estero, le persone schedate dagli uffici di pubblica sicurezza come tossicomani erano state invece 270 nel 1961 e 204 nel 1962. Emergeva quindi un quadro composto da dati frammentari, incerti, fotografia di un fenomeno ancora marginale, rispetto al quale però si otteneva una prima caratterizzazione.

Le stime raccolte da Belloni e Porta fornivano infatti alcune informazioni sulla composizione di genere (abbastanza bilanciata), sulla classe di età (il 90% dei tossicomani aveva un’età superiore ai 35 anni), sulla composizione sociale (il 14% era appartenente alle professioni sanitarie) e sulle sostanze più usate (la morfina, con 164 morfinomani fermati nel 1961, 105 nel 1962).

Gli under 35 erano una netta minoranza. La metà dei ricoverati in case di cura private (40 su 86) possedevano la laurea mentre i ricoverati in ospedale psichiatrico avevano invece in genere un titolo di studio elementare o erano analfabeti.

Si notava quindi una forte distinzione di classe sia nell’acceso alle sostanze che ai trattamenti di disintossicazione. La maggior parte delle tossicomanie erano di origine terapeutica, ovvero derivate dalla necessità di sedare le sofferenze di malattie dolorose e poi sfociate nell’abuso di farmaci.

Seguivano poi le tossicomanie sviluppate a causa della familiarità e facilità di rifornimento di stupefacenti, come nel caso di sanitari e farmacisti. Si registravano infine, le tossicomanie indotte per «proselitismo», ovvero a causa della persuasione da parte di persone già diventate tossicomani.

Questi dati si inseriscono nel dibattito legislativo degli anni Cinquanta concretizzatosi nella proposta di legge presentata in Senato nel 1953, all’indomani degli scandali relativi al contrabbando di eroina proveniente da industrie farmaceutiche italiane, che avevano avuto grande risonanza negli ambienti della cooperazione internazionale per il controllo degli stupefacenti.

Un documento dell’Alto Commissariato Sanità e Igiene[10] faceva esplicito riferimento alla necessità di aggiornare la legislazione a causa dei «recenti episodi» che avevano dato modo di rilevare quanto la vigilanza su produzione, commercio e impiego degli

La prima legge sugli stupefacenti dell’Italia repubblicana inasprì così le pene e non superò l’approccio fondamentalmente repressivo, che conduceva a considerare il ricovero in ospedale psichiatrico più nell’ottica dell’ordine pubblico che della cura. Rafforzò, inoltre, la criminalizzazione del consumatore che, se fermato in possesso di droga, anche di minima quantità, o costretto a rivolgersi ad un medico per un malore, era avviato verso il carcere o il manicomio[11] .

Questa interpretazione era rafforzata da una sentenza emessa nel 1957 dalle Sezioni riunite della Corte di Cassazione, secondo la quale anche il consumo di modiche quantità per uso personale andava punito ai sensi dell’articolo 6, poiché – scrivevano i giudici – la droga era assunta da «persone sospinte da un’ansia esasperata di godimento e sedotte dal miraggio di piaceri raffinati specie nel campo sessuale»[12].

Emergeva così ancora tutto il biasimo morale sul consumatore di stupefacenti, visto come un vizioso, colpevole del suo stesso malessere, da punire quindi in modo esemplare per mantenere sano il corpo sociale. L’inasprimento delle pene fu inoltre salutato con favore dagli esperti della CEE e dal Regno Unito, che giudicarono la nuova normativa in linea con gli indirizzi internazionali.[13]

Sebbene il consumo fosse ancora limitato, il caso Montesi[14] aveva mostrato come il fenomeno fosse comunque percepito come un problema di ordine morale, affrontato e discusso anche nei giornali popolari. La droga, in quelle descrizioni, era infatti apparsa come uno degli elementi capaci di corrompere la morale di donne e giovani, due ambiti che iniziavano ad essere profondamente investiti dalle trasformazioni sociali e culturali in atto. Nonostante l’approccio proibizionista della nuova legislazione, inoltre, dalla metà del decennio successivo si registrò un aumento del consumo di stupefacenti, soprattutto tra i giovani, in modo trasversale alle classi sociali.

Il tema guadagnò così velocemente una crescente attenzione sulla stampa, non solo scandalistica, e divenne una spia attraverso la quale è possibile leggere le tensioni sociali e generazionali messe in moto dai processi di modernizzazione legati al boom economico.

Daniele Onori


[1] P. Nencini, La minaccia stupefacente, pp.108-119 e pp.284-292. il Mulino, Bologna, 2017.

[2] Courtwright David T., Dark Paradise. A History of Opiate Addiction in America, p.148, Harvard University Press, Cambridge-London, 2001.

[3] ASS, Atti Parlamentari, leg.VI, doc.XXIII, n.2, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (1976), p.247.

[4] A. Fossati, C. Lauro (a cura di), Indagine sul fenomeno del contrabbando dei tabacchi a Napoli, Guardia di Finanza, Comando Zona Meridionale Tirrenica, Napoli, 1995; Il contrabbando sulle coste del Tirreno ed a Napoli. 1950-1985. Atti del Convegno. Roma, 21 marzo 2006, s.e., Roma, 2006. Per l‟analisi delle categorie sociali coinvolte nella vendita al dettaglio e al ruolo svolto dalle donne in questo contesto: N. Guarino, Sigarette di contrabbando: il traffico illecito di tabacchi a Napoli dal dopoguerra agli anni Novanta, in G. Gribaudi (a cura di), Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp.90-111

[5] Sulla storia delle commissioni parlamentari: N. Tranfaglia, Le commissioni d’inchiesta sulla mafia nell’Italia repubblicana, in E. Ciconte, F. Forgione, I. Sales (a cura di), Atlante delle mafie. Vol.1, Storia, economia, società, cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, pp.115-138.

[6] C. Castellano, Individui sospetti, patrimoni pericolosi: le misure di prevenzione nella lotta alle mafie, in G. Gribaudi (a cura di), Traffici criminali, cit., p.147.

[7] Rapporto sulla camorra. Relazione approvata dalla Commissione antimafia il 21 dicembre 1993, Edizione L’Unità, Roma, 1994, pp.38-52.

[8] ASS, Atti Parlamentari, leg.VI, doc.XXIII, n.2, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (1976), p.363.

[9] Giovanni B. Belloni, V. Porta, Stupefacenti: contributo clinico-statistico, in Le intossicazioni voluttuarie nella società italiana, cit., pp.61-73.

[10] L’Alto Commissariato Sanità e Igiene faceva campo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e si trasformò nel Ministero della Sanità solo nel 1958: S. Luzzi, Salute e sanità nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma, 2004, pp.159- 193

[11] Una circolare del Ministero della Sanità del 1959, firmata dal ministro De Maria, invitava i medici provinciali al rispetto di questo provvedimento, lasciando intendere quindi che fosse diffusa una certa tendenza a “coprire” i propri pazienti. Si richiamava all’obbligo di denuncia ricordando che i dati servivano per compilare le statistiche che il governo italiano ogni anno doveva fornire al Segretariato Generale dell’Onu, in conformità a quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1931: ACS, MI, Polizia Amministrativa e Sociale, Archivio Generale (1907-1986), b.914, fasc.12982 E (17), Stupefacenti. Repressione traffico illecito, Circolare n.146. Denunzia casi di tossicomania, 14 dicembre 1959.

[12] Sentenza cit. in L. Cancrini (a cura di), Esperienze di una ricerca sulle tossicomanie giovanili in Italia, A. Mondadori, Milano, 1973, p.189.

[13] R. Capasso, Il Ministero della Sanità ed i problemi tecnici e sanitari nella legislazione sugli stupefacenti, in Simposio. Droga e società, oggi e domani, Milano, 13-14 ottobre 1972, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica, Milano, 1972, pp.140-141.

[14] La morte inspiegabile di Wilma Montesi, una ragazza piccolo borghese ritrovata senza vita sul lungomare di Torvajanica l’11 aprile 1953, è archiviata con una spiegazione delle più assurde (un malore dovuto a un pediluvio e un conseguente annegamento), e ben presto invece ricondotta (da voci di provenienza imprecisata, da alcuni articoli, poi dal sensazionale reportage di un giornalista esordiente, Silvano Muto) a una spiegazione delle più inquietanti: Wilma avrebbe partecipato a un festino che si svolgeva nei paraggi di Torvajanica, avrebbe avuto una crisi in seguito all’assunzione di stupefacenti, sarebbe stata abbandonata sulla spiaggia per timore delle conseguenze; i responsabili dell’omicidio colposo sarebbero due personaggi a titolo diverso legati al mondo delle istituzioni, il giovane musicista Piero Piccioni, figlio dell’Attilio noto esponente della Democrazia Cristiana, e il misterioso faccendiere Ugo Montagna, che, come si verrà a sapere gradualmente, si destreggia tra attività equivoche (dalla speculazione edilizia al narcotraffico) e frequentazioni eccellenti (notabili democristiani, il capo della polizia, l’archiatra pontificio). Sebbene, come capita a volte, il primo a finire sotto processo sia il giornalista, Muto, accusato di diffamazione, le sue rivelazioni sono confermate da diversi testimoni (in particolare da un’ex amante di Montagna, Anna Maria Moneta Caglio); nel 1954 è avviata un’istruttoria, che si conclude con il rinvio a giudizio, il 20 giugno 1955, di Montagna e Piccioni (il cui padre, all’epoca ministro degli Esteri, si è nel frattempo dimesso), e inoltre del questore Saverio Polito, accusato di aver provato a insabbiare le indagini.

Ma la vicenda che sembrava preziosa chiave d’accesso a realtà nascoste incomincia presto a farsi surreale: troppo traboccante di incertezze (non vengono mai raggiunte prove incontrovertibili), troppo ricca di ingredienti romanzeschi, poi così congestionata di rivelazioni e testimoni stravaganti (tossicomani, veggenti, preti), da virare verso la farsa; inoltre quasi trasformata in un reality show dal sensazionalismo dei rotocalchi e dalla smania di notorietà di molte delle persone implicate (gli stessi familiari di Wilma accettano di partecipare a uno dei numerosi film progettati sugli eventi – nessuno realizzato). Il processo, che ha finalmente luogo nei primi mesi del 1957, porta all’acme queste dinamiche, oscilla tra il melodramma e la commedia, è complicato dall’apertura di nuove piste (si accentuano i sospetti su uno zio di Wilma, che condurranno a un nuovo processo, ma sfumeranno anch’essi nel nulla); termina infine con quella che appare ormai la conclusione inevitabile, un verdetto assolutorio, che conferma però l’ipotesi del delitto, delitto che non verrà mai risolto.

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