Dopo aver pubblicato, nell’imminenza del deposito, la sentenza della Corte di Cassazione – sezione 1^ civile n. 2400/2015, riguardante il matrimonio fra persone dello stesso sesso, segue oggi un articolato commento, in esclusiva per Sì Jus, dell’avv. Vincenzina Maio, del foro di Salerno.
Con la sentenza nr. 2400 depositata il 9 febbraio scorso, la Corte di Cassazione offre un contributo alla querelle concernente l’ingresso, nel nostro ordinamento giuridico, del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La decisione riguarda la vicenda di due omosessuali che si erano visti respingere, dall’ufficiale di stato civile del comune di appartenenza, la richiesta di pubblicazioni di matrimonio. Rivoltisi all’autorità giudiziaria, ottenevano un secco diniego di riforma del provvedimento comunale sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello, sulla scorta di una duplice motivazione: il richiamo alla sentenza nr. 138/2010 della Corte Costituzionale, che aveva escluso il contrasto con la Carta fondamentale delle norme civilistiche sul matrimonio, e la discrezionalità legislativa dei singoli Stati in punto di modelli matrimoniali, enucleata alla luce della CEDU (art. 12 della Convenzione), della Carta di Nizza (art. 9) e della recente giurisprudenza CEDU (sentenza Schalk e Kopf contro Austria).
Il proposto ricorso per cassazione si presenta sostenuto da tre censure principali.
In primo luogo i ricorrenti adducono la violazione degli artt. 3, 10 e 117 1° comma della Costituzione nonché dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 12 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo per avere la Corte di Appello continuato a ritenere la diversità dei sessi presupposto imprescindibile del matrimonio, pur se la sentenza nr. 4184/2012 della stessa Cassazione aveva affermato che l’art. 12 CEDU “ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso tra gli sposi”, alla luce dell’art. 9 della Carta che garantisce a tutti il diritto di sposarsi e di formare una famiglia (rigettando il ricorso volto ad ottenere la trascrizione del matrimonio celebrato all’estero, la sentenza citata afferma che la diversità di sesso, quale requisito minimo indispensabile per la stessa esistenza del matrimonio, non è più adeguata all’attuale realtà giuridica).
In secondo luogo, secondo i ricorrenti non è sufficiente il riconoscimento di tutela alle unioni omosessuali quali formazioni sociali di cui all’art. 2 della Costituzione, poiché solo col matrimonio si acquisiscono una serie di diritti e di doveri “complessi e stratificati” difficilmente riconoscibili o tutelabili se non con una molteplicità di azioni. Ne consegue che dovrebbero essere oggetto di sindacato costituzionale le norme di cui agli artt. 107, 108, 143, 143 bis, ter, 156 bis del codice civile per:
- violazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte matrimoniali (art. 2 Cost.)
- violazione della dignità sociale delle persone omosessuali che vivono stabilmente una condizione di coppia (art. 3);
- violazione del divieto di discriminazione delle persone in ragione di una condizione meramente personale (art. 3 Cost., 21 Carta di Nizza, 12 e 14 CEDU, art.10, primo comma e 117 Cost);
- violazione del diritto a contrarre matrimonio in condizioni di uguaglianza con le persone non omosessuali (art. 2,3,29 Cost.)
- restrizione della capacità di diritto pubblico derivante dal divieto (art. 22 Cost.);
In terzo luogo, sostengono che, alla luce dell’efficacia vincolante dei principi CEDU, non sarebbe infine necessario l’intervento legislativo.
La sentenza della Cassazione rigetta il ricorso motivandolo quanto al diniego dell’estensione del modello matrimoniale alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Le ragioni addotte dalla Corte ruotano intorno a due richiami.
Il primo è alla sentenza della Corte Costituzionale nr. 138/2010. Invero precisa la Cassazione che il caso in questione è stato già sottoposto al vaglio della Consulta la quale si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme codicistiche da cui si ricava che la diversità sessuale dei coniugi – ad oggi – sta alla base del matrimonio ed è un requisito essenziale per la sua legittimità. Ne fa conseguire la piena legittimità costituzionale del divieto di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso rimettendo alla discrezionalità del Parlamento il compito di individuare forme di garanzia, basate sull’art. 2 della Costituzione, e di riconoscimento delle unioni tra persone omosessuali.
Il secondo richiamo è agli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta di Nizza che, secondo la giusta interpretazione, lasciano al legislatore nazionale un margine di discrezionalità nella scelta delle forme e della disciplina giuridica dell’unione matrimoniale. Infatti, l’art. 12 prevede che “uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia, secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”. L’art. 9 stabilisce che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Non è corretto affermare, secondo la Corte, che la mancata estensione del modello matrimoniale alle persone dello stesso sesso, costituisca una lesione della dignità umana e dell’uguaglianza, che sono ugualmente tutelate nelle situazioni individuali e nelle situazioni relazionali rientranti nelle formazioni sociali costituzionalmente protette dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Parimenti, anche se l’art. 12 della Convenzione non esclude che gli Stati estendano il modello matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso, tuttavia non prevede nessun obbligo in tal senso. Così come pure l’art. 8, che sancisce il diritto alla vita privata e familiare, tra cui può essere ricompresa una relazione affettiva tra persone dello stesso sesso protetta dall’ordinamento, ma non necessariamente mediante l’istituto matrimoniale.
A tale argomentazione fa da completamento la precisazione sul significato da attribuire alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – in specie alle recenti sentenze Schalk and Kopf c. Austria del 24 giugno 2010, Gas e Dubois c. Francia del 15 marzo 2012 e Hamalainen c. Finlandia del 16 luglio 2014 – che, lungi dal costituire un precedente vincolante, statuisce il principio del margine di apprezzamento degli Stati membri.
Ribadendo il principio affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 138/2010, la Cassazione ha anch’essa negato che sia costituzionalmente discriminatorio un sistema civilistico, come quello italiano, che concede solo alle coppie uomo-donna l’accesso al matrimonio.
Dunque, non sussiste un obbligo costituzionale né convenzionale all’ingresso del matrimonio tra persone dello stesso sesso. L’art. 29 Cost. è stato pensato con esclusivo riguardo al matrimonio tra un uomo e una donna.
Tale presa di posizione si inscrive, a buon diritto, nel solco di una consolidata tradizione giuridica che attribuisce al matrimonio una sua finalità strutturale: regolamentare l’esercizio della sessualità al fine di garantire l’ordine delle generazioni.
L’essere umano in quanto sessuato e non diversamente dagli animali, procrea, ma solo gli esseri umani diventano genitori, mariti, mogli, figli, cioè acquistano la propria identità grazie all’assunzione di ruoli familiari. Questa identità è resa possibile da quella straordinaria struttura antropologica e giuridica che è il matrimonio.
Ogni tentativo di analogia tra matrimonio e convivenze omosessuali non può che rivelarsi fallace: il rapporto omosessuale in quanto costitutivamente e non accidentalmente sterile non può rivendicare una pretesa eguaglianza rispetto a quello eterosessuale, che può essere sterile di fatto, per volontà delle parti, a causa dell’età o per fattori patologici, ma non è mai sterile nel suo principio.
Sulla scorta di siffatta evidenza va interpretato il passaggio della sentenza che, sempre sul richiamo della citata pronuncia della Corte Costituzionale, afferma: “nel nostro sistema giuridico di diritto positivo il matrimonio tra persone dello stesso sesso è inidoneo a produrre effetti perché non previsto tra le ipotesi legislative di unione coniugale. Il nucleo affettivo relazionale che caratterizza l’unione omoaffettiva, invece, riceve un diretto riconoscimento costituzionale dall’art. 2 Cost., e mediante il processo di adeguamento e di equiparazione imposto dal rilievo costituzionale dei diritti in discussione può acquisire un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determina una lesione di diritti fondamentali scaturenti dalla relazione in questione”.
Inserire, come fa la Suprema Corte, le unioni tra persone dello stesso sesso nell’alveo dell’ art. 2 della Costituzione significa richiamare genericamente la tutela di formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo. E’ bene considerare, infatti, che detta norma non fa alcun riferimento espresso alle convivenze sessuate (nelle quali, cioè, ci sia esercizio della sessualità), con la conseguenza di predicarne l’applicazione a tutte le tipologie di convivenze espressive di bisogni umani e talvolta anche di interessi economici (ad es. convivenze tra genitori e figli, tra fratelli, tra lavoratori immigrati, etc.).
Appare allora decisamente forzato pretendere che le convivenze, in quanto formazioni sociali, possiedano una valenza para-coniugale.
La Corte ha riconosciuto che l’istituto matrimoniale è strutturalmente eterosessuale, eppure nell’espressione “equiparabile a quella matrimoniale” pare ancora annidarsi l’equivoco di un ragionamento condotto sempre sul parametro matrimoniale. Per assegnare alla pronuncia la coerenza che merita, la strada non può che essere quella di rifiutare interpretazioni e soluzioni legislative volte a riconoscere alle convivenze omosessuali tutti i diritti e i doveri dei coniugi, tranne la denominazione formale di coniugi.
Il Ddl Cirinnà sulle unioni civili ha esattamente questo obiettivo, dichiarato apertis verbis nell’art. 3 in cui statuisce “La parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso è familiare dell’altra parte ed è equiparata al coniuge per ogni effetto”. Riconnettere alle convivenze omosessuali gli stessi identici diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali regolarmente coniugate significa superare il limite applicativo imposto dall’art. 2 Cost. e far assumere all’unione omosessuale carattere coniugale. In tal modo il Ddl attualmente in discussione non fa altro che introdurre un “diritto nuovo” che non rende omaggio alla verità delle cose.
Le convivenze omosessuali non possono essere riconosciute come propriamente matrimoniali perché non sono unioni generative; l’unica collocazione possibile è nell’ambito delle convivenze aggregative o anagrafiche.
La via da percorrere, allora, non è innovativa ma ricognitiva.
I conviventi godono già, per via di intervento legislativo o giurisprudenziale, di un ampio ventaglio di diritti.
Lo sforzo che rende davvero coerente l’intervento del legislatore può essere solo quello di riunire in un unico testo le varie previsioni in modo da ricondurle ad organicità sistematica.
In questa direzione si muove il T.U. sui diritti dei conviventi presentato al Parlamento dal comitato Sì alla Famiglia lo scorso 16 gennaio. Invero, l’utilizzo del Testo Unico, a differenza della legge, è di per sé garanzia di una scelta giuridica chiara, senza ipocrisie: volontà di ricomporre e raccogliere in un unico testo una disciplina frammentata ma già esistente.
Punto centrale intorno a cui ruota l’intero impianto è la definizione giuridica della convivenza, individuata nell’ ”unione fra due persone legate da stabili vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nel medesimo comune, insieme con i familiari di entrambi che condividano la dimora” (art. 1 co.3), che consente di mantenere netta la distinzione tra la tutela offerta dall’art. 2 Cost. (nel quale si inserisce) e quella del tutto peculiare dell’art. 29 Cost. che è e rimane riservata alla “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Evitare pericolose equipollenze è indispensabile perché ciò che è in gioco, in ogni caso, è l’autenticità.
Vincenzina Maio