Torniamo sul caso di Archie Battersbee, fatto morire per ordine dell’autorità giudiziaria il 6 agosto mentre era ricoverato al Royal London Hospital, nonostante l’opposizione dei genitori. Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione, sottolinea i rischi derivanti dall’assumere da parte del potere pubblico come parametro “the best interest” del soggetto di volta in volta interessato.
1. Ancora una volta, nel recentissimo caso di Archie Battersbee (su cui https://www.centrostudilivatino.it/in-morte-di-archie-battersbee-e-dello-stato-di-diritto/), così come in quelli precedenti di Charlie Gard (che fu il primo; https://www.centrostudilivatino.it/leutanasia-del-piccolo-charlie-gard/) e di Alfie Evans (https://www.centrostudilivatino.it/alfie-pone-in-crisi-il-totalitarismo-del-xxi-secolo-ma-non-e-un-problema-soltanto-inglese/), tutti relativi a bambini che, per una ragione o per l’altra, apparivano destinati a una sopravvivenza puramente vegetativa, la magistratura britannica, a sostegno della decisione che andava interrotto il collegamento ai macchinari che assicuravano tale sopravvivenza, ha affermato che ciò rispondeva al loro “miglior interesse”. In tal modo è stato enunciato un principio che, a ben vedere, supera, in disumanità, quello al quale si ispirava il regime nazista. Questo, infatti, nel teorizzare e praticare l’eliminazione dei soggetti fisicamente o psichicamente tarati, applicava in modo distorto e aberrante un principio di per sé valido, quale è quello per cui l’interesse collettivo deve prevalere, in caso di inconciliabilità, su quello individuale, facendo coincidere l’interesse collettivo con quello della assoluta supremazia di una determinata razza umana, nell’ambito della quale non poteva quindi tollerarsi la presenza di individui imperfetti.
Non ci si sognava certo si sostenere, nella Germania nazista, che i soggetti tarati dovessero essere soppressi “nel loro miglior interesse”. Affermando invece questo principio, la magistratura britannica crea un sistema nel quale lo Stato non si limita ad imporre al singolo, per un vero o presunto interesse superiore, il sacrificio della vita, ma pretende di sostituirsi addirittura a quel singolo nel valutare se egli abbia o no un apprezzabile interesse a vivere piuttosto che a morire.
2. Non occorre un grande sforzo di fantasia per immaginare a quali ulteriori conseguenze, oltre a quelle già verificatesi, conduca un tale principio. Infatti, così come oggi si è ritenuto che, trattandosi di minori, non spetti a chi, come i genitori, li rappresenti “ex lege”, stabilire se sia o no nel loro “miglior interesse”, vivere o morire, allo stesso modo, domani, si potrà dire che analoga valutazione non spetti neppure al minorato psichico, all’handicappato grave o all’anziano carico di malanni e che, quindi, anche costoro, nel loro “miglior interesse”, debbano essere privati dell’assistenza e delle cure mediche che consentono loro di continuare a vivere una vita che, nonostante tutto, appaia loro degna di essere vissuta.
Certo, non si vuol qui sostenere che lo Stato debba fornire supporto economico e materiale a quello che, se ne sussistessero i presupposti in ciascuno specifico caso, verrebbe definito come “accanimento terapeutico”. E’ anzi da ritenere che un tale sostegno vada negato, ma ciò non sulla base della valutazione, caso per caso, di quello che, secondo lo Stato, sarebbe il “miglior interesse” del paziente ma soltanto perché l’accanimento terapeutico (o meglio pseudoterapeutico”) è privo, come tale, di oggettiva giustificabilità, in quanto destinato soltanto a procrastinare artificiosamente l’inevitabile decesso, senza alleviare ma, piuttosto, spesso aggravando le sofferenze del paziente.
3. Potrebbe sembrare, a prima vista, che si tratti di una distinzione priva di rilievo pratico e, quindi, sostanzialmente inutile. Ma non è così. Un conto è, infatti, riconoscere che, verificandosi talune condizioni, oggettivamente predeterminate quanto meno nella loro astratta tipologia, quali appunto quelle che rendono configurabile l’“accanimento terapeutico”, e dopo un rigoroso vaglio medico, lo Stato debba rifiutare di farsene carico, poiché ciò si tradurrebbe in uno spreco di pubbliche risorse; un altro conto è ammettere che spetti allo Stato stabilire, indipendentemente dall’esistenza o meno delle suddette condizioni, se un soggetto abbia o non abbia un apprezzabile interesse a proseguire la propria vita e possa quindi, lo stesso Stato, imporre, in caso negativo, che quella vita debba cessare, facendo mancare o, addirittura, vietando la somministrazione delle cure e dell’assistenza che ne consentirebbero la prosecuzione. Nella seconda di tali ipotesi, a differenza che nella prima, lo Stato esorbita dalla sfera delle sue attribuzioni per usurpare quella riservata a ciascun individuo quale giudice esclusivo del proprio interesse a vivere o morire.
Una tale usurpazione rientra nel più ampio quadro di una diffusa tendenza, non solo in Gran Bretagna ma in tutto il mondo che, per convenzione, chiamiamo “occidentale”, a ritenere che il singolo sia generalmente incapace di autodeterminarsi in modo corrispondente a quello che è, o dovrebbe essere da lui considerato, il suo vero interesse e debbano essere le autorità pubbliche, o altri organismi da esse riconosciuti, a indicarglielo e a far sì che a tale indicazione egli si attenga effettivamente, se non con l’imposizione, quanto meno con forme più o meno subdole e pressanti di condizionamento.
4. Un esempio, fra i tanti possibili, di tale tendenza, può rinvenirsi, per quanto riguarda, in particolare, l’Italia, nel Codice del consumo, emanato con D.L.vo n. 205 del 2006, nella parte in cui indica, tra le finalità della norma, quella costituita dall’“educazione del consumatore”, nell’evidente presupposto che quest’ultimo non sia, generalmente, in grado di scegliere, da solo, quel che per lui è più conveniente.
Non è difficile rendersi conto che, per questa via, si arriva alla pura e semplice invalidazione del principio cardine della democrazia: quello, cioè, secondo cui spetta a ciascun cittadino valutare quale sia, secondo il suo giudizio, l’interesse, pubblico o privato, maggiormente meritevole di tutela e compiere, conseguentemente, le proprie scelte politiche. Se si ammette, infatti, che lo Stato possa sostituire la sua valutazione a quella del cittadino con riguardo all’interesse di quest’ultimo per il primo fra tutti i diritti, che è quello alla vita, deve anche ammettersi che, in linea di principio, analoga sostituzione possa aver luogo, in determinate circostanze e con determinate modalità, anche con riguardo all’interesse per altri diritti, quando, secondo il potere costituito, quell’interesse, in realtà, non sussista.
Si tornerebbe così, in qualche modo, al modello delle c.d. “monarchie illuminate” del XVIII secolo, nelle quali l’azione del sovrano era, per definizione, diretta al bene del popolo ma era lo stesso sovrano a stabilire in che cosa dovesse consistere il bene del popolo, dovendosi quest’ultimo ritenere incapace di riconoscerlo autonomamente. Con la differenza, però, che, all’epoca, i monarchi ammettevano o mostravano di ammettere l’esistenza di una legge naturale alla quale la loro azione doveva uniformarsi, mentre lo stesso non può dirsi con riguardo agli attuali detentori dei pubblici poteri. Il che rende questi ultimi ben più pericolosi, come il caso di Archie e quelli, analoghi, che lo hanno preceduto, stanno inequivocabilmente a dimostrare.
Pietro Dubolino