Il prof. Gaetano Galluccio Mezio, della LUISS, interviene a seguito della proposta avanzata su questo sito dal pres. Pietro Dubolino circa il rapporto fra polizia giudiziaria e P.M., sottolineando la necessità di riforme non soltanto codicistiche. Il dibattito è aperto.
1.- In un pregevole scritto apparso su questo sito, il Presidente Emerito di Sezione della Suprema Corte di Cassazione, Dott. Pietro Dubolino, ha avanzato una proposta volta a limitare la «discrezionalità tecnica» degli uffici del pubblico ministero, imperniata su una modifica dell’attuale tessuto normativo dell’art. 330 c.p.p. (https://www.centrostudilivatino.it/per-limitare-il-sistema-verso-un-p-m-con-minore-discrezionalita/).
Nell’ottica del proponente, l’esclusione del potere del magistrato inquirente della possibilità di ricercare autonomamente la notizia di reato costituirebbe uno strumento utile a prevenire forme di “selezione politica” delle scelte investigative e di incriminazione. Ciò impedirebbe, da un lato, l’impiego strumentale delle funzioni giudiziarie da parte dei singoli capi delle procure, dall’altro, costituirebbe un serio disincentivo per le «correnti più politicizzate della magistratura» nel perseguire «l’obiettivo di assumere, indirettamente, un ruolo attivo nella determinazione degli assetti politici locali o, talvolta, nazionali mediante la scelta, secondo le regole del “sistema”, di un soggetto piuttosto che un altro da destinare alla copertura di un determinato ufficio giudiziario».
Nel contesto dell’articolo dianzi richiamato, l’accenno al “sistema” è ovviamente riferito alla degenerazione correntizia posta in luce dal recente libro-intervista di Sallusti e Palamara; mentre la premessa del discorso risiede in una constatazione di natura schiettamente politica: l’impossibilità, nell’attuale temperie istituzionale e partitica, di ipotizzare riforme “di struttura” concernenti il vigente assetto dell’ordine giudiziario e dei principi costituzionali cardine del processo penale.
2.- L’Autore identifica con grande lucidità di analisi e non comune onestà intellettuale gli autentici “nervi scoperti” del sistema di governo della magistratura, di recente, venuti all’attenzione del grande pubblico, sebbene da lunga pezza ben noti a qualunque operatore del diritto mediamente informato.
Particolarmente apprezzabile è aver posto in piena luce quello che può, a buon ragione, essere considerato il “movente” delle trame correntizie descritte dal volume di Sallusti e Palamara, nonché il reale oggetto del contendere della serie di conflitti interni alla magistratura assurti all’onore delle cronache nazionali: la “conquista” dell’enorme potere riservato ai capi degli uffici di procura, nei fatti, al riparo da meccanismi di controllo di qualche efficacia.
Una concentrazione di potere, come osserva il Presidente Dubolino, la cui sostanziale insindacabilità è dissonante rispetto a un quadro di valori costituzionali caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione e dall’irresponsabilità politica dell’organo di accusa.
Individuata questa «grave e inaccettabile anomalia», considerazioni di realpolitik suggerirebbero di intervenire quanto prima e con legge ordinaria per limitare, quantomeno, l’enorme spazio di discrezionalità dei capi degli uffici nella ricerca della notitia criminis.
3.- Si tratta, tuttavia, di una proposta che, pur animata dai migliori intenti, non è immune dalle controindicazioni già evidenziate dagli studiosi del processo penale che si opposero all’introduzione del progetto di riforma a firma dell’allora guardasigilli Alfano nel lontano 2009, nel quale si prevedeva una modifica dell’art. 330 c.p.p. analoga a quella oggi rievocata.
Come mirabilmente evidenziato, in particolare, dal compianto Prof. Vittorio Grevi in due scritti apparsi, rispettivamente, sulla Rivista “Guida al Diritto” e sul “Corriere della Sera” dell’epoca, la proposta di riservare “in via esclusiva” alla polizia giudiziaria il compito della ricerca delle notizie di reato schiuderebbe il varco a problemi sistematici ben maggiori rispetto a quelli che pretenderebbe di risolvere; non foss’altro perché – come recitava un documento approvato all’unanimità dall’Associazione tra gli studiosi del processo penale (al termine di un convegno svoltosi il 14 marzo 2009 presso l’Università di Milano) – suscettiva di affidare «ad un organo dipendente dall’esecutivo l’iniziativa investigativa e le consequenziali scelte di indirizzo». Tanto con la conseguenza, nella riflessione del citato Prof. Grevi, di introdurre «almeno con riguardo a determinati settori di illiceità penale, un forte limite esterno rispetto alla possibilità di avvio delle attività di indagine preliminare, il quale infatti potrebbe attivarsi solo dopo aver ricevuto la notizia di reato».
Il difetto principale della proposta di aggiornamento dell’art. 330 c.p.p. avanzata dal Presidente Dubolino è, dunque, quello di traslare l’ineliminabile ambito di discrezionalità che si annida nell’attività di ricerca e selezione delle notizie di reato dagli uffici del pubblico ministero ai circuiti investigativi; vale a dire in capo ad organi il cui inquadramento nell’alveo del potere esecutivo rischierebbe di nuocere, a sua volta, all’equilibrio e al reciproco controllo tra poteri dello stato, ponendo in un cono d’ombra, sottratto a meccanismi di controllo effettivo, ad esempio, gli abusi polizieschi o i reati posti in essere dai membri del Governo.
4.- Preso atto di queste controindicazioni e richiamata la netta contrarietà, a suo tempo, espressa dagli studiosi nei confronti di analoga ipotesi di riforma, ma anche dell’assoluta lucidità della impietosa diagnosi “dei mali” che contaminano l’asseto della magistratura inquirente nel nostro Paese, contenuta nello scritto apparso su questo sito, occorre rassegnarsi all’idea che tali problemi non possano essere affrontati e risolti con lo strumento della legislazione ordinaria e, comunque, senza una riforma di sistema.
È, del resto, lo stesso articolo in commento a indicare chiaramente come le richiamate degenerazioni correntizie rappresentino il portato di un difetto di struttura dell’attuale assetto dell’ordine giudiziario, oltre che il diretto corollario di quella che solo eufemisticamente viene definita alla stregua di «discrezionalità tecnica del pubblico ministero» ma che, in realtà, corrisponde, all’impossibilità di seguitare ad aderire ad una concezione rigida del principio di obbligatorietà.
Se questo è vero, i nodi cruciali individuati dal Presidente Dubolino mal si prestano ad essere sciolti senza un serio ripensamento dell’inquadramento istituzionale del pubblico ministero e della natura dell’azione penale, fortemente condizionati – all’atto della redazione della Costituzione – da preoccupazioni di ordine storico auspicabilmente non più attuali e, certamente, disarmoniche con l’opzione culturale e normativa compiuta con l’introduzione del modello processuale di ispirazione accusatoria.
5.- Sotto il versante dell’ordinamento giudiziario, è urgente separare i percorsi di carriera e distinguere gli organi titolari della potestà disciplinare dei magistrati del pubblico ministero da quelli dei giudici, a beneficio non solo di una più chiara ripartizione dei ruoli e anche di una più netta distinzione dei modelli culturali e organizzativi di riferimento ma, altresì, a presidio dei requisiti di imparzialità, indipendenza interna e, soprattutto, terzietà di questi ultimi. Ripensamento nell’ambito del quale non è affatto peregrino ipotizzare una diversa composizione del C.S.M., attualmente sagomato in maniera tale da garantire la netta prevalenza della componente “togata”; come tale, destinata ad alimentare l’autoreferenzialità della magistratura – se non, addirittura, la tendenza ad esercitare uno schiacciante condizionamento su altri organi di rilievo costituzionale – ben descritta da Palamara e Sallusti.
6.- Per ciò che concerne, invece, l’obbligatorietà dell’azione penale, efficacemente qualificata in guisa di una «bugia convenzionale» dalla scienza giuridica, pare non più procrastinabile ammainare questa bandiera ideologica, foriera di interpretazioni tese a deresponsabilizzare i titolari della funzione di accusa, in favore di una visione, banalmente, suscettiva di fare i conti con la realtà.
Le scelte organizzative rimesse ai dirigenti degli uffici di procura, l’individuazione delle priorità nell’allocazione delle risorse investigative, nonché nell’attivazione della macchina processuale nel quadro di un sistema a forte impianto burocratico, ritagliano, difatti, uno spazio decisionale inevitabilmente discrezionale e, altrettanto inevitabilmente, condizionato da giudizi di valore e orientamenti culturali, tali da tradursi in vere e proprie opzioni di politica criminale.
Un simile ambito di discrezionalità è, peraltro, ulteriormente dilatato dalla mole del carico di lavoro che grava sui singoli uffici ed è accentuato dalla rinuncia del Parlamento (specie dopo la frettolosa riforma dell’art. 79 Cost.) a ricorrere a provvedimenti, come l’amnistia e l’indulto, o dal progressivo smantellamento di istituti, come la prescrizione (costantemente oggetto di modifiche tese ad innalzare la durata dei termini di estinzione dei reati), atti a calmierarne l’entità.
Prendere atto di questo non significa minare l’autonomia e l’indipendenza esterna dei magistrati del pubblico ministero né richiede, necessariamente, la previsione di forme di responsabilità politica (diretta o indiretta) dei capi degli uffici ma esige, quantomeno, una rivisitazione profonda dell’inquadramento istituzionale dei rappresentanti dell’accusa e dei meccanismi di controllo sul loro operato, allo stato del tutto insufficienti.
Anche se tutto ciò sfugge alle ragioni della realpolitik nitidamente richiamate dal Presidente Dubolino, non sembra che un serio dibattito sulla giustizia possa prescindere da una prospettiva di tale respiro.
Gaetano Galluccio Mezio
Avvocato penalista
Professore a contratto di diritto processuale penale nell’a.a. 2020/2021 presso l’Università Luiss “Guido Carli” di Roma