Il tema della responsabilità dei magistrati rappresenta da sempre un argomento assai scivoloso, rispetto alla quale le istanze di quei corpi sociali che ciclicamente invocano riforme volte a introdurre meccanismi sanzionatori informati a una maggiore severità si devono necessariamente confrontare con le norme contenute nel titolo IV, parte II, della Costituzione, ove la Carta si occupa per l’appunto di magistratura. L’articolo tratta il tema della responsabilità dei magistrati per l’attività giurisdizionale, lo speciale regime loro riservato sia in ambito civile che disciplinare e le c.d. clausole di salvaguardia.
1. “L’onore dei giudici consiste, come quello degli altri uomini, nel riparare i propri errori”[1]: questa citazione di Voltaire apre e chiude la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, presentata il 21 gennaio 2022 durante la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario tenuta presso la Corte Suprema di Cassazione[2].
Quanto il tema dell’errore giudiziario sia attuale è facile a chiunque verificarlo sfogliando le pagine di cronaca, i cataloghi dei volumi presenti in libreria o quelli compulsabili su una qualsiasi delle piattaforme multimediali che distribuiscono film e serie TV.
Il terreno d’elezione, stando almeno al clamor fori suscitato, è senz’altro quello dell’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario in senso stretto.
La Relazione al Parlamento ex Legge 16 aprile 2015 n. 47, presentata dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione Generale degli Affari Interni, con riferimento al tema delle Misure Cautelari Personali e Riparazione per Ingiusta Detenzione: dati anno 2021 (documento aggiornato ad aprile 2022), così distingue i due istituti: «l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è collocato all’interno del Capo VIII del Titolo I (misure cautelari personali) del Libro IV del codice di procedura penale, dedicato alle misure cautelari, e garantisce all’imputato il diritto soggettivo ad ottenere un’equa riparazione per la detenzione subita ingiustamente prima dello svolgimento del processo e, quindi, prima della sentenza. … [omissis]
L’errore giudiziario, invece, è inserito nel Titolo IV (revisione) del Libro IX del medesimo codice, riservato alle impugnazioni e si verifica quando un soggetto, dopo aver espiato una pena, o parte di essa, per effetto di una sentenza di condanna, venga successivamente riconosciuto innocente in seguito ad un nuovo processo di “revisione”, strumento di impugnazione straordinario».
Il provvedimento del giudice, qualsiasi provvedimento – una misura cautelare restrittiva della libertà personale o una sentenza di condanna penale (ma lo stesso vale in ambito civile, dove transitano spesso questioni di particolare importanza e delicatezza) – si rivela errato tutte le volte che lo stesso viene annullato da una pronuncia resa nel successivo grado di impugnazione. Eppure è evidente che, se ogni volta che la decisione contenuta in una sentenza viene ribaltata, l’Ordinamento sanzionasse il giudice che l’ha emessa, la macchina della giustizia si arresterebbe nel giro di poche settimane. La responsabilità del magistrato – penale, civile o disciplinare – di cui si parla in relazione all’attività giurisdizionale (ossia all’attività riconnessa all’interpretazione di norme di diritto e alla valutazione del fatto e delle prove) consiste allora in qualcosa di diverso e l’azione di responsabilità non è l’arena ove al soggetto leso è consentito consumare il redde rationem con il giudice che gli aveva dato torto.
Il documento appena richiamato ribadisce come «il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – così come, del resto, del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’art. 643 c.p.p. – non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto.
Gli istituti riparatori hanno presupposti e obiettivi diversi e operano su piani distinti ed autonomi rispetto a quello della responsabilità disciplinare dei magistrati». Una cosa è, in sintesi, il ristoro del danno ingiustamente subito dal cittadino, altro è l’eventuale sanzione al giudicante.
A ogni modo, va detto che il tema della responsabilità dei magistrati rappresenta da sempre un argomento assai scivoloso, rispetto alla quale le istanze di quei corpi sociali che ciclicamente invocano riforme volte a introdurre meccanismi sanzionatori informati a una maggiore severità (giustificate dal periodico ripresentarsi all’attenzione della pubblica opinione di casi più o meno eclatanti di errori giudiziari) si devono necessariamente confrontare con le norme contenute nel titolo IV, parte II, della Costituzione, ove la Carta si occupa per l’appunto di magistratura.
Posta questa premessa, veniamo ora ai profili che più strettamente interessano questa rubrica.
2. In ambito disciplinare si è scritto in precedenza[3] che il decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109 prevede tre categorie di illeciti disciplinari tipici: gli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni (art. 2), gli illeciti disciplinari fuori dell’esercizio delle funzioni (art. 3) e gli illeciti disciplinari conseguenti a reato (art. 4). Con riferimento agli illeciti disciplinari compiuti nell’esercizio delle funzioni, il predetto decreto legislativo contiene all’art. 2, co. 2, una c.d. clausola di salvaguardia, secondo cui «fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m),n), o), p), cc) e ff), l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare». In buona sostanza, nella generalità dei casi e salvo alcune specifiche fattispecie di illecito, l’attività giurisdizionale non è fonte di responsabilità disciplinare per il magistrato.
D’altro canto, non può in questa sede ignorarsi che una clausola di salvaguardia è prevista anche all’art. 2, co. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, in materia di responsabilità civile dei magistrati, ove si legge che «fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove»[4]. In tali casi è lo Stato a rispondere in via diretta per gli atti del magistrato che sono fonte di responsabilità civile.
Il sistema della responsabilità civile delineato dalla legge 13 aprile 1988 n. 117 è a “due velocità”, in quanto all’azione diretta del cittadino leso, esperita nei confronti dello Stato, segue l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, che viene esercitata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ma solo nei casi di «dolo o negligenza inescusabile».
La recente proposta referendaria finalizzata a consentire al cittadino di agire per il risarcimento dei danni derivanti dalla responsabilità civile del magistrato direttamente nei suoi confronti in tutte le ipotesi in cui tale azione diretta é oggi preclusa è stata dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 49 del 2 marzo 2022, anche in ragione del fatto che «sarebbe contraddittorio dilatare o restringere il campo della responsabilità del magistrato, a seconda che questi sia soggetto ad azione diretta, oppure ad azione di rivalsa», riprendendo così le perplessità in precedenza espresse anche su questo sito[5].
In termini generali, sul tema della responsabilità del magistrato nei confronti del cittadino a chi sostiene che i giudici dovrebbero «pagare come pagano i medici, gli ingegneri e qualsiasi altro professionista» si è soliti replicare che «il magistrato, qualunque funzione eserciti e qualunque decisione prenda, scontenterà inevitabilmente qualcuno e pregiudicherà aspettative e posizioni di altri. Egli, nel penale, e tanto più nel civile, dovrà dare ragione a una parte e torto a un’altra. Potrà scontentare l’imputato e magari essere apprezzato dalle persone offese. O, quando archivierà la denuncia di un cittadino, scontenterà chi l’ha sporta e magari sarà apprezzato dall’indagato. E, se è così, introdurre la possibilità che il magistrato possa essere citato in giudizio direttamente dal cittadino che non è contento del suo operato (anche nel corso della causa che sta trattando o del procedimento che sta istruendo o del processo che sta celebrando) significa esporlo a continue azioni civili nei suoi confronti anche con richieste ingentissime, che ne penalizzerebbero la funzione»[6]. Il tema, insomma, è sempre lo stesso: l’indipendenza della magistrato[7].
3. Le clausole di salvaguardia si inseriscono in questo contesto, quali necessari presidi a difesa dell’indipendenza del magistrato. Tuttavia, a legislazione vigente, si deve tener presente che l’interpretazione del diritto e la valutazione del fatto da parte del magistrato non è del tutto insindacabile.
In tema di responsabilità civile, infatti, il testo originario della clausola di salvaguardia contenuta all’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, che nella sostanza limitava tale forma di responsabilità alla sola ipotesi in cui fosse stato emesso un “provvedimento abnorme” (secondo la definizione fornita dalla Corte di Cassazione), è stato novellato dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18, anche a seguito della condanna inflitta all’Italia dalla Corte giustizia dell’Unione Europea, Sez. III, Sentenza, 24/11/2011, n. 379/10, per essere «venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado».
In ambito disciplinare, invece, l’art. 2, co. 2, del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, richiamato in apertura, tiene fuori dall’ambito di operatività della clausola di salvaguardia alcune ipotesi specificamente richiamate, tra le quali (per quanto qui interessa):
g) la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile;
h) il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile;
l) l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge;
m) l’adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali;
cc) l’adozione intenzionale di provvedimenti affetti da palese incompatibilità tra la parte dispositiva e la motivazione, tali da manifestare una precostituita e inequivocabile contraddizione sul piano logico, contenutistico o argomentativo;
ff) l’adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza.
4. E’ vero, dunque, che nel nuovo regime della responsabilità civile e nel sistema della responsabilità disciplinare «l’interpretazione del magistrato non è più libera (purché non abnorme) e può essere sindacata, sia in sede civile che in sede disciplinare»[8], ma i termini di tale sindacato restano molto circoscritti.
In ambito disciplinare, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da tempo chiarito che «il comportamento del magistrato può essere censurato sul piano disciplinare con riguardo ad atti e provvedimenti resi nell’esercizio delle sue funzioni e, quindi, anche con riguardo all’attività interpretativa e applicativa delle norme di diritto, purché tale attività riveli scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonee a riverberarsi negativamente sulla credibilità del magistrato o sul prestigio dell’ordine giudiziario, restando invece esclusa la censurabilità dell’attività interpretativa del magistrato allorché pervenga a soluzioni non implausibili, ancorché criticabili come non fondate»[9].
Si è anche affermato che, ai fini della sussistenza di una responsabilità disciplinare riferibile ad addebiti riconducibili all’attività giurisdizionale del magistrato, non va valutata la correttezza in sé di un determinato provvedimento che sia stato redatto dallo stesso incolpato, bensì la condotta del magistrato medesimo, cioè il suo impegno intellettuale e morale, congiuntamente alla sua dedizione alla funzione, che deve essere sempre esercitata rispettando i doveri d’ufficio. Secondo Cass. civ., Sez. Unite, sentenza, 17/02/2009, n. 3759 «l’insindacabilità in ambito disciplinare dei provvedimenti giurisdizionali e delle interpretazioni adottate esclude, infatti, che la loro inesattezza tecnico-giuridica possa di per sé sola configurare l’illecito disciplinare del magistrato, ma non quando essa sia conseguenza di scarso impegno e ponderazione o di approssimazione e limitata diligenza, ovvero sia indice di un comportamento del tutto arbitrario, e rischi perciò di compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario».
5. A margine del tema connesso all’interpretazione delle norme di diritto e alla valutazione dei fatti da parte del giudice nell’esercizio delle funzioni giudiziarie occorre poi dar contro dell’altra questione costituita dal c.d. rifiuto del creazionismo giudiziario. Ferrajoli inquadra bene tale questione: «come ben sappiamo, gli spazi della discrezionalità interpretativa nell’esercizio della giurisdizione sono enormi e crescenti, a causa dell’inflazione normativa, del dissesto del linguaggio legale e della struttura multilivello della legalità. L’ultima cosa di cui si avverte il bisogno è perciò che la cultura giuridica, attraverso la teorizzazione e l’avallo di un ruolo apertamente creativo di nuovo diritto affidato alla giurisdizione, contribuisca ad accrescere questi squilibri, assecondando e legittimando un ulteriore ampliamento degli spazi potestativi già amplissimi della discrezionalità e dell’argomentazione giudiziaria, fino alla vanificazione della separazione dei poteri, al declino del principio di legalità e al ribaltamento in sopra-ordinazione della subordinazione dei giudici alla legge»[10].
Una posizione, questa, non da tutti condivisa, in quanto c’è chi invece ritiene che «il giudice contemporaneo, lungi dall’essere semplice “bouche de loi”, diviene custode di quei valori per i quali ha giurato fedeltà e, nel contrasto eventuale tra leggi positive e valori costituzionali, convenzionali e comunitari, deve dare la prevalenza a questi ultimi, come Antigone fece per gli “αγραπτα νομιμα”»[11]. Anche secondo Fresa, comunque, la Costituzione ha previsto agli artt. 101 e ss. rigide garanzie per l’esercizio della funzione giurisdizionale, ma «il magistrato–Antigone dev’essere cosciente che a fronte di queste prerogative (che il CSM assicura in concreto con lo strumento delle c.d. pratiche a tutela) vi sono corrispondenti doveri, che regolano l’attività giurisdizionale e che sono posti a presidio del rischio del ripetersi nel nostro ordinamento di ciò che si è soliti accomunare alla c.d. sentenza di Porzia, cioè all’interpretazione abnorme che si pone al di fuori dei confini del giuridicamente sostenibile, anche in quanto conseguenza di un comportamento deontologicamente scorretto»[12].
Il tema è centrale, per quanto insidioso. Per quello che qui interessa, possiamo avanzare due considerazioni conclusive. La prima è che – a legislazione vigente – sembra difficile ipotizzare che un “giudice creatore” mediamente attrezzato rediga un provvedimento tale da collocarsi fuori dal largo margine di discrezionalità concesso dalla clausola di salvaguardia, travalicando così il limite delle «soluzioni non implausibili». La seconda è che, nel caso di interpretazioni che travalichino detto limite, la prospettiva di una azione disciplinare, anche per le implicazioni connesse alla progressione di carriera, sembra senza dubbio più adatta a rappresentare un utile deterrente, stante il fatto che la responsabilità civile si traduce nella sostanza in poco più che «una tassa annuale pagata da ogni magistrato italiano»[13] al proprio assicuratore per fronteggiare il rischio di dirette ricadute pregiudizievoli conseguenti al proprio errore di giudizio.
Angelo Salvi
[1] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli, Milano, 1995, pag. 41.
[2] Documento reperibile al seguente link: https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_Relazione_2022.pdf
[3] A. Salvi, Etica e disciplina in magistratura, reperibile al seguente link: https://www.centrostudilivatino.it/3-etica-e-disciplina-nella-magistratura/
[4] Ai successivi commi 3 e 3-bis il menzionato art. 2 stabilisce che «3. Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
3-bis. Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea».
[5] Si rimanda, in proposito, a Referendum “per la giustizia giusta”- 1. Responsabilità civile dei Giudici, una lettura ragionata del quesito: «il testo della legge esito dell’approvazione del quesito referendario fa sollevare perplessità sulla coerenza complessiva del testo. Come è noto, i canoni su cui si fonda oggi la responsabilità civile dello Stato nei confronti del cittadino (art. 2) e quelli su ci si fonda l’azione di rivalsa (art. 7) non sono perfettamente sovrapponibili: da un lato, l’art. 2– nel testo già novellato dalla legge 27/02/2015 n. 18 (intervenuta anche a seguito di pronunce della Corte di giustizia europea) – fa riferimento ai concetti di dolo e colpa grave, mentre l’art. 7 circoscrive l’azione di rivalsa ai casi in cui la condotta attenzionata sia connotata da dolo o negligenza inescusabile, intendendosi con tale formula “un quid pluris rispetto alla colpa grave di cui all’art. 2236 c.c., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile” ” (Cfr. Cass. 26 luglio 1994, n. 6950; Cass. 5luglio 2007, n. 15227).
Ciò significa che, laddove il cittadino intendesse proporre l’azione diretta nei confronti del magistrato, evocando lo stesso in giudizio da solo o unitamente allo Stato, costui risponderebbe secondo i criteri individuati nell’art. 2, e dunque per dolo e per colpa grave, e perderebbe nei fatti la possibilità di giovarsi di quel maggiore schermo che é costituito dal parametro della negliegenza inescusabile (la quale resterebbe prerogativa dei – con ogni probabilità limitati – casi in cui fosse ancora necessaria l’azione di rivalsa). Tale “disallineamento” delle due forme di responsabilità (diretta e di rivalsa) appare poco coerente in un’ottica di sistema, poiché la condotta del magistrato finirebbe per essere valutata secondo un diverso parametro solo in ragione della scelta del cittadino di agire direttamente nei sui confronti o, per contro, agire nei confronti del solo “Stato giudice”» (documento reperibile al seguente link: https://www.centrostudilivatino.it/referendum-per-la-giustizia-giusta-1-responsabilita-civile-dei-giudici-una-lettura-ragionata-del-quesito/).
[6] S. Lodato intervista N. Di Matteo, I nemici della giustizia, Rizzoli, 2021, pp. 197-198.
[7] In proposito v. anche il comunicato dell’ANM del 20 giugno 2021, ove si paventava il rischio di «una magistratura meno indipendente» (documento reperibile al link: https://www.associazionemagistrati.it/doc/3558/lanm-sui-referendum.htm).
[8] M. Fresa, La giustizia disciplinare, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2022, p. 58.
[9] In tal senso Cass. civ., Sez. Unite, sentenza, 25/03/2013, n. 7379, il cui principio di diritto è stato ribadito di recente anche da Cass. civ., Sez. Unite, sentenza, 02/05/2019, n. 11586: «la condotta del magistrato, tradottasi nell’attività interpretativa e applicativa di norme di diritto, è censurabile sotto il profilo disciplinare nel solo caso in cui il provvedimento giurisdizionale sia stato adottato sulla base di un errore macroscopico o di una negligenza grave e inescusabile, rivelatrice di scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonee a riverberarsi negativamente sulla credibilità del magistrato o sul prestigio dell’ordine giudiziario».
[10] L. Ferrajoli, Dieci regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione, in Il procedimento disciplinare dei magistrati, quaderno 8,Scuola superiore della magistratura, Roma 2022, p. 89.
[11] M. Fresa, op. cit., p. 11.
[12] M. Fresa e S. De Nardi, Interpretazione abnorme e responsabilità del magistrato, in Giustizia Insieme,1-2/2011, p. 71-72.
[13] Intervista di T. Montesano a A. Mantovano, in Libero del 22 ottobre 2009, reperibile al link: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/interview/Interviste/_sottosegretarioxprecedenti/2100_501_sottosegretario_mantovano/0071_2009_10_22_intervista_a_Libero.html_86475457.html.