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Il dibattito aperto dalle riflessioni del presidente Pietro Dubolino sulle riforme nel rapporto fra P.M. e polizia giudiziaria, seguito dall’intervento del prof. Gaetano Galluccio Mezio, della LUISS, conosce oggi l’articolato contributo del prof Mauro Ronco, emerito di diritto penale a Padova e presidente del nostro centro studi: dalle attese sollevate dall’introduzione del codice del 1988 alle delusioni immediatamente seguite, le ragioni di una riforma che non può tardare.

1. La questione: la distribuzione dei poteri tra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Su questo sito si è aperto un interessante dibattito sulla natura dei poteri del pubblico ministero e sul ruolo che tale organo esercita nel processo penale. Pietro Dubolino (https://www.centrostudilivatino.it/per-limitare-il-sistema-verso-un-p-m-con-minore-discrezionalita/), con la sua esperienza nel ruolo di presidente dell’Alta Corte, ha saputo indicare i gravi rischi che il grande potere del pubblico ministero nella selezione delle notizie di reato possono arrecare alla fisiologica amministrazione della giustizia penale. Su tali rilievi ha proposto una ridistribuzione dei poteri e dei doveri nella fase preliminare dell’esercizio dell’azione penale tra l’organo del pubblico ministero e la polizia giudiziaria, sulla falsariga della disciplina del codice processuale abrogato nel 1988. Gaetano Galluccio Mezio (https://www.centrostudilivatino.it/perche-per-la-giustizia-penale-sono-necessarie-riforme-di-struttura/), pur ravvisando rischi analoghi a quelli denunciati da Dubolino, ha evidenziato la non percorribilità di un cammino all’inverso nella suddivisione dei compiti tra il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, in ragione del pericolo che lo spostamento dell’asse della ricerca dei reati su quest’ultima comprometta l’esercizio della funzione penale, aprendo vasti spazi di impunità per i potenti che, tramite il sostegno degli organi di governo, sono in grado di condizionare gli organi di polizia.

2. Il fallimento del codice di procedura dell’88. La questione è di ampia portata e rinvia alle scelte compiute nel corso degli anni ’80 del secolo scorso. Non posso omettere che la migliore dottrina processualistica si ingannò sul significato e sulla portata della normativa processualistica riformata. Cito per tutti due specialisti della procedura penale, Mario Chiavario e Delfino Siracusano, che ebbero ampia parte nel dibattito scientifico preparatorio del codice del 1988. Il primo, nella presentazione del nuovo codice fatta su Legislazione penale, osservava: “… non è cosa da poco che proprio il codice di procedura penale del 1930 esca finalmente di scena; che ne esca con quanto vi era rimasto del marchio autoritario impressovi dai suoi artefici e con quanto di più eterogeneo vi era stato immesso o frammischiato dal susseguirsi di interpolazioni (novellistiche o derivanti da interventi ortopedici della Corte costituzionale) che l’hanno ormai reso, materialmente, pressoché inconsultabile./ Soprattutto, poi, non è cosa da poco che il nuovo codice nasca col vincolo primario … all’attuazione dei principi costituzionali e all’adeguamento delle norme internazionali di tutela dei diritti umani …”. Siracusano scriveva, sotto il titolo “Dall’indagine per l’azione al contraddittorio per la prova”, che le indagini preliminari del pubblico ministero debbono servire esclusivamente per la formulazione dell’accusa allo scopo di “evitare che, sotto altre forme, si riproducano fenomeni di commistione nelle aree dell’azione e della prova”, poiché la prova deve formarsi esclusivamente nel contraddittorio. E ancora: “Un contraddittorio differito non può che avere ridotte dimensioni processuali. E la pratica giudiziaria si è incaricata di dimostrarlo … Nel processo senza istruzione i modelli sono, per forza di cose, diversi. In questo tipo di processo il contraddittorio non deve fare i conti con i protocolli di una prova già acquisita ma deve cimentarsi per acquisirla. E’ un contraddittorio per la prova e non sulla prova”.

L’entusiasmo tra gli studiosi era generalizzato. Le cose non sono andate precisamente come ci si attendeva. Non posso soffermarmi sulla attuale situazione in cui la prova si forma in grandissima parte nella fase delle indagini preliminari, sotto la guida del pubblico ministero, grazie soprattutto ai mezzi di prova di carattere tecnico, le intercettazioni telefoniche e ambientali, l’esame della memoria degli strumenti telematici, le individuazioni delle celle e dei terminali tramite cui si snoda il flusso delle comunicazioni. Posso soltanto rinviare, per documentare il grave stato di prostrazione in cui si trova oggi la dottrina processual-penalistica, allo studio di Alfredo Gaito e Cristiana Valentini, pubblicato sull’ultimo fascicolo del 2020 di Archivio Penale, intitolato significativamente “Stato senza diritto e difesa smaterializzata: la sostanziale inutilità del diritto alla prova”.

Non erano mancati, pur nella soddisfazione generale, alcuni rilievi critici. Marcello Gallo, per esempio, presidente della Commissione parlamentare bicamerale per il giudizio di conformità dell’articolato alla legge delega, puntava l’indice sull’esigenza che alla riforma del processo corrispondessero nuove strutture: dall’edilizia giudiziaria, al numero dei giudici, a quello dei coadiutori di giustizia. E concludeva che, se era bene che si fosse dato inizio all’opera dal codice, tuttavia le riforme di struttura erano indispensabili: “Si può e si deve dire che il nuovo codice starà o cadrà con esse”. In effetti, la sua previsione suona oggi come una profezia: la riduzione, invece che l’aumento delle risorse, comparata per giunta con l’aumento enorme del carico giudiziario e delle emergenze criminologiche degli ultimi trent’anni, ha portato con sé la caduta del codice, la cui efficienza era condizionata dall’implementazione strutturale e degli operatori giudiziari.

Per incidens può dirsi che questo è il vero problema che sta di fronte all’attuale ministro di giustizia: non sono urgenti riforme normative, ma implementazioni di organici e di mezzi. Una ripresa del nostro apparato giudiziario è infatti immaginabile soltanto con l’immissione di risorse economiche notevoli – ricavate dal Recovery found – che migliorino il sistema rendendolo idoneo alla realizzazione di una giustizia giusta ed efficiente (https://www.centrostudilivatino.it/giustizia-e-recovery-plan-se-non-cambia-restano-sprechi-e-inefficienze/).

3. Natura e poteri del pubblico ministero. Parto da un’esperienza. Mi è accaduto, per compito istituzionale o per incarico professionale conferitomi da pubblici ministeri soccombenti nel concorso per l’assegnazione di un posto dirigenziale, di prendere visione dei curricula da loro presentati al concorso. Tali documenti erano punteggiati dai «successi» conseguiti come pubblici accusatori: «io sono stato il P.M. che è riuscito a far condannare i componenti della famosa banda x»; «io ho svolto con successo la difficile indagine, conclusasi con condanne severe da parte dei giudici di merito, confermate dalla corte di cassazione, per smascherare un complesso giro di appalti criminosi nella zona di y»; «io ho ottenuto la condanna degli imprenditori che pilotavano illegittimamente le gare d’appalto nel territorio apparentemente pulito» di z»; «io sono riuscito a dimostrare la rete di interessi illeciti intrecciati dagli uomini politici locali con le organizzazioni mafiose, ottenendo la condanna degli insospettabili affiliati alle cosche», e così via. Si tratta, per lo più, di importanti risultati conseguiti dai pubblici ministeri nella lotta contro le variegate forme di criminalità che si presentano nel nostro paese, come in qualsiasi società. In qualità di cittadino interessato alla promozione della giustizia, sono lieto per questi successi. Sarei un cattivo cittadino se non fossi soddisfatto del fatto che sono consegnati alla giustizia punitiva dello Stato uomini e donne colpevoli di gravi reati contemplati dalla legge.

L’esperienza mi fa sorgere due domande. Anzitutto, il modo di presentare se stessi per l’avanzamento in carriera dei pubblici ministeri è compatibile con lo svolgimento, da parte della stessa persona, vuoi antecedentemente vuoi successivamente, della funzione di giudice? In secondo luogo, ancora più radicalmente, una funzione così rappresentata assomiglia più alla funzione giurisdizionale ovvero incarna un diverso tipo di funzione, più prossima a funzioni esercitate da altri organi dello Stato?

Inizio da quest’ultima domanda. Quando ottengo un risultato favorevole nella mia attività di avvocato il primo moto che mi assale è la soddisfazione per il successo. Forse quell’esito non è veramente espressione della giustizia cui tutti intimamente aspiriamo, secondo il detto di Eraclito riportato nel frammento 23 Diels: non pronunceremmo il nome della giustizia se non la conoscessimo già prima dentro di noi; eppure io come avvocato perseguivo l’esito favorevole come scopo della mia azione. Come per l’avvocato così è per il pubblico ministero, il quale persegue certamente fini di giustizia, ma sotto l’angolo visuale della realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione dei reati.

La funzione giurisdizionale esercitata dai giudici è intrinsecamente diversa dalla funzione che esercitano le parti, vuoi quella pubblica vuoi quella privata. Infatti, l’interesse pubblico a cui corrisponde la pronuncia del giudice è intrinsecamente diverso dall’interesse pubblico perseguito dalla pubblica amministrazione. Si tratta di un interesse in qualche modo imparziale, realizzato con metodi, cioè, che, «a priori», mettono sullo stesso piano l’interesse alla dignità, all’onore e alla libertà dell’accusato e l’interesse pubblico alla punizione del colpevole. La punizione del colpevole diventa funzione dell’esecutivo soltanto dopo la sentenza passata in giudicato, non prima.

Ora, l’atteggiamento di chi si pone in funzione di cacciatore di una preda – e più la preda catturata è imponente, maggiore è il merito – non è l’atteggiamento tipico chi si ponga al servizio della funzione giurisdizionale, ma di chi svolge sul campo l’attività di contrasto all’agire di coloro che violano quotidianamente la legge penale. Un pubblico ministero che cerca di catturare le prede svolge un compito più vicino concettualmente a quello della polizia che non a quello di un giudice.

La funzione del pubblico ministero implica la formazione di un atteggiamento anzitutto inquisitorio e poi formalmente accusatorio. Tale atteggiamento, anche se ricondotto a schemi teorico/pratici compatibili con il servizio alla funzione giurisdizionale, contribuisce alla creazione di una forma mentis particolare, doverosamente imperniata sulla logica del sospetto. Questa forma mentis è correlativa alla forma mentis del barrister, dell’avvocato della difesa, che si muove tra i due poli del paradosso contro-evidente e della scusa: i due poli della difesa rispettivamente nei processi indiziari e della difesa nei processi ove l’imputato è confesso ovvero è attinto da prove dirette inconfutabili. La forma mentis del sospetto, che è propria del pubblico ministero, è incompatibile con la oggettività e la neutralità quasi adiafora che deve caratterizzare la funzione del giudicare: quella indifferenza (uso il termine in chiave filosofica, di uguale e perfetta distanza dal doppio pregiudizio colpevolista o innocentista, indotto dalle più diverse fonti) che deve caratterizzare l’atteggiamento del giudice, che non si fa influenzare, o si fa influenzare il meno possibile, dalla pressione che proviene sia dall’esterno che dall’interno, cioè dalle proprie passioni, ben naturali e comprensibili, ma capaci di far deviare l’esito del giudizio dalla strada del «giusto».

4. (Segue) La forma mentis del sospetto. – La forma mentis del sospetto deve caratterizzare l’atteggiamento dell’investigatore. Senza sospetti non nascono le ipotesi investigative. Senza queste non vengono esperiti i mezzi di prova; senza l’esperimento di tali strumenti non si raggiungono le prove, contro o a favore dell’indagato. Quindi, la logica del sospetto è una logica amara – la letteratura ha sempre gettato uno sguardo ostile verso l’inquisitore – ma una logica realistica, che non può non fare i conti con la realtà degli uomini e delle donne, così come si trovano su questa terra, non immemori completamente del bene che sta in loro e che li sospinge alla ricerca buona della felicità, ma che, molto frequentemente, sono avvolti, a cagione del loro egoismo, nelle tenebre a riguardo del vero oggetto della loro felicità. Diceva il grande giurista del diritto comune Giacomo Menochio che la radice filosofica del principio, di diritto naturale, “in dubio pro reo” sta nella considerazione filosofica dell’uomo creato buono a immagine e somiglianza di Dio. Questo principio, però, si infrange quando l’evidenza convince con certezza ragionevole che quella bontà originaria, nel caso particolare, è stata perduta, perché, al di là di ogni dubbio, la singola persona ha commesso un delitto punito dalla legge.

Quindi, la logica del sospetto è la logica dell’investigatore realistico, che sa per esperienza che la trama della vita sociale è spezzata frequentemente dai più diversi eventi delittuosi, riconducibili all’avidità, all’odio, al risentimento, all’indifferenza colpevole verso il bene del prossimo. E l’investigatore realistico non crede ingenuamente alle false prospettazioni che gli indagati o i sospettati si affrettano a fornire, magari avvalorati da testi compiacenti, per stornare da sé i sospetti del delitto. Non si può elevare a demerito, bensì a merito, del pubblico ministero, se egli agisce calato all’interno di un mondo che è attraversato dai sospetti, su tutti e su ciascuno.

5. Il riflesso giuridico della forma mentis del sospetto. Nel passaggio dal Codice Rocco al Codice Vassalli del 1988 si è fatto un gran discorso sulla «svolta epocale» dal sistema cosiddetto «inquisitorio» a quello detto «accusatorio». Il discorso è stato declinato in innumerevole guise, tutte traviate da una illuministica illusione circa il tramonto inesorabile di un tempo arcaico e l’avvio di sorti magnifiche e progressive, in cui l’accertamento della verità processuale, non importa se difforme dalla verità effettiva, si sarebbe svolto nella dialettica processuale del pubblico dibattimento tra parti munite dei medesimi poteri.

Ci si dimenticò di ricordare che ogni medaglia ha il suo rovescio. Il ruolo di parte, parte pubblica, ovviamente, fu riconosciuto dal nuovo codice al pubblico ministero in tutta l’estensione concettuale e con tutti i poteri di indagine che spettano alla parte pubblica, che agisce, dunque, in vista del perseguimento di un interesse comune. Il pubblico ministero è diventato il soggetto in cui si incardina tutto il potere di investigazione, potere che si colloca a monte dell’esercizio dell’azione penale. La fase delle indagini preliminari non corrisponde all’istruttoria del codice precedente, ma è la fase dell’immenso potere del pubblico ministero di ricercare le notizie di reato e di sviluppare tutte le indagini necessarie per giungere alla decisione di esercitare o non esercitare l’azione penale: il pubblico ministero del nuovo codice non si limita a ricercare le prove del reato, che gli è stato rappresentato come ipotesi dalla polizia giudiziaria o dalla vittima del reato, ma ricerca direttamente lui i reati.

Si confrontino le disposizioni del vecchio e del nuovo codice. Il codice del 1930 iniziava con l’articolo 1, che statuiva in questi termini l’officialità dell’azione penale: “L’azione penale è pubblica e, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza, è iniziata di ufficio in seguito a rapporti, a referti, a denuncia o ad ogni altra notizia di reato”. L’articolo 2 stabiliva l’obbligo del rapporto da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria al procuratore o al pretore, limitandosi a prescrivere che esso fosse presentato “senza ritardo”. Quanto alla trasmissione del rapporto, l’art. 227 stabiliva al 1° comma che “gli ufficiali di polizia giudiziaria, terminate le loro operazioni, devono trasmettere immediatamente al procuratore della repubblica, al pretore gli atti compilati o le cose sequestrate”. Dunque, l’obbligo di trasmettere il rapporto sorgeva soltanto una volta che fossero “terminate” le operazioni di polizia giudiziaria. Quanto alle funzioni di quest’ultima, l’art. 219 prevedeva che “La polizia giudiziaria deve anche di propria iniziativa prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, assicurarne le prove, ricercare i colpevoli e raccogliere quanto possa servire all’applicazione della legge penale”. Quanto alla subordinazione rispetto agli organi del pubblico ministero, l’art. 220 stabiliva che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria esercitano le loro attribuzioni alla dipendenza e sotto la direzione del procuratore generale e che essi devono eseguire gli ordini del giudice istruttore e del pretore. Ma la loro subordinazione all’attività giudiziaria era mediata (comma 2 dell’art. 220) attraverso la concentrazione della responsabilità nell’ufficiale di polizia giudiziaria più elevato in grado, il quale era responsabile davanti al procuratore generale, al procuratore e al pretore dell’opera degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria da lui dipendenti. Il sistema delle indagini preliminari all’istruzione (così la definizione della rubrica dell’art. 214) era prevalentemente nelle mani della polizia giudiziaria, cioè del potere esecutivo. Ciò non in modo assoluto, naturalmente, perché l’autorità giudiziaria (procuratore generale, procuratore della repubblica, pretore) aveva il diritto e il dovere di controllare e sindacare l’operato della polizia giudiziaria.

Quindi, dal punto di vista del rapporto tra poteri dello Stato, il modello fisiologico era: il compito di investigazione spetta al potere esecutivo sotto il controllo del potere giudiziario. La selezione ordinaria della materia potenzialmente di rilevanza penale era di competenza del potere esecutivo. Questa selezione non era arbitraria, perché sottoposta al controllo dell’autorità giudiziaria; ma la vastissima sfera dell’operare discrezionale era appannaggio della polizia giudiziaria. Che poi, il pubblico ministero prendesse la notizia di reato in via generale grazie al rapporto della PG o alla denuncia del privato, era evidente. Che egli prendesse notizia autonomamente, attraverso un’attività propria, era possibile (art. 1: o ad ogni altra notizia di reato), ma costituiva una eccezione, che sorgeva dalla circostanza che, svolgendo l’istruzione su una notizia ricevuta da altri, egli, attraverso l’approfondimento compiuto, pervenisse a scoprire ulteriori notizie di reato. In questo quadro l’esercizio dell’azione, sul materiale penale confezionato prevalentemente dall’autorità di polizia giudiziaria, era realisticametne definibile come obbligatorio.

Il modello è stato completamente cambiato con il codice Vassalli. Bastino alcuni cenni. L’art. 326, nell’indicare le “Finalità delle indagini preliminari”, statuisce che “il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale” e l’art. 327, sotto la rubrica “Direzione delle indagini preliminari”, statuisce che “Il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria”, praticamente precludendo alla PG di svolgere autonomamente indagini. Soltanto con l’art. 7 della legge 26 marzo 2001, n. 128 ci fu l’aggiunta a tale articolo di una seconda parte, in base a cui la PG “anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa secondo le modalità indicate nei successivi articoli”. Quanto alla ricezione della notizia di reato, l’art. 330 stabilisce che “Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse a norma degli articoli seguenti”. Quanto all’obbligo della polizia giudiziaria di riferire al pubblico ministero la notizia di reato, l’art. 347 stabilisce che la polizia giudiziaria trasmetta senza ritardo a quest’ultimo la semplice notizia di reato, indipendentemente e prima del compimento di indagini, ma semplicemente con “gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti”. Il quadro normativo impone di dire, in via generale e assorbente, che il pubblico ministero è il soggetto cui spetta tutto il potere, in prima persona e con l’ausilio della polizia alle sue dipendenze dirette, di svolgere indagini, ivi compreso il potere, espressamente riconosciutogli dall’art. 330, di prendere le notizie di reato “di propria iniziativa”.

6. La realtà giuridica della disciplina processuale vigente. Le considerazioni svolteimplicano tre conseguenze importanti:

  • la selezione delle notizie di reato è compiuta dal P.M., su cui si è trasferito l’immenso potere selettivo in precedenza condiviso con la P.G.;
  • con l’enorme mole del materiale penale che perviene al suo ufficio, senza previa indagine e selezione, è divenuto irrealistico il principio dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale;
  • non vi è alcun potere che controlli la discrezionalità del P.M. nell’esercizio dell’azione penale. Mentre in antecedenza l’organo selettore sentiva su di sé il fiato dell’organo abilitato a controllarlo, oggi l’organo del P.M. non ha sopra di sé nessuno che lo controlli in ordine alla legittimità dell’esercizio del suo immenso potere.

Sotto il profilo culturale, poi, come detto in apertura, la natura dell’attività del P.M. si è trasformata: da organo che vagliava, con occhio pre-giurisdizionale, la fondatezza della notitia criminis a lui trasmessa, a organo che ricerca e seleziona, direttamente e in via esclusiva, la notitia criminis, acquisendo in prima persona quel ruolo di parte, connotato da un interesse istituzionale, (in quanto propria dell’ufficio), nonché da un interesse personale (la dimostrazione della validità della propria attività investigativa) al «successo» della propria investigazione.

7. La necessità giuridica e costituzionale della separazione dei ruoli. Dunque, se il P.M. è una parte connotata da un interesse giuridicamente qualificato alla realizzazione dell’istanza punitiva, nonché da un interesse personale alla convalida giudiziaria della propria ipotesi investigativa (il che implica inevitabilmente un giudizio sulle sue capacità di intuizione investigativa e di abilità giuridico/processuale), è evidente che il suo ruolo va rigorosamente separato dal ruolo dei giudici.

Oggi non si tratta di pronunciarsi sul punto se il sistema attuale sia migliore del sistema di ieri; né si può prendere un po’ di quel che valeva ieri e un po’ di quel che vale oggi, come vuole una parte degli appartenenti alla classe dei pubblici ministeri; bensì, esclusivamente, di prendere atto che il sistema è radicalmente cambiato e che occorre trarre tutte le conseguenze logiche inerenti a tale cambiamento. Da un sistema in cui il potere del pubblico ministero faceva corpo stretto con l’attività di tipo rigorosamente giurisdizionale, e i poteri di indagine spettavano prevalentemente alla polizia giudiziaria, controllata dal pubblico ministero, si è passati a un sistema in cui quest’ultimo è il protagonista assoluto dell’indagine.

Questo ruolo protagonistico deve trovare dei contrappesi istituzionali. Il primo sta nel riconoscimento di un ruolo assolutamente terzo e separato dei pubblici ministeri rispetto all’autorità giurisdizionale. Questa separazione deve concernere anche gli organi deputati al sistema delle promozioni, degli affidamenti degli incarichi e del controllo delle situazioni di incompatibilità ambientale. Perché non è possibile una vera indipendenza dei giudici, se non viene assicurata loro l’indipendenza rispetto a coloro che fruiscono del potere di indagine e di controllo di legalità anche nei loro confronti.

Attualmente l’unico potere assolutamente indipendente, disancorato da ogni controllo, che non sia quello giurisdizionale dei giudici, è il potere dei pubblici ministeri. E’ urgente, proprio per assicurare la piena indipendenza alla funzione  giurisdizionale dei giudici, che essi siano sottratti al condizionamento implacabile che su di loro esercitano i pubblici ministeri attraverso la partecipazione comune al medesimo Consiglio Superiore della Magistratura. La sfida che oggi occorre avere il coraggio di lanciare, con un atto di fiducia, ancora una volta, nell’autorità giudiziaria, è che il potere dei pubblici ministeri sia controllato, nel risultato della loro attività d’indagine – ora che non è più controllato da alcuno – da un corpo di giudici non condizionato dall’organo dell’investigazione.

8. Il potere dell’organo dell’investigazione e il suo controllo. Ciò è tanto più importante quanto più si è accresciuto, quantitativamente e qualitativamente, il potere del pubblico ministero. Oggi tale potere è immenso. Si pongono con urgenza vari problemi, legati all’esercizio, trasparente e controllabile, di questo immenso potere. Per un versante, quello del giudizio dibattimentale, è indispensabile garantire, come ho prima detto, l’indipendenza dei giudici. Per la parte che non confluisce nel giudizio dibattimentale, occorre tener conto almeno dei seguenti problemi:

  • il controllo sulla discrezionalità selettiva dei pubblici ministeri in ordine all’acquisizione e alla gestione della notitia criminis;
  • il controllo della difesa sui fascicoli stralciati, che riguardano la stessa notitia criminis, trattata con riferimento a soggetti diversi in procedimenti diversi;
  • il controllo di legittimità sugli atti che confluiscono nei riti alternativi e che vengono definiti attraverso le vie brevi, senza il contraddittorio a riguardo della formazione della prova;
  • il controllo di legittimità e di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e ambientali, che la giurisprudenza ha esteso ben al di là del loro profilo originario. La differenza tra la situazione attuale e quella del 1988 è straordinaria. Il tema della invasività dell’attività investigativa e della limitazione delle libertà fondamentali del cittadino deve stare al centro di un serio processo di riforma.

9. Conclusione. Va detto conclusivamente che la separazione dei ruoli è oggi una indispensabile, seppur insufficiente, garanzia contro lo straripamento dei poteri dei pubblici ministeri. Sorprende, perciò, da un lato, la resistenza al cambiamento ancora oggi proveniente da una certa parte dei giudici. Essi troverebbero, invece, nella separazione una forte garanzia della propria indipendenza. Sorprende, da un altro lato, la tremebonda ritrosia degli avvocati nel fare della separazione dei ruoli un importante obiettivo istituzionale dell’avvocatura.

Se, infine, è incontestabile che nella realtà attuale l’azione penale, non per contingenti e transitori motivi, bensì per precise ragioni strutturali, non è ragionevolmente «obbligatoria», è opportuno che il modello organizzativo dell’attività dei pubblici ministeri si adegui al tipo di funzione esercitata. Il loro modello organizzativo non può essere quello caratteristico del giudice, bensì quello di un ufficio complesso, in cui un dirigente coordini l’attività di tutti i componenti, secondo l’ottica del perseguimento di obiettivi, rispondendo pubblicamente dei risultati conseguiti e dei criteri adottati in concreto nell’esercizio dell’azione penale, alla luce delle caratteristiche criminologiche e delle istanze di tutela proprie del territorio in cui è svolta l’attività istituzionale. In questo quadro rinnovato anche l’ufficio del pubblico ministero, senza perdere la propria indipendenza dal potere esecutivo, dovrà essere sottoposto al controllo ispettivo del ministro della giustizia, in maniera più pregnante di quanto non accada oggi, soprattutto in ordine all’uso delle risorse impiegate e dei risultati conseguiti. I criteri in ordine alle priorità nell’esercizio dell’azione penale dovranno, altresì, essere pubblici e trasparenti, affinché il Parlamento, cui il ministro dovrà riferire in base alle relazioni trasmesse dagli uffici di procura, possa controllare la ragionevolezza di politica criminale delle scelte effettuate e l’attuazione dell’operatività pratica in modo conforme agli enunciati programmatici.

In tal modo, garantite in massimo grado l’indipendenza, l’autonomia, la imparzialità e la terzietà del giudice, gli uffici della procura si raccorderanno, sempre preservando la propria indipendenza, con gli altri poteri dello Stato, pure essenziali al fine della realizzazione dei fini di una giustizia condivisa da tutti i cittadini.

prof. Mauro Ronco

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