Prosegue il dibattito aperto dalle riflessioni del presidente Pietro Dubolino sulle riforme nel rapporto fra P.M. e polizia giudiziaria, seguito dall’intervento del prof. Gaetano Galluccio Mezio, della LUISS, e dal contributo del prof Mauro Ronco: oggi vi è la ragionata replica del pres. Dubolino. Nell’attesa della necessaria riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM, i tempi di realizzazione appaiono tutt’altro che definiti, che cosa si può fare se non eliminare, o quanto meno ridurre, con limitati interventi di tipo chirurgico, il danno prodotto dall’incontrollato potere discrezionale dei pubblici ministeri?
1. Ringrazio, anzitutto, il prof. Mauro Ronco (https://www.centrostudilivatino.it/le-ineludibili-riforme-di-struttura-30-anni-dopo-il-nuovo-codice-proc-penale/) e l’avv. Gaetano Galluccio Mezio (https://www.centrostudilivatino.it/perche-per-la-giustizia-penale-sono-necessarie-riforme-di-struttura/) per l’attenzione che hanno voluto dedicare al mio scritto comparso su questo sito il 4 maggio u.s. (https://www.centrostudilivatino.it/per-limitare-il-sistema-verso-un-p-m-con-minore-discrezionalita/) e per le osservazioni, in parte critiche ma non per questo meno gradite, alla tesi di fondo in esso sostenuta che, in estrema sintesi, è la seguente: il potere conferito al pubblico ministero dall’art. 330 c.p.p. di acquisire di sua iniziativa le notizie di reato, e quindi di svolgere attività d’indagine volta alla loro ricerca, sulla base anche di quelli che possono essere meri e gratuiti sospetti, implica l’attribuzione allo stesso pubblico ministero di una sfera di enorme ed incontrollata discrezionalità, inevitabilmente destinata ad assumere anche connotazioni più o meno apertamente politiche, senza che ad essa faccia da contrappeso una qualsiasi forma di responsabilità politica; il che costituisce una grave anomalia alla quale può porsi rimedio soltanto riportando il pubblico ministero (ove si voglia mantenerne l’indipendenza dall’Esecutivo) alla funzione di organo preposto alla sola ricezione e non alla ricerca delle notizie di reato, secondo il modello delineato dal vecchio codice di procedura penale, quale implicitamente recepito anche nella Costituzione, specie con la previsione, all’art. 112, dell’obbligatorietà dell’azione penale, sulla scia della già intervenuta eliminazione, con il D.L.vo Lgt. N. 288/1944, del c.d. potere di “cestinazione” delle notizie di reato che al pubblico ministero era stato conferito durante il regime fascista.
Può qui aggiungersi, ad ulteriore sostegno di quanto sopra affermato, che l’eliminazione del potere d’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca ed acquisizione delle notizie di reato ridurrebbe di molto anche il pericolo della instaurazione di procedimenti penali sulla base di elementi non dotati di adeguata consistenza; pericolo nascente dal fatto che non opera, per il pubblico ministero, la remora che opera invece per qualsiasi altro soggetto, pubblico o privato ed è costituita dalla consapevolezza, da parte sua, di poter essere chiamato a rispondere di calunnia ove quanto da lui rappresentato con denuncia, querela, istanza o richiesta all’autorità giudiziaria o ad altra che ad essa abbia obbligo di riferire si riveli privo di fondamento.
2. Ora, che il problema costituito dalla suaccennata anomalia esista, mi pare sia stato sostanzialmente riconosciuto tanto dal prof. Ronco quanto dall’avv. Galluccio Mezio, i quali però prospettano, per la sua soluzione, rimedi diversi da quello sopraccennato. E ciò anche in considerazione del pericolo, richiamato in particolare dall’avv. Galluccio Mezio, che la sottrazione al pubblico ministero del potere di ricercare ed acquisire d’iniziativa le notizie di reato abbia come effetto quello di “traslare l’ineliminabile ambito di discrezionalità che si annida nell’attività di ricerca e selezione delle notizie di reato dagli uffici del pubblico ministero ai circuiti investigativi; vale a dire in capo ad organi il cui inquadramento nell’alveo del potere esecutivo rischierebbe di nuocere, a sua volta, all’equilibrio e al reciproco controllo tra poteri dello stato, ponendo in un cono d’ombra, sottratto a meccanismi di controllo effettivo, ad esempio, gli abusi polizieschi o i reati posti in essere dai membri del Governo”.
3. Dovendosi quindi esaminare per prima tale obiezione, la cui pregiudiziale rilevanza appare di assoluta evidenza, mi sembra di poter anzitutto affermare che essa muove da un presupposto che, ancorché avallato dal richiamo ad autorevole dottrina, appare nondimeno inesatto: quello, cioè, che, una volta escluso il potere d’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca delle notizie di reato, quest’ultima sarebbe riservata, “in via esclusiva”, alla polizia giudiziaria. Al riguardo appare sufficiente osservare che l’attività di vera e propria “ricerca” delle notizie di reato non è specificamente prevista e disciplinata da alcuna norma e può essere quindi effettuata (alla sola condizione che non vengano violati espressi divieti di legge), non solo dalla polizia giudiziaria (cui compete, ex art. 55 c.p.p., il compito di “prendere notizia” dei reati, “anche di propria iniziativa”), ma anche da qualunque altro soggetto, pubblico o privato che sia, il quale ne potrà quindi riferire l’esito anche direttamente al pubblico ministero, sotto forma, a seconda dei casi, di denuncia, querela, istanza o richiesta.
Da notare, poi, che la persona offesa da quello che ritiene, a torto o a ragione, essere stato un reato commesso in suo danno, oltre a potere, come è ovvio, darne notizia immediata al pubblico ministero, può anche nominare, ai sensi dell’art. 101 c.p.p., un difensore, il quale è, tra l’altro, abilitato, ex art. 391 nonies c.p.p., a svolgere “attività investigativa preventiva”, con esclusione dei soli atti che “richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria”. E ciò ha tanto maggior valore in quanto esistono, nell’attuale realtà sociale, numerosi ed agguerriti organismi rappresentativi di interessi collettivi i quali non mancano della capacità e dei mezzi per promuovere, a tutela dei propri aderenti, quel tipo di attività investigativa.
4. Per quanto concerne, poi, la paventata impunità degli “abusi polizieschi” o “dei reati posti in essere dai membri del Governo”, in conseguenza dell’ esercizio della discrezionalità, anche politica, da parte di organi investigativi dipendenti dall’Esecutivo o ad esso comunque collegabili, vi è da dire che tale esercizio non sarebbe certo sottratto, in un regime democratico come è quello italiano, ad efficaci e penetranti controlli, quali esperibili, in particolare, dai membri del Parlamento, ciascuno dei quali può chiamare il ministro competente a rispondere pubblicamente del modo con il quale quella discrezionalità è stata esercitata ed a rendere conto degli eventuali abusi, favoritismi, omissioni etc.
Cosa, questa, che non è possibile con riguardo alla discrezionalità politica della quale, di fatto, dispone il pubblico ministero, perché quest’ultimo non ha responsabilità politiche e nessun altro organo, ivi compreso il ministro della giustizia, ha titolo per rispondere, in sede politica, del suo operato. D’altra parte anche gli eventuali reati ascrivibili ad appartenenti alla Polizia, a membri del Governo od a qualsiasi altro soggetto investito di pubbliche funzioni difficilmente potrebbero essere commessi senza che qualcuno, ed in particolare la persona offesa o danneggiata, ne venisse a conoscenza e potesse quindi farne oggetto di denuncia al pubblico ministero, al quale rimarrebbe comunque l’obbligo di prenderla in esame e chiedere su di essa la pronuncia di un giudice, previo espletamento, se del caso, delle necessarie indagini a mezzo della polizia giudiziaria che da lui, comunque, continuerebbe a dipendere.
5. Passando quindi ad esaminare, a questo punto, le proposte alternative che sono state prospettate, e cominciando da quella costituita dalla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti, sostenuta tanto dal prof. Ronco quanto dall’avv. Galluccio Mezio, va riconosciuto che molte e valide sono le ragioni che militano a suo favore, quali illustrate, in particolare, dal prof. Ronco, nel quadro, però, di quella che dovrebbe essere una globale riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura, con possibili riflessi anche sui poteri del pubblico ministero in materia di acquisizione delle prove tra cui, in particolare, quelle derivanti da intercettazione di comunicazioni. Ma nell’attesa di una tale riforma, le cui linee ed i tempi di realizzazione appaiono tutt’altro che definiti, che cosa si può fare se non cercare di eliminare o, quanto meno, di ridurre, con limitati interventi di tipo chirurgico, il danno prodotto dall’incontrollato potere discrezionale dei pubblici ministeri?
Ed è appunto un intervento di tal genere quello che dovrebbe essere costituito dalla soppressione della norma che più delle altre ha reso possibile l’affermarsi di quel potere, vale a dire l’art. 330 c.p.p. nella parte in cui prevede la possibilità, per il pubblico ministero, di acquisire (e quindi ricercare) di propria esclusiva iniziativa le notizie di reato; soppressione, quella anzidetta, che, d’altra parte, renderebbe meno urgente proprio la separazione delle carriere, posto che essa riporterebbe, almeno tendenzialmente, il pubblico ministero ad essere non più un mero portatore degli interessi dell’accusa, condizionato da quella che il prof. Ronco giustamente definisce come la “forma mentis del sospetto”, ma piuttosto, come già lo qualificava Giovanni Leone, “un giudice che chiede giustizia”.
6. Analoghe considerazioni sembra possano poi valere con riguardo all’altra proposta, che pure è stata avanzata, di una rivisitazione dell’obbligo di esercizio dell’azione penale previsto dall’art. 112 della Costituzione; rivisitazione che potrebbe essere anch’essa riguardata come opportuna, sempre nel quadro della ipotetica, globale riforma di cui si è detto, ma che, “rebus sic stantibus” ed in assenza dell’eliminazione del potere di iniziativa del pubblico ministero nell’acquisizione e nella ricerca delle notizie di reato, rischierebbe semmai di accrescere e non di ridurre la già abnorme sfera di incontrollata discrezionalità di cui il pubblico ministero, come si è visto, attualmente dispone.
D’altra parte l’obbligatorietà dell’azione penale, in presenza di notizie di reato che non risultino infondate, ben si concilia proprio con l’attribuzione al pubblico ministero del ruolo di mero ricettore di quelle notizie che a lui siano fatte pervenire in uno dei modi previsti dal codice di rito, mentre mal si concilia con l’assoluta discrezionalità dell’attività che il pubblico ministero può svolgere, secondo l‘attuale disciplina, per verificare l’effettiva esistenza di reati che egli abbia soltanto, di sua iniziativa, ipotizzato. Con riguardo a tale attività appare, peraltro, assai difficile prospettare, proprio a cagione delle sue ineliminabili connotazioni “lato sensu” politiche, controlli che non siano, a loro volta, politici e quindi incompatibili con l’indipendenza che a tutti i magistrati, e quindi anche a quelli del pubblico ministero, deve ritenersi garantita dall’art. 104 della Costituzione. Di qui la impraticabilità, a mio giudizio, una volta riconosciuta l’esistenza del problema che ne occupa, di soluzioni che, in assenza di valide e realistiche prospettive di riforme globali, siano diverse da quella costituita dalla pura e semplice eliminazione della norma dalla quale può ragionevolmente ritenersi che quel medesimo problema abbia avuto origine.
Pietro Dubolino