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Aiuto al suicidio: conseguenze e prospettive dopo la sentenza della Corte costituzionale

Aiuto al suicidio: conseguenze e prospettive dopo la sentenza della Corte costituzionale

Nella mattinata di oggi si svolge a Roma, organizzato da Amci-Associazione medici cattolici, col patrocinio della Federazione degli Ordini dei medici e in collaborazione con Polis pro persona il convegno Medicina e sanita’ ai confini della vita: il ruolo del medico. Pubblichiamo la relazione di Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Studi Livatino, su Conseguenze e prospettive dopo la sentenza della corte costituzionale 242 del 2019.

 

MEDICINA E SANITA’ AI CONFINI DELLA VITA: IL RUOLO DEL MEDICO
convegno

CONSEGUENZE E PROSPETTIVE DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 242 DEL 2019
relazione di A. Mantovano, magistrato – vicepres. Centro studi Livatino

 

Roma 30 gennaio 2020 – AMDG

 

  1. Modalità e condizioni dell’aiuto al suicidio. La sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale non ha ritenuto tout court l’illegittimità dell’art. 580 cod. pen. nella parte in cui esso sanziona l’aiuto al suicidio: la declaratoria di incostituzionalità dell’espressione “ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”, contenuta nella norma incriminatrice, è circoscritta e subordinata al rispetto di determinate modalità e condizioni. Le modalità sono quelle previste dagli art. 1 e 2 della L. 219/17 sulle disposizioni anticipate di trattamento, e consistono nel consenso informato e nel previo ricorso alle cure palliative ed eventualmente alla sedazione profonda continua. Le condizioni sono che:
  2. la persona abbia formato il proposito suicidiario in modo autonomo e libero, in piena consapevolezza e capacità;
  3. sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale;
  4. sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili;
  5. le condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale;
  6. il “comitato etico territorialmente competente” esprima il suo preventivo parere.

Nel mio intervento non mi soffermerò né sulla sentenza nel suo insieme, né sui suoi discutibili presupposti, né sull’anomalia della scelta c.d. di “riempimento costituzionale” da essa rivendicata, e nemmeno sui suoi passaggi fortemente incoerenti. Mi limiterò a qualche cenno sulle sue eventuali ricadute per il ruolo del medico: in coerenza col tema del convegno e nella prospettiva, da più d’uno evocata, di un adeguamento del codice deontologico a quanto la sentenza dispone. Non parlerò neanche delle cure palliative, oggetto di un’altra relazione, pur se esse incidono sul ruolo del medico nell’aiuto al suicidio, poiché sono qualificate dalla Consulta pre-requisito di ogni trattamento di fine vita.

 

  1. Coscienza del singolo medico per ogni trattamento di fine vita. La sentenza esprime delle certezze, a fianco di passaggi che, al netto di considerazioni di ordine etico, destano perplessità, o comunque lasciano confusi.

Parto intanto dai dati certi. Il § 6 del “considerato in diritto” della pronuncia della Consulta esclude nel modo più esplicito l’obbligo in capo al medico di aiutare al suicidio un paziente che a lui si rivolga. Aggiunge, anzi, che “resta affidato (…) alla coscienza del singolo medico (…) se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”.  Sarebbe improprio definire questo passaggio come un riconoscimento di obiezione di coscienza: la Consulta sembra andare oltre e allargare la prospettiva. Finora, in tutti i casi in cui è previsto il diritto di obiezione – si pensi per il medico alla L. 194/78 – l’ordinamento lo ha disciplinato in modo rigido, esigendo una formale dichiarazione dell’obiettore, cui segue un sistema di preclusioni alle attività che egli può compiere, e di decadenze e sanzioni. L’assenza del medico obiettore dall’intero procedimento dell’ivg (salvi casi eccezionali) contribuisce a spiegare il fallimento della fase di prevenzione/dissuasione, pur prevista dagli art. 4 e 5 della legge sull’aborto: si è tradotta di fatto nella strutturale assenza di una prospettazione pro life al momento dell’incontro fra la gestante e il medico, che è sempre non obiettore.

La sentenza 242 non solo non subordina la scelta del medico di non agevolare il suicidio ad alcuna formale dichiarazione – sì che egli, a differenza di quanto accade nella L. 194/78, non riceve l’altrettanto formale qualifica di “obiettore” -, ma gli riconosce la valutazione caso per caso, avendo come faro esclusivo la propria “coscienza”. La “coscienza del singolo medico”, a sua volta, non è anarchica: i suoi parametri di riferimento costituiscono il codice deontologico della professione che esercita, nel caso specifico l’art. 17. Perché allora modificare tale codice quando a esso la sentenza rinvia in modo così diretto, poiché individua la fonte normativa nella coscienza del medico, a sua volta appartenente a un Ordine che garantisce l’osservanza di regole professionali?

Per quello che è l’intero impianto della sentenza 242, il richiamo della Consulta alla coscienza del medico e alla inesistenza di un obbligo a suo carico sembra estendersi poi a ogni trattamento di fine vita, anche quello in attuazione di una dat-disposizione anticipata di trattamento. L’intera sentenza fissa infatti una linea di continuità fra la disciplina delle dat e l’aiuto al suicidio: non è arbitrario sostenere che se la sentenza 242 presenta sé stessa come lo sviluppo logico della legge n. 219/2017, vada riconosciuto il pieno dispiegamento della coscienza del medico pure a fronte della esecuzione di dat.

Non rappresenta un ostacolo in tal senso che la legge n. 219/2017 non riconosca espressamente il diritto di obiezione: neanche la sentenza 242 lo riconosce perché, come si è visto, va oltre. In tal senso, la Corte implicitamente – e senza che tale esegesi costituisca una forzatura – risolve l’apparente contrasto fra il dettato dell’art. 4 co. 5 della legge 219 – “il medico e’ tenuto al rispetto delle DAT” – e quanto invece stabilisce l’art. 1 co. 6 parte seconda: “(…) Il paziente non può esigere trattamenti  sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.

E’ ancora una volta decisivo il rinvio alla “deontologia professionale”, che si lega “alla coscienza del singolo medico” di cui alla sentenza 242. L’approfondimento da compiere, allorché dapprima una legge dello Stato – la n. 219/2017 – e poi una sentenza che di fatto scrive una nuova disposizione di legge – il nuovo art. 580 cod. pen. – rinviano alla disciplina propria della professione medica, è quella del peso e della prevalenza di questa disciplina rispetto a fonti normative che parrebbero a essa sovraordinate. Proprio in questa sala, su iniziativa del Centro studi Livatino, nel settembre 2019 si è svolto un workshop su deontologia del medico e legge dello Stato, con riferimento alla questione del fine vita, che ha visto fra i relatori il dott. Muzzetto. Ricavo le poche considerazioni di ordine generale che seguono dall’ampia relazione svolta nell’occasione dal prof. Colavitti: egli ovviamente non ha alcuna responsabilità per la sintesi che ne farò. Ma rimando alla sua interezza per la più compiuta articolazione.

 

  1. La sentenza 242 esige una modifica del codice deontologico medico? Vi è un primo livello di riflessione, che già potrebbe chiudere la partita: sia la sentenza che la legge parlano di “coscienza del singolo medico” e di “deontologia professionale”. Se il riferimento è con tutta evidenza all’attuale codice deontologico, incluso il suo art. 17, perché cambiarlo? La Consulta non lo auspica nemmeno per incidens, sì che l’eventuale timore di non dare attuazione all’intero dispositivo della sentenza 242 in virtù di un altrettanto eventuale massiccio rifiuto dei medici italiani di dare seguito a richieste di aiuto al suicidio, andrebbe oltre il dictum della Corte.

Si potrebbe replicare che la stessa Corte inserisce ogni trattamento di fine vita all’interno del Servizio sanitario nazionale, parlando di “verifica in ambito medico” della richiesta di aiuto al suicidio. E qui ci si imbatte in una confusione che non spetta certamente al singolo medico, o al suo Ordine, risolvere, perché sta tutta nella sentenza 242 e nell’inserimento di essa nell’ordinamento. E’ doveroso osservare: a) che la sentenza non riproduce a proposito del SSN quel che la L. 194/78 – all’art. 9 co. 4 – pone a carico della struttura sanitaria perché garantisca la pratica dell’ivg; b) che tale obbligo non è ricavabile dal sistema, se è vero che l’art. 1 co. 2 della L. 833/78 definisce il “servizio sanitario nazionale” come “il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la  popolazione”. A quale degli obiettivi propri del SSN – la promozione, il mantenimento, il recupero della salute – si ascrive l’aiuto che il medico è chiamato a dare al suicidio? La Consulta non lo spiega; prima del codice deontologico non dovrebbe forse cambiare la legge istitutiva del SSN? Non lo auspico, indico un percorso logico.

Di più. Aggiungendo un comma virtuale all’art. 580 cod. pen., la sentenza ha costruito una condizione obiettiva di non punibilità: con la 242 la norma in questione contiene una previsione integrativa in base alla quale se taluno – obbligatoriamente un medico del SSN – agevola altri nell’intento suicidiario è esente dalla sanzione prevista dalla norma (che – lo ripeto – è rimasta legittima e vigente, salva la deroga indicata), purché la sua condotta rispetti le modalità e le condizioni ricordate al § 1. Poiché la sede unica di verifica della ricorrenza o meno di una condizione obiettiva di punibilità è il procedimento penale, il medico verrà iscritto iscritto nel registro degli indagati per il reato di aiuto al suicidio: il giudice verificherà quindi se ai fini dell’archiviazione o del proscioglimento sussistano le modalità e le condizioni indicate dalla Consulta. In questo quadro, che senso avrebbe affievolire il presidio del codice deontologico, e in particolare dell’art. 17, per un medico che ben può decidere di rifiutare l’aiuto all’altrui suicidio, oltre che per preminenti ragioni di principio, anche per non essere coinvolto in un procedimento penale?

 

  1. Codice deontologico e legge dello Stato: obbligatoria subordinazione? Ma vi è un secondo livello di riflessione. Ribadisco che qui non vi è un contrasto fra legge dello Stato, o atto equivalente (nella specie una sentenza della Consulta) e attuale codice deontologico: vi è una ipotesi di difficoltà operativa, che è qualcosa di diverso. Immaginiamo pure però che taluno colga un contrasto: siamo così sicuri dell’assoluto e incondizionato primato della legge sul codice deontologico? Il primato della legge è la soluzione certamente più semplice; ma è la più coerente col nostro ordinamento costituzionale, improntato dal pluralismo delle formazioni sociali e dal principio di sussidiarietà di cui agli art. 2, 5 e 118 Cost.? In anni recenti è stata forte la spinta “mercatista”, che ha portato a individuare nei professionisti qualcosa di equivalente alle imprese, e nei loro Ordini delle semplici associazioni rappresentative di imprese, con la conseguenza che il codice interno a ciascun Ordine si riduce a disciplinare la concorrenza fra chi ne è iscritto. Il buon senso e il senso della storia italiana, di marcato rispetto – con l’eccezione di qualche periodo non propriamente felice – per l’autonomia dei corpi sociali intermedi, dovrebbe respingere una lettura così riduttiva.

Le disposizioni del codice deontologico di qualsiasi professione, e quindi anche di quella medica, riempiono di specificità le norme di ordine più generale contenute nella legge, integrandole e declinandole nel settore di riferimento: non sono esclusivamente norme etiche, hanno un tratto di giuridicità, tant’è che la loro violazione determina conseguenze di carattere sanzionatorio. Le Sez. Un. civili della Cassazione (sentenza n. 26810 del 20/12/2007 Rv. 601011-01) ne hanno riconosciuto il carattere di fonti normative, se pur integrative del precetto normativo; il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava il codice disciplinare degli avvocati, ma il principio vale alla stessa maniera per i medici. La legge n. 3/2018, di delega per il riordino delle professioni sanitarie, all’art. 1 qualifica “gli Ordini e le relative Federazioni nazionali” come “organi sussidiari dello Stato”, ricorda che hanno “autonomia (…) disciplinare”, e collega “l’indipendenza, l’autonomia e la responsabilità delle professioni” ai “codici deontologici”. Catalogare le disposizioni deontologiche come in tutto subordinate alla legge significa per un verso avallare una visione statalistica del diritto, negando rilievo all’autonomia dei gruppi sociali, e quindi al pluralismo dell’ordinamento, per altro verso delineare una sorta di “etica di Stato”, con la sottoposizione a quest’ultimo di quella coscienza che chiama in causa la professionalità e l’autonomia del medico.

Non può essere una legge dello Stato o una sentenza della Consulta a stabilire che cos’è la professione medica, prescindendo dalle norme di tradizione plurimillenaria che l’Ordine ha maturato al proprio interno: non può esserlo senza ledere al tempo stesso l’etica del medico, e quella relazione con l’Ordine di riferimento su cui si fonda la fiducia dell’assistito. La distorsione è ancora più grave per le norme del codice deontologico – l’art. 17, che attiene al diritto alla vita, è una di esse – per le quali il collegamento fra etica, professionalità e principi fondanti dell’ordinamento è particolarmente stretta.

 

  1. L’intervento dei comitati etici territoriali. Nella pronuncia della Consulta vi è un ulteriore elemento che genera confusione: a conclusione del § 5 del “considerato in diritto” la Corte “richiede (…) l’intervento di un organo collegiale terzo (…) il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti”. Il riferimento normativo nella sentenza è alla disciplina dei comitati etici contenuta nella legge n. 189/2012 (di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158), e al decreto del ministro della Salute 8/02/2013. L’art. 12 co. 10 del d.l. fissa la competenza di ciascun comitato in relazione “alle sperimentazioni cliniche dei medicinali” e per “ogni altra questione sull’uso dei medicinali”; l’art. 1 del d.m., premesso che i comitati etici “hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere delle persone in sperimentazione”, aggiunge che “possono svolgere anche funzioni consultive in relazione a questioni etiche connesse con le attività scientifiche e assistenziali, allo scopo di proteggere i valori della persona”.

A costo di essere noioso, chiedo in quella delle finalità o delle aree spettanti ai comitati etici territoriale si inserisce l’attività di aiuto al suicidio, dal momento che ognuno dei compiti delineati dalle norme menzionate dalla stessa Corte presuppone l’esistenza in vita della persona, o quanto meno un’azione non tesa a favorirne la morte. Del capovolgimento di mission dei comitati etici la Corte pare avere consapevolezza se collega il loro intervento “al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili vale alternative terapeutiche”: realizzando così una ardita estensione del concetto di “uso compassionevole di medicinali” ai prodotti che provocano rapidamente la morte.

Ma dalla sentenza 242 emerge una ulteriore difficoltà, che fa porre una ulteriore domanda: di quali comitati etici stiamo parlando? La Consulta fa riferimento a quelli disciplinati da disposizioni risalenti al 2012/2013; sappiamo però che la legge n. 3/2018 ha delegato il riordino dei comitati etici territoriali, riducendone il numero a 40 in tutta Italia e fissando un termine, scaduto da quasi due anni, per provvedervi, e istituendo all’AIFA il Centro di coordinamento nazionale. Con una organizzazione ancora in corso, che incontra resistenze da parte delle regioni, nessuna delle quali intende sopprimere comitati etici nel proprio territorio, resta oscuro quali comitati territoriali – il riordino avviene a costi invariati – e in che modo e con quali professionalità al loro interno corrisponderanno alle poche e generiche indicazioni sui loro compiti inerenti al fine vita contenuti nella sentenza.

I Padri della spiritualità cristiana – è l’unico riferimento non laico che mi permetto, in conclusione – esortano a non fare mutamenti, soprattutto se importanti, in contesti di confusione: non in commotione Dominus, ammonisce la S. Scrittura (1 Re 19,11). Qui gli elementi di confusione sono tanti, e meritano di essere chiariti, tanto più in una materia così delicata, al confine fra la vita e la morte. Finché la nebbia non si dissolve è prudente non cambiare strada.

Sul suicidio assistito la Consulta ha imboccato una via allarmante

Sul suicidio assistito la Consulta ha imboccato una via allarmante

Fine della “leale collaborazione istituzionale”

di Alfredo Mantovano, da Tempi di dicembre 2019 p. 23.

Nella vicenda conclusa con la sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito l’attenzione si è concentrata – come era comprensibile – sull’ulteriore varco che essa ha aperto verso derive di morte. Vi è però un passaggio, solo in apparenza formale, sul quale vorrei soffermarmi: è quello che ha permesso alla Consulta di non limitarsi a sancire se l’art. 580 del codice penale, nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio, sia o meno conforme alla Costituzione, ma di riscriverlo, fissando condizioni e limiti per la sua realizzazione e indicando una procedura.

Nei manuali di diritto costituzionale – provo una certo disagio a ricordarlo – si spiega ancora adesso che quando una norma di legge viene sottoposta all’esame della Corte costituzionale, l’esito è l’inammissibilità se la questione sollevata non è stata correttamente impostata dal giudice; il rigetto, se la norma impugnata viene valutata conforme alla Costituzione; l’accoglimento, se invece l’eccezione è ritenuta fondata, con conseguente declaratoria di illegittimità; l’interpretativa di rigetto, se la norma è ritenuta legittima a condizione che sia interpretata in modo diverso da come l’ha intesa il giudice che ha rimesso la questione alla Corte.

In questa vicenda la Corte costituzionale ha dapprima suscitato una certa sorpresa, con l’ordinanza n. 207/2018, depositata nel novembre 2018, quando, nel prospettare i profili di una presumibile illegittimità dell’art. 580 cod.pen., ha differito la declaratoria di incostituzionalità all’udienza del 24 settembre 2019, e ha sollecitato il Parlamento perché – per evitarla – approvasse una legge che recepisse le indicazioni della Consulta. Con tutto il rispetto per quest’ultima, desta qualche perplessità – a prescindere dalla delicatezza della materia – che assegnare alle Camere i compiti da svolgere, e financo il tempo entro cui svolgerli, realizzi quella “leale e dialettica collaborazione istituzionale” (§ 11 del l’ordinanza) cui pure la Corte ha scritto di ispirarsi.

Con la sentenza n. 242, depositata il 22 novembre scorso, la Corte è andata oltre, poiché ha fondato la sua decisione di radicale riscrittura della norma impugnata rivendicando il proprio potere di “gestione del processo costituzionale” (sic). La “collaborazione istituzionale” si è conclusa: poiché il Parlamento non ha eseguito il compito attribuitogli nel termine fissato, la Corte adempie a quello che definisce il dovere di “riempimento costituzionalmente necessario” (sic). Cioè non dice in modo secco un sì o un no alla illegittimità sollevata dalla Corte di assise di Milano, ma stende una nuova versione dell’articolo del codice penale impugnato.

Questa non è una novità; nel lontano 1992 il prof. Gustavo Zagrebelsky, che in anni seguenti avrebbe presieduto la Consulta, lo asseriva in modo chiaro nel suo fortunato volume Il diritto mite (Einaudi, pp. 201-203): “molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte”. Tradotto per gli incliti, in primis il sottoscritto: al Parlamento (luogo del confronto fra posizioni di parte: e che che dovrebbe essere se no?) è preferibile la più asettica via giudiziaria.

E’ una tendenza che preoccupa al di là degli orientamenti ideali. Luciano Violante osserva come, grazie a questo “neocostituzionalismo” e in antitesi al “costituzionalismo classico”, “la garanzia dei diritti non sta più nell’unità e nella partecipazione alle istituzioni rappresentative; sta nelle giurisdizioni e nella loro assoluta indipendenza dal potere politico. La rappresentanza democratica lascia il campo ai tecnocrati del diritto: giuristocrazia invece della democrazia. Il nuovo costituzionalismo sottrae alla politica e attribuisce al giudice anche il potere di riconoscere nuovi diritti” (Anatomia del potere giudiziario, Carocci 2916, p. 24). Presentando al Senato nel febbraio 2018 il libro dell’allora presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi, dal titolo significativo L’invenzione del diritto, è stato sempre G. Zagrebelsky a ribadire come “nello Stato costituzionale attuale non è più vero che la forza della legge segua incondizionatamente alla forma di legge. C’è qualcosa d’altro, cioè l’apertura dello sguardo dei giuristi a ciò che vive, cambia, talora ribolle sotto lo strato delle leggi”.

Quanto accaduto con la sentenza sul suicidio assistito dovrebbe far riflettere un Parlamento che avrebbe potuto elaborare quella normativa di equilibrio sull’art. 580 cod. pen. da molti auspicata, disattivando il giudizio di costituzionalità in corso, e che invece vi ha rinunciato, e si è fatto scavalcare. Ma dovrebbe far riflettere, più in generale, le forze politiche che rappresentano gli italiani in Parlamento, e chiunque ritenga che le istituzioni rappresentative abbiano ancora un senso e un futuro: non so quanto consapevolezza vi sia della posta in gioco, costituita – sempre per riprendere la felice espressione di Violante – dallo sviluppo del ruolo della magistratura, che da “bocca della legge” è diventata “bocca di sé stessa”.

E’ questione che va al di là del merito dal quale sono partito, e anche oltre l’area dei temi eticamente sensibili: tocca la stessa tenuta del sistema democratico, e la piena agibilità di istituzioni come il Parlamento e il Governo. Qualcuno ha voglia di interessarsene?

Il “black friday” per la tutela della vita in Italia

Il “black friday” per la tutela della vita in Italia

Corte Costituzionale – sentenza n. 242/2019

  1. Nulla di sostanzialmente nuovo è contenuto nella motivazione della sentenza n. 242 depositata venerdì scorso dalla Consulta, rispetto all’ordinanza n. 207/2018.

Il quadro di fondo è costituito:

  • sul piano ordinamentale, dalla rivendicazione da parte della Corte del potere di “gestione del processo costituzionale”, per riprendere una espressione che adopera. Certo, essa aveva dato qualche mese di tempo al Parlamento perché approvasse una legge secondo le indicazioni fornite con l’ordinanza 207; una volta che le Camere non hanno eseguito il compito loro attribuito nei tempi fissati, la Corte ha provveduto all’opera di “riempimento costituzionalmente necessario”. La Corte lo dice in esplicito: non si limita a dichiarare in modo secco se una norma è o meno conforme a Costituzione, procede all’“invenzione del diritto”, in coerenza con quanto teorizzato da presidenti emeriti della Consulta. E’ materia di riflessione per un Parlamento che avrebbe potuto elaborare quella normativa di equilibrio sull’art. 580 cod. pen. da molti auspicata, disattivando il giudizio di costituzionalità in corso, e che invece vi ha rinunciato e si è fatto scavalcare. E’ materia di riflessione per chiunque ritenga che le istituzioni rappresentative abbiano ancora un senso;
  • sul piano dei contenuti, dalla estensione, che la Corte ribadisce aver operato, della legge sulle dat-disposizioni anticipate di trattamento, sì da costruire una continuità fra le norme della L. 219/2017 e il “riempimento costituzionalmente necessario” realizzato con la sentenza 242. Anche questo dovrebbe costituire materia di riflessione: come Centro studi, insieme con altri, siamo stati accusati di allarmismo, se non di volere l’“accanimento terapeutico”, quando denunciavamo la deriva di morte delle dat; la Consulta ne trae le prevedibili conseguenze, aprendo a prospettive non solo di legalizzazione (se pur parziale) dell’aiuto al suicidio, bensì di vera e propria eutanasia. Dice in sostanza: se si può interrompere il trattamento quando il paziente non è cosciente, in esecuzione di dat, è contrario al principio di eguaglianza non interrompere il trattamento quando il paziente è cosciente, e anzi l’intervento deve porre termine alla vita rapidamente per risparmiargli sofferenze.
  1. Come nell’ordinanza 207, anche la sentenza 242 presenta profili contraddittori, ancora più evidenti nel momento in cui la Corte conferisce alla propria sentenza immediata applicazione:
  • allorché non dichiara l’illegittimità dell’art. 580 cod. pen., per l’intera parte dedicata all’aiuto al suicidio, perché ritiene l’incriminazione di tale condotta coerente con la Costituzione, e col diritto alla vita come tutelato da essa e dalla CEDU, e riprende sul punto quanto già scritto nell’ordinanza 207 a proposito della necessaria protezione delle persone deboli e vulnerabili. E però, subito dopo, elenca le condizioni per non applicare l’art. 580 cod. pen., che coincidono con profili di particolare debolezza e vulnerabilità: il tipo di patologia, il livello del dolore e i sostegni vitali in atto. La contraddizione sta nell’evocare l’autodeterminazione “nel congedarsi dalla vita” per un paziente la cui libertà di autodeterminazione è compromessa dalla situazione nella quale versa;
  • allorché ribadisce “la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore” a colui che si trova in tali condizioni e non spiega – se le cure palliative sono “necessarie” e vanno rese “effettive” – che cosa accade a fronte di una richiesta di suicidio assistito per la quale non sia possibile attivare la terapia del dolore, a causa delle difficoltà di attuazione della legge n. 38/2010, difficoltà delle quali pure la Corte è consapevole. Essa non risponde alla domanda del come ci si regola se nel caso concreto mancano quelle cure palliative che qualifica “pre-requisito” dell’aiuto al suicidio;
  • allorché chiama in causa “un organo collegiale terzo”, il comitato etico, per garantire protezione alle vulnerabilità enunciate. I comitati etici, come ricorda la stessa Corte, sono organismi di consultazione a fronte di sperimentazioni cliniche di medicinali: come si coniuga tale funzione con l’autorizzazione a porre termine a una vita, che la sentenza pare attribuire loro? La motivazione della 242 parla in proposito di un parere che i comitati dovrebbero rendere sull’“uso compassionevole di medicinali” per pazienti che si trovino nella condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio. E’ un capovolgimento di mission: dalla valutazione di farmaci sperimentali alla valutazione di sostanze che provocano la morte.
  1. Nonostante tali gravi e inaccettabili asserti, la sentenza 242 stabilisce dei punti fermi:
  • la Corte sancisce senza incertezze che l’aiuto al suicidio vada eseguito solo all’interno del Servizio sanitario nazionale, e con questo esclude il ricorso a cliniche o ad associazioni di natura privatistica. L’on. Cappato sarà probabilmente assolto perché la Corte precisa che questa disciplina vale per il futuro, mentre per il passato, in sua assenza, non si poteva pretendere il rispetto della procedura individuata, ma è certo però che la Consulta esclude la legittimazione di realtà come quelle cui egli si è rivolto;
  • la Corte chiarisce che il medico non ha alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio, e con questo pare riconoscere qualcosa di più ampio dell’obiezione di coscienza come disciplinata, per es., dalla legge sull’aborto. Stabilisce infatti che “resta affidato (…) alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”: non esige che il medico si dichiari obiettore una volta per tutte con una procedura formalizzata (come fa l’art. 9 della legge 194/1978), ma affida caso per caso la decisione alla sua deontologia;
  • se vi è continuità fra la disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento e l’aiuto al suicidio, come la Consulta ribadisce in tutta la sentenza, tale omogeneità impone di riconoscere analogo spazio al pieno dispiegamento della coscienza del medico a fronte della esecuzione di dat, pur se la legge n. 219/2017 non riconosce espressamente il diritto di obiezione. In tal senso la Corte sembra risolvere il contrasto fra quanto, nella legge 219, prevede l’art. 4 co. 5, che obbliga il medico a dare esecuzione alle dat, e quanto invece dice l’art. 1 co. 6, che permette al medico di sottrarsi a tale esecuzione se gli viene richiesto qualcosa che contrasta con la deontologia.
  1. La sentenza 242 attribuisce una responsabilità elevata ai medici, i quali – col documento della Federazione degli Ordini di qualche mese fa – hanno coraggiosamente e con coerenza di argomentazioni richiamato il dovere di non dare la morte. Il Centro studi Rosario Livatino, insieme con Scienza e Vita, ha già organizzato un primo workshop sul rapporto fra la legge dello Stato e il codice deontologico, e su quale fra i due prevalga in ipotesi di contrasto, soprattutto se è in discussione un bene fondante quale è la vita. E’ questo uno dei temi sui quali, alla stregua del deposito della motivazione della Corte costituzionale, sarà necessario tornare in modo approfondito e articolato. A fianco a quello dell’aiuto solidale non a togliersi la vita, bensì a lenire il dolore con cura palliative rese effettive per chiunque ne abbia bisogno, dando piena applicazione alla legge n. 38/2010: spostando così l’attenzione dall’autodeterminazione alla dignità e alla presa in carico della sofferenza.
Procreazione assistita: il testo della sentenza 221/2019 della Corte Costituzionale e un primo commento.

Procreazione assistita: il testo della sentenza 221/2019 della Corte Costituzionale e un primo commento.

Pubblichiamo il testo della sent. n. 221 del 2019 della Corte costituzionale in materia di procreazione assistita, con un primo commento della dott.ssa Francesca Piergentili, avvocato e dottore di ricerca dell’Università Europea di Roma. Il lavoro della dott.ssa Piergentili apparirà, nella sua versione definitiva, nel n. 1 del 2020 della Rivista L-Jus.


SENTENZA N. 221

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promossi dal Tribunale ordinario di Pordenone e dal Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanze del 2 luglio 2018 e del 3 gennaio 2019, rispettivamente iscritte al n. 129 del registro ordinanze 2018 e al n. 60 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2018 e n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti gli atti di costituzione di S. B. e altra, e di F. F. e altra, gli atti di intervento ad adiuvandum dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, e dell’Associazione radicale Certi Diritti e altra nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI, Filomena Gallo e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti e altra, Maria Antonia Pili per S. B. e altra, Alexander Schuster per F. F. e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 luglio 2018 (r. o. n. 129 del 2018), il Tribunale ordinario di Pordenone ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso».

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento cautelare promosso, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, da due donne, parti di una unione civile, in seguito al rifiuto opposto dalla locale Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA.

Le ricorrenti hanno esposto di convivere more uxorio dal 2012 e di aver contratto unione civile nel 2017; di aver maturato nel corso del tempo il desiderio della genitorialità, tanto che una di loro aveva intrapreso un percorso di PMA in Spagna, all’esito del quale aveva dato alla luce in Italia due gemelli; che anche l’altra ricorrente intendeva realizzare il suo desiderio di maternità, senza tuttavia recarsi all’estero, con costi piuttosto elevati, poiché, a suo parere, la legge n. 40 del 2004 – dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015 e alla luce di alcune importanti pronunce della giurisprudenza di legittimità – avrebbe consentito alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di PMA anche in Italia; che le ricorrenti si erano quindi rivolte all’Azienda per l’assistenza sanitaria n. 5 “Friuli occidentale”, presso la quale era stato istituito un servizio di PMA di elevato livello qualitativo; che il responsabile del servizio aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, sul rilievo che l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 riserva la fecondazione assistita alle sole coppie composte da persone di sesso diverso. Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al giudice adito di ordinare, con provvedimento d’urgenza, all’Azienda sanitaria di consentire loro l’accesso alla PMA, previa proposizione – ove il problema non fosse ritenuto superabile in via interpretativa – di questioni di legittimità costituzionale del citato art. 5 ed, eventualmente, dell’art. 4, comma 1, della medesima legge n. 40 del 2004, nella parte in cui limita la PMA «ai casi di sterilità o di infertilità», anche quando si tratti di coppie formate da persone dello stesso sesso.

Nel costituirsi in giudizio, l’Azienda sanitaria ha eccepito preliminarmente l’incompetenza per materia del giudice adito, assumendo che la competenza a decidere sulla domanda cautelare spetterebbe al «Giudice del Lavoro del Tribunale di Pordenone»: ciò in quanto le cause concernenti le prestazioni erogate nell’ambito del servizio sanitario nazionale rientrerebbero tra le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 cod. proc. civ.), devolute dall’art. 444 del medesimo codice alla competenza del giudice del lavoro.

L’eccezione – secondo il giudice rimettente – sarebbe «mal posta» e, comunque sia, infondata. Per consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate (quale la sezione lavoro) e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non determina l’insorgenza di una questione di competenza, ma attiene alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio. In ogni caso, poi, l’eccezione risulterebbe infondata, in quanto oggetto del giudizio a quo non è l’erogazione di una prestazione sanitaria a tutela del diritto del cittadino a una specifica cura, ma l’esatta individuazione dei limiti al diritto alla genitorialità: «diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico».

Quanto, poi, ai presupposti del provvedimento cautelare richiesto, sarebbe ravvisabile quello del periculum in mora, tenuto conto dell’età della ricorrente che dovrebbe sottoporsi alla fecondazione assistita. È, infatti, notorio che le probabilità di successo delle relative tecniche diminuiscono sensibilmente con l’avanzare dell’età della donna, specie dopo i trentacinque anni, con correlato aumento dei rischi per la salute della gestante e del nascituro. Nella specie, l’attesa dei tempi di un giudizio ordinario di cognizione rischierebbe, quindi, di pregiudicare definitivamente il diritto azionato.

Per quanto attiene, invece, al fumus boni iuris, il giudice a quo rileva che, in base all’art. 5 della legge n. 40 del 2004, «[f]ermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Nella specie, le ricorrenti sono maggiorenni, coniugate o conviventi (avendo costituito un’unione civile), in età potenzialmente fertile ed entrambe viventi. Esse rimarrebbero, tuttavia, escluse dall’accesso alla procedura, trattandosi di una coppia di persone non di sesso diverso, ma dello stesso sesso.

Tale preclusione risulterebbe, d’altra parte, presidiata da incisive previsioni sanzionatorie. L’art. 12 della legge n. 40 del 2004 punisce, infatti, al comma 2, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro «[c]hiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie […] che siano composte da soggetti dello stesso sesso». Prevede, inoltre, al comma 9, «la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti» di cui al medesimo articolo. Stabilisce, infine, al comma 10, la sospensione per un anno dell’autorizzazione concessa «alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate», con possibilità di revoca della stessa «[n]ell’ipotesi di più violazioni dei divieti […] o di recidiva».

Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale delle disposizioni dianzi indicate.

Il divieto di accesso alla PMA, stabilito nei confronti delle coppie omosessuali, e la correlata previsione di sanzioni nei confronti del personale medico e delle strutture che non lo rispettino si porrebbero in contrasto, anzitutto, con l’art. 2 Cost., in quanto non garantirebbero il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010, la nozione di formazione sociale, di cui al citato art. 2 Cost., abbraccia «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico». Essa comprende, pertanto, anche l’unione civile tra persone dello stesso sesso: conclusione che trova conferma nell’art. 1, comma 1, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), ove l’unione civile è espressamente qualificata come «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». In tal modo, il legislatore italiano avrebbe superato l’impostazione tradizionale, in base alla quale la coppia familiare era necessariamente composta da soggetti di sesso diverso, rendendo omogenee le famiglie, sia omosessuali, sia eterosessuali.

Le norme censurate violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., dando origine a disparità di trattamento basate sull’orientamento sessuale e sulle condizioni economiche dei cittadini.

Risulterebbe, infatti, irragionevole e «logicamente contraddittoria» la mancata inclusione delle coppie formate da persone dello stesso sesso tra i soggetti legittimati ad accedere alle tecniche in questione, le quali mirano precipuamente a favorire la soluzione dei problemi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana: requisito, questo, che la Corte di cassazione ha ritenuto senz’altro sussistente nel caso della coppia omosessuale, la quale verrebbe a trovarsi «in una situazione assimilabile a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile» (è citata Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). Tale rilievo – ad avviso del giudice a quo – renderebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, prospettata peraltro dalle ricorrenti solo in via subordinata.

Vietando alle coppie di cittadini dello stesso sesso di accedere in Italia alla PMA, le disposizioni denunciate finirebbero, d’altra parte, per riconoscere il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi a tali tecniche in uno dei numerosi Stati esteri che, viceversa, lo consentono. Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 – sia pure in riferimento al ricorso alla PMA di tipo eterologo da parte di una coppia eterosessuale – si realizzerebbe, in questo modo, «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie […], in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale»: esito che rappresenterebbe «non un mero inconveniente di fatto, bensì il diretto effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole».

Risulterebbero violati, ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo comma, Cost., in quanto – come rilevato dalla citata sentenza n. 162 del 2014 – il diritto alla salute, tutelato dal precetto costituzionale, deve ritenersi comprensivo della salute psichica, oltre che fisica: e, nella specie, sarebbe «certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA […], possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia».

Le norme censurate violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita familiare e il divieto di discriminazione. Il divieto in discussione si tradurrebbe, infatti, in una inammissibile interferenza in una scelta di vita che compete alla coppia familiare, attuando, al tempo stesso, una irragionevole discriminazione fondata sul mero orientamento sessuale dei suoi componenti.

Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, posto che, allo stato, la richiesta delle ricorrenti di accedere alla PMA trova ostacolo nelle disposizioni denunciate. L’univoco tenore letterale di queste ultime escluderebbe, d’altronde, la praticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata prospettata in via principale dalle ricorrenti.

1.2.– Si sono costituite S. B. e C. D., parti ricorrenti nel giudizio a quo, le quali hanno chiesto che le questioni siano accolte.

Le parti costituite osservano come la Corte costituzionale sia intervenuta più volte sulla legge n. 40 del 2004, al fine di estendere l’accesso alla PMA a soggetti inizialmente esclusi. In particolare, con la sentenza n. 162 del 2014 è caduto il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo per le coppie eterosessuali affette da sterilità o infertilità assolute e irreversibili, mentre la successiva sentenza n. 96 del 2015 ha garantito l’accesso alla PMA anche alle coppie eterosessuali fertili, ma portatrici di gravi patologie genetiche trasmissibili.

Nel solco di tale processo di adeguamento ai principi costituzionali non potrebbe ora non inserirsi anche l’“apertura” delle tecniche di PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

Come rilevato dalla Corte di cassazione (in particolare, con la sentenza n. 19599 del 2016), se l’unione fra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove l’individuo «svolge la sua personalità», e se la volontà dei componenti della coppia di divenire genitori e formare una famiglia con prole costituisce espressione della generale libertà di autodeterminazione della persona, ricondotta dalla Corte costituzionale agli artt. 2, 3 e 31 Cost. (e non pure all’art. 29 Cost.), deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli. Ciò tenuto conto del fatto che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine a specifiche ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del minore, derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da una coppia omosessuale.

Su tale rilievo, la Cassazione ha ritenuto, quindi, possibile l’adozione del figlio del partner omosessuale ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).

Una volta assodato che l’unione omosessuale può bene costituire un contesto familiare nel quale esercitare le funzioni genitoriali, la tendenziale unitarietà dello status di figlio – senza discriminazioni tra figli legittimi, naturali o adottivi – renderebbe irragionevole ogni disparità nel riconoscimento del diritto alla genitorialità che risulti collegata unicamente alle «modalità di ingresso» dei figli all’interno dell’unione civile: ossia alla circostanza che l’ingresso avvenga a seguito di adozione ovvero di tecniche di PMA.

La giurisprudenza più recente riconosce, d’altronde, piena efficacia nel nostro ordinamento agli atti di nascita stranieri relativi a minori concepiti all’estero con tecniche di PMA da partner dello stesso sesso, con conseguente attribuzione della qualità di genitori a entrambi i partner. Impedire il ricorso a tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso in Italia e nel contempo riconoscerne pienamente gli effetti se operate all’estero (anche da cittadini italiani) rappresenterebbe una «intollerabile “ipocrisia” interpretativa», anch’essa contrastante con l’art. 3 Cost.

Pienamente condivisibili sarebbero, per il resto, le censure formulate dal rimettente in riferimento agli artt. 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost. A quest’ultimo riguardo, le parti costituite ricordano come la Corte costituzionale austriaca, con una pronuncia del 19 dicembre 2013, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge austriaca che vietava a coppie di donne (nella specie, unite civilmente in Germania) di accedere alle tecniche di PMA, ravvisando in tale divieto una lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 7 della Costituzione austriaca e una inammissibile interferenza con la vita familiare protetta dall’art. 8 CEDU.

1.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il giudice a quo avrebbe, infatti, affermato il contrasto delle norme censurate con i parametri costituzionali in modo puramente assiomatico, senza un adeguato supporto argomentativo.

Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.

Come sottolineato nella sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, la legge n. 40 del 2004 costituisce la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore […] che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali». Le relative questioni di costituzionalità toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze appartiene primariamente alla valutazione del legislatore.

La progressiva eliminazione, da parte della Corte, con le sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, di taluni divieti posti dalla citata legge sarebbe frutto di una analisi specifica non riassumibile in un giudizio di valore unitario, in quanto la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà di divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi senza limiti. Con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della preclusione all’accesso alla PMA di tipo eterologo nei confronti delle coppie affette da grave patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili, senza porre, tuttavia, in discussione la legittimità in sé del divieto di tale pratica e precisando, altresì, che la declaratoria di illegittimità costituzionale non incide sulla disciplina dei requisiti soggettivi (compreso quello della diversità di sesso) stabilita dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, che resta, quindi, applicabile anche alla PMA di tipo eterologo.

Quanto al divieto di discriminazione delle coppie omosessuali, la stessa Corte costituzionale ha tenuto ferma l’interpretazione dell’art. 29 Cost. e il modello di matrimonio e di famiglia che ne deriva, fondati sulla differenza di sesso tra i coniugi (sentenza n. 138 del 2010). Né la disciplina delle unioni civili, di cui alla legge n. 76 del 2016, potrebbe rappresentare un utile termine di comparazione, posto che tale legge definisce l’unione civile quale «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione», attribuendo quindi alla stessa caratteristiche autonome e distinte rispetto al matrimonio.

L’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016 esclude, inoltre, l’applicabilità alle unioni civili tanto delle disposizioni del codice civile sulla filiazione, quanto – come chiarito dalla Corte di cassazione – della disposizione relativa all’adozione speciale del figlio del coniuge, di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983, consentendo la sola adozione in caso di impossibilità di affidamento preadottivo, prevista dalla successiva lettera d).

La ratio della disciplina della PMA sarebbe, d’altro canto, quella di tutelare il superiore interesse del nascituro. Il diritto alla genitorialità sussisterebbe, pertanto, solo ove esso corrisponda al migliore interesse per il minore («best interest of the child», secondo la formula rinvenibile nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176). E, proprio nella prospettiva della valutazione di tale interesse, particolarmente sul piano della conservazione di rapporti affettivi già instaurati, il diritto alla genitorialità delle coppie omosessuali sarebbe stato, in effetti, evocato dalla giurisprudenza comune che si è occupata dall’argomento.

Il caso oggi in esame non riguarda, tuttavia, una ipotesi di «genitorialità sociale», tramite la quale possa essere tutelato un minore, anche nell’ambito di coppie omosessuali, ma soltanto il diritto di un adulto di procreare: diritto che non sarebbe garantito in modo assoluto dall’ordinamento.

Quanto, infine, alla denunciata violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, la difesa dello Stato ricorda come la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 1° aprile 2010 [recte: 3 novembre 2011], S. H. e altri contro Austria, abbia ritenuto che il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca non configurasse una ingerenza indebita della pubblica autorità nella vita privata e familiare, vietata dall’art. 8 CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità di cui gli Stati fruiscono nella disciplina della materia.

Si sarebbe, in conclusione, al cospetto di una tematica che implica l’armonizzazione di un complesso di valori e scelte di opportunità rimesse in via esclusiva al legislatore.

1.4.– È intervenuta, altresì, l’associazione di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI, la quale ha chiesto, sulla scorta di ampie argomentazioni, l’accoglimento delle questioni (da intendere, a suo avviso, come limitate alle sole coppie omosessuali femminili).

1.5.– S. B. e C. D. hanno depositato memoria, con la quale hanno contestato le difese dell’Avvocatura generale dello Stato.

Non conferente sarebbe, in specie, il richiamo dell’Avvocatura ai tratti differenziali degli istituti del matrimonio e dell’unione civile. L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 consente, infatti, l’accesso alla PMA non soltanto alle coppie «coniugate», ma anche alle coppie «conviventi». La disparità di trattamento che le questioni mirano a rimuovere non è, dunque, quella tra soggetti coniugati e soggetti uniti civilmente, ma quella fra conviventi eterosessuali e conviventi omosessuali (uniti civilmente): distinzione che esprimerebbe una discriminazione fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale della coppia.

Parimente privo di significato sarebbe il fatto che, nelle precedenti pronunce sulla PMA, la Corte costituzionale abbia tenuto fermo il requisito di accesso rappresentato dalla diversità di sesso dei richiedenti. In quelle occasioni, il problema della legittimità di tale requisito non risultava, infatti, sottoposto alla Corte.

La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso S. H. e altri contro Austria risulterebbe, a sua volta, superata dalla successiva decisione della Corte costituzionale austriaca, che ha dichiarato illegittima la normativa che vietava l’accesso alla PMA a coppie di donne.

1.6.– Ha depositato memoria anche l’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha insistito per la dichiarazione di inammissibilità o infondatezza delle questioni, riprendendo e sviluppando gli argomenti già svolti nell’atto di intervento.

2.– Con ordinanza del 3 gennaio 2019 (r. o. n. 60 del 2019), il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile», deducendone il contrasto con gli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché con gli artt. 11 (parametro evocato solo in dispositivo) e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18.

2.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da due donne, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., nei confronti dell’Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano.

Nel ricorso si deduce che la coppia ricorrente si era sposata in Danimarca nel 2014, con atto successivamente trascritto in Italia nel registro delle unioni civili; che a causa delle complicazioni seguite a trattamenti di inseminazione artificiale operati in Danimarca, a una delle ricorrenti era stata asportata la salpinge uterina destra e riscontrata l’avvenuta chiusura di quella sinistra, con conseguente incapacità di produrre ovuli; che l’altra ricorrente soffriva, a sua volta, di un’aritmia cardiaca, in ragione della quale le era stato sconsigliato di avere gravidanze e suggerito, anzi, di ricorrere a una terapia anticoncezionale; che le tecniche di fecondazione assistita avrebbero consentito di superare gli ostacoli alla procreazione indotti da tali patologie, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue delle ricorrenti (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra); che, a tal fine, esse si erano rivolte all’Azienda sanitaria di Bolzano, la quale aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, rilevando che l’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 vieta le tecniche di fecondazione eterologa e che il successivo art. 5 consente di accedere alle tecniche di PMA solo alle coppie composte da persone di sesso diverso.

Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale rimettente di garantire con provvedimento d’urgenza il loro diritto di accesso alle menzionate terapie riproduttive.

Costituitasi in giudizio, l’Azienda sanitaria – sul presupposto ci si trovi a fronte di una controversia in materia di previdenza e assistenza obbligatorie – ha eccepito l’incompetenza per territorio del Tribunale ordinario di Bolzano, indicando come competente, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. civ., il giudice del lavoro presso il Tribunale ordinario di Monza.

Ad avviso del rimettente, l’eccezione sarebbe infondata. Il giudizio a quo non potrebbe essere, infatti, incluso tra le controversie di cui all’art. 442 cod. proc. civ., attenendo piuttosto all’esatta individuazione dei limiti e delle facoltà connessi al diritto alla genitorialità: diritto che, «solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico». La maggior parte delle pronunce di merito in materia di PMA risulta del resto emessa, anche quando risultasse evocata in giudizio una azienda sanitaria, da giudici addetti alle sezioni ordinarie, e non già alla sezione lavoro dei tribunali e delle corti d’appello. La competenza per territorio dovrebbe essere, pertanto, stabilita in base non all’art. 444 cod. proc. civ. (che fa riferimento al foro di residenza dell’attore), ma agli ordinari criteri indicati dagli artt. 19 e 20 cod. proc. civ., che renderebbero competente il Tribunale adito.

Sarebbe, per altro verso, ravvisabile il periculum in mora, posto che, in ragione dell’età delle ricorrenti, l’attesa dei tempi di un ordinario giudizio di cognizione rischierebbe di pregiudicare definitivamente il buon esito delle tecniche di PMA e, con esso, il diritto azionato.

Quanto al fumus boni iuris, assumerebbero, per converso, rilievo dirimente le questioni di legittimità costituzionale sollevate. Alla luce delle motivazioni addotte dall’Azienda sanitaria a sostegno del diniego delle prestazioni richieste, l’unico ostacolo all’accoglimento dell’istanza cautelare delle ricorrenti sarebbe, infatti, rappresentato dalle norme sospettate di illegittimità costituzionale.

L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 prevede, in specie, che il ricorso alla PMA è consentito «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», «alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge stessa» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2).

L’art. 4, dopo aver ribadito che il ricorso alle tecniche di PMA è limitato ai casi di sterilità o infertilità non altrimenti rimovibili (comma 1), vieta specificamente il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (comma 3).

Il successivo art. 5 consente, a sua volta, di accedere alle tecniche in questione soltanto alle «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

Da ultimo, l’art. 12 punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro chiunque applica tecniche di PMA, tra l’altro, a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (comma 1), prevedendo altresì sanzioni di tipo interdittivo nei confronti del personale medico e delle strutture che vi procedano (commi 9 e 10).

Secondo il giudice a quo, le norme denunciate si porrebbero in contrasto anzitutto con gli artt. 2 e 3 Cost.

È ormai pacifico, infatti, che la formazione sociale scaturente dall’unione civile, o anche solo da una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso, abbia natura familiare. Di conseguenza, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014, l’unico interesse che potrebbe astrattamente contrapporsi all’utilizzazione delle tecniche di PMA nel suo ambito è quello del nascituro.

La giurisprudenza più recente ha riconosciuto, tuttavia, in modo unanime la piena idoneità genitoriale della coppia omosessuale, sottolineando come non vi siano evidenze scientifiche dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da persone dello stesso sesso.

Non sarebbero ravvisabili, di conseguenza, spazi di valutazione politico-legislativa per negare il diritto alla genitorialità, mediante accesso alla PMA, a una coppia di donne unite civilmente, non risultando pregiudicate in alcun modo le aspettative del nuovo nato, né venendo in rilievo le questioni di ordine etico sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata. Nella specie, non verrebbe, infatti, coinvolto nella gestazione alcun soggetto esterno alla coppia richiedente, occorrendo soltanto il ricorso, ormai consentito, alle pratiche di fecondazione eterologa.

Il divieto di accesso alla PMA da parte di persone dello stesso sesso costituirebbe, pertanto, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana. Esso implicherebbe una negazione del diritto alla genitorialità sproporzionata e irragionevole, come tale lesiva anche dell’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica «protegge la maternità».

Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo risulterebbe violato, peraltro, anche il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 Cost. Le ricorrenti si vedrebbero, infatti, preclusa – solo perché componenti di una coppia formata da persone dello stesso sesso – la possibilità di superare gli ostacoli alla riproduzione indotti dalle patologie da cui sono affette mediante l’indicata strategia di utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue: ciò quantunque l’art. 1 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana».

La natura espressa del divieto e della relativa sanzione impedirebbero, d’altronde, un’interpretazione della normativa in senso conforme alla Costituzione. Né potrebbe procedersi alla disapplicazione delle norme censurate per contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione. Alla luce delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, tale contrasto deve essere fatto valere tramite la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale le disposizioni convenzionali fungono da norme interposte.

Per le medesime ragioni si renderebbe necessario denunciare di fronte alla Corte costituzionale il sospetto di illegittimità delle norme censurate per incompatibilità «con ulteriore normativa pattizia», indicata, «per mere ragioni di completezza», negli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (i quali prevedono ancora una volta il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare), nonché negli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva»).

2.2.– Si sono costituite F. F. e M. R., ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni.

Preliminarmente, le parti costituite pongono in evidenza come la vicenda oggetto del giudizio principale sia diversa da quella che ha dato origine alle pur analoghe questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Pordenone. In quel caso, infatti, la coppia è composta da persone dello stesso sesso, ma non consta che esse presentino individualmente alcuna patologia riproduttiva. Nella fattispecie in esame, di contro, a entrambe le ricorrenti sono state diagnosticate patologie riproduttive, sicché l’infecondità non è solo di coppia, ma anche individuale.

Ciò premesso, le parti costituite rilevano come costituisca un dato ormai acquisito – anche alla luce della giurisprudenza delle Corti europee – che la coppia omosessuale, tanto unita civilmente (come le ricorrenti), quanto «in libera unione», costituisca una famiglia e goda, quindi, del diritto al rispetto della propria vita familiare.

La Corte costituzionale ha collocato, d’altro canto, tra i diritti inviolabili dell’uomo, tutelati dall’art. 2 Cost., non solo i diritti della persona nell’ambito familiare, ma anche i diritti relativi alla possibilità di avere una famiglia. In particolare, nella sentenza n. 162 del 2014 la Corte ha affermato che la scelta di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli «costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, […] riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare». In quest’ottica, «[l]a determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo».

Se, dunque, la coppia omosessuale costituisce una formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost. e se la determinazione di avere un figlio rappresenta un diritto inviolabile della coppia, anche in assenza di legame genetico, il divieto di accesso alla procreazione assistita posto dalla legge n. 40 del 2004 nei confronti delle coppie formate da due donne – in difetto di interessi contrari di pari rango – colliderebbe inevitabilmente con il citato parametro costituzionale.

Le disposizioni censurate violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia sotto quello della ragionevolezza.

Quanto al principio di eguaglianza, il divieto in discorso risulterebbe discriminatorio sotto molteplici aspetti, trattando diversamente situazioni omogenee.

Sotto un primo aspetto, mentre per la coppia eterosessuale sarebbe sufficiente affermare, ai fini dell’accesso alla PMA, di aver avuto regolari rapporti sessuali per un dato periodo, senza che abbiano condotto alla gravidanza, la coppia omosessuale che dichiari lo stesso insuccesso in riferimento a – pur consentiti – tentativi di inseminazione domestica, non può invece accedere alle tecniche in questione.

In secondo luogo, dall’art. 12, comma 2, della legge n. 40 della 2004 emergerebbe che chi applica tecniche di PMA – ora anche di tipo eterologo – a una coppia di sesso diverso in assenza delle condizioni patologiche di sterilità o infertilità, di cui all’art. 4 della medesima legge, non è soggetto ad alcuna sanzione, mentre la stessa condotta, posta in essere a vantaggio di una coppia dello stesso sesso, anche in presenza di patologie documentate, è punita.

Sotto un terzo profilo, la discriminazione si apprezzerebbe nel raffronto tra una coppia di donne con patologie riproduttive e una coppia eterosessuale con la donna affetta dalla medesima patologia. La donna in coppia con un uomo potrebbe, infatti, fruire della PMA, mentre la donna in coppia con un’altra donna non vi ha accesso.

Anche la violazione del principio di ragionevolezza si riscontrerebbe sotto molteplici aspetti. Nella sentenza n. 162 del 2014, la Corte costituzionale ha ritenuto che, alla luce del dichiarato scopo della legge n. 40 del 2004 «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (art. 1, comma 1), la preclusione assoluta di accesso alla PMA di tipo eterologo introducesse «un evidente elemento di irrazionalità», poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità veniva ad essere stabilita proprio «in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis».

A conclusioni analoghe dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in esame. Le componenti di una coppia omosessuale femminile si vedrebbero, infatti, non semplicemente limitata, ma preclusa in radice la possibilità di fondare una famiglia con figli in Italia e di divenire madri, nonostante la Costituzione associ in maniera esplicita la genitorialità alla donna (art. 31, secondo comma).

Il divieto risulterebbe particolarmente irragionevole nel caso di specie, dato che le patologie di cui le ricorrenti sono portatrici rendono necessario l’intervento della scienza medica e richiedono un’utilizzazione complementare delle loro potenzialità riproduttive residue. Imporre a ciascuna di esse, per accedere alla PMA, di sposare un uomo o di convivere con lui, di là dalla intrinseca inaccettabilità della condizione, non risolverebbe il problema produttivo, ma condannerebbe, anzi, la donna a non divenire mai madre (genetica).

Si riscontrerebbe, inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento delle coppie in base alla loro capacità economica, analoga a quella rilevata dalla sentenza n. 162 del 2014 in rapporto al divieto di fecondazione eterologa. L’esercizio del diritto di formare una famiglia con figli resterebbe, infatti, riservato solo alle coppie omosessuali più abbienti, che dispongano delle risorse economiche necessarie per recarsi in un altro Stato che consente ad esse il ricorso alle tecniche di PMA.

Si dovrebbe considerare, ancora, che con la sentenza n. 96 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge n. 40 del 2004 che non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA «alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili». L’ordinamento tutelerebbe, dunque, attualmente – perché così impone la Costituzione – ogni coppia che incontri ostacoli alla gravidanza, anche se non correlati alla infertilità o sterilità individuale, ma a una specifica conformazione di coppia. Il pericolo di trasmissione di malattie al nascituro può dipendere, infatti, dalla circostanza che entrambi i componenti della coppia siano portatori di una tara genetica: dunque, se la donna avesse scelto un uomo non portatore del medesimo gene il problema non vi sarebbe. La scelta della donna di vivere una relazione con un’altra donna è espressione legittima della propria vita affettiva e familiare, in nulla diversa e meno meritevole di tutela rispetto alla scelta di vivere con “quell”’uomo, e non con un altro. Anche in tal caso, dunque, la donna dovrebbe godere dell’assistenza medica necessaria per superare gli ostacoli riproduttivi che discendono dalla scelta operata.

Da ultimo, la legge n. 40 del 2004 moverebbe dal presupposto che la situazione di infertilità o sterilità, alla quale è subordinata l’erogazione delle prestazioni di PMA, sia di tipo esclusivamente medico-patologico, quando invece essa può dipendere anche da una «condizione sociale», insita nella non complementarità biologica di due donne. Alla luce del principio personalista che ispira l’ordinamento costituzionale repubblicano, tuttavia, le finalità terapeutiche potrebbero rilevare solo agli effetti dell’art. 32 Cost. e degli obblighi di sanità pubblica dello Stato, ma non quale giustificazione per negare tout court il diritto all’«autoderminazione riproduttiva», in assenza di libertà altrui o collettive lese.

Sarebbe violato anche l’art. 30, terzo comma, Cost., in forza del quale «[l]a legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale». Il divieto di accedere alle tecniche di PMA da parte delle coppie omosessuali femminili e lo sfavore espresso dal legislatore, sanzionando i soggetti che le realizzino, determinerebbero, infatti, una discriminazione legale e sociale nei confronti dei minori che da tali tecniche «illecite» nascano.

Risulterebbe leso pure l’art. 31, primo comma, Cost., il quale, con l’espresso riferimento alle «famiglie numerose», esprimerebbe un favor evidente per la formazione di famiglie con figli, imponendo al legislatore, non solo di non ostacolarla, ma anzi di agevolarla.

Il divieto censurato violerebbe anche l’imperativo di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, posto dal secondo comma dello stesso art. 31 Cost., non potendo la maternità di una donna omosessuale essere oggetto di protezione diversa da quella di una donna eterosessuale.

Sarebbe violato, ancora, il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), tanto della persona singolarmente considerata, quanto nella sua dimensione di coppia.

Con riguardo alla ricorrente affetta da patologia cardiaca che le impedisce di divenire madre gestazionale, se non con gravissimo rischio per la propria salute, l’unica possibilità di mantenere un legame genetico con il figlio è la fecondazione dei propri ovuli in vitro, con successivo trasferimento degli embrioni così ottenuti nell’utero di altra donna. Dunque, solo la relazione affettiva con un’altra donna, in grado di realizzare una gravidanza, le consentirebbe di avere dei figli.

Quanto all’altra ricorrente – non in grado di produrre ovociti, ma capace di divenire madre partoriente ricevendo embrioni creati in ambiente extrauterino – ella, quando pure convivesse con un uomo, avrebbe notevoli difficoltà nel procurarsi gameti femminili in numero sufficiente per la produzione di embrioni sani, stante la notoria carenza di ovociti in Italia. Si troverebbe, quindi, costretta ad acquistarli sul mercato internazionale, con i rischi per la salute connessi al prelievo da donne straniere: ciò quando, nel caso concreto, vi sarebbe la compagna che è disposta a conferirli.

Il divieto rivolto al personale sanitario favorirebbe, per altro verso, il ricorso a modalità fecondative – quali l’inseminazione domestica con sperma di conoscenti o acquisito tramite internet – che, in assenza di test clinici sui donatori, mettono a rischio la salute tanto della madre, quanto del nascituro.

Per le medesime ragioni già indicate nella sentenza n. 162 del 2014, le norme censurate sarebbero produttive di un vulnus alla salute anche nella sua dimensione psichica e sociale, posto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner è suscettibile di incidere negativamente, anche in misura rilevante, sulla salute della coppia, intesa nella predetta accezione.

Alla previsione dell’art. 32 Cost. dovrebbe essere ricondotto, infine, anche il dovere dello Stato di tutelare chi, come le ricorrenti, sia portatore di patologie riproduttive che determinano una condizione di disabilità: nozione, quest’ultima, che – come rilevato dalla stessa sentenza n. 162 del 2014 – «per evidenti ragioni solidaristiche, va accolta in un’ampia accezione».

Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto pure con obblighi derivanti da fonti sovranazionali, atte a costituire norme interposte rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

In aggiunta alle disposizioni evocate dall’ordinanza di rimessione, verrebbero a questo proposito in rilievo anche la direttiva 2004/113/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura, nonché gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo 1, 12, paragrafo 1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, ratificato e reso esecutivo con legge n. 881 del 1977 (che stabiliscono, rispettivamente, i principi di non discriminazione, parità tra uomo e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale e dei benefici del progresso scientifico).

2.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sulla scorta – quanto ai profili di merito – delle medesime considerazioni svolte in rapporto all’ordinanza r. o. n. 129 del 2018 e sviluppate con successiva memoria.

2.4.– Sono intervenute, altresì, l’Associazione radicale Certi Diritti e l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, le quali hanno chiesto che le questioni stesse vengano accolte, per le ragioni indicate nella memoria successivamente depositata.

2.5.– Anche F. F. e M. R. hanno depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

Le parti costituite pongono, in particolare, l’accento sull’esigenza di fugare un possibile equivoco: la fecondazione con donazione di gameti – consentita a seguito della sentenza n. 162 del 2014 – non è un rimedio terapeutico all’infertilità di uno o di entrambi i componenti della coppia. Essa non cura, infatti, la patologia riproduttiva, ma si limita ad «aggirare» una patologia non curabile.

L’ordinamento esprimerebbe, quindi, un «giudizio di simpatia» per la situazione della coppia, consentendo ad essa di realizzare altrimenti il desiderio di costituire una famiglia con figli. Tale favor discenderebbe dall’implicito presupposto per cui non si può esigere che il componente della coppia privo di patologie riproduttive cerchi un altro partner per divenire genitore biologico. Da ciò emergerebbe che l’«unità di coppia» è un valore oggetto di specifica tutela costituzionale e che è rispetto alla coppia che è favorita la costituzione della famiglia.

In tale ottica, non si comprenderebbe perché la relazione affettiva di una coppia di donne non debba essere parimente oggetto di protezione da parte dell’ordinamento. Se – come affermato dalla sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale – alla «unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso […] spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», tale libertà non dovrebbe essere lesa, ponendo la donna di fronte alla «terribile scelta» tra coltivare la propria relazione affettiva con la persona che ama, rinunciando al desiderio naturale di divenire madre, ovvero «rinnegare il proprio orientamento affettivo e divenire madre unendosi, quantomeno carnalmente, con una persona di sesso maschile».

2.6.– Con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 18 giugno 2019 questa Corte ha dichiarato inammissibili gli interventi dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, dell’Associazione radicale Certi Diritti e dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.

 

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Pordenone (ordinanza r. o. n. 129 del 2018) dubita della legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso».

Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate violerebbero l’art. 2 della Costituzione, non garantendo il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tra le quali rientra anche l’unione civile o la convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso.

Le medesime disposizioni si porrebbero in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbero una disparità di trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale e delle loro disponibilità economiche, riconoscendo il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per accedere alla PMA presso uno degli Stati esteri che lo consentono.

Sarebbero violati, ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo comma, Cost., giacché l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner sarebbe in grado di nuocere alla salute psicofisica della coppia.

Le norme denunciate violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Esse attuerebbero, infatti, una interferenza nella vita familiare della coppia basata solo sull’orientamento sessuale dei suoi componenti e, dunque, discriminatoria.

2.– Il Tribunale ordinario di Bolzano (ordinanza r. o. n. 60 del 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile».

Secondo il rimettente, le disposizioni denunciate violerebbero l’art. 2 Cost., implicando una negazione del diritto alla genitorialità non giustificata da esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale, tenuto conto della natura di «famiglia» della formazione sociale fondata su un’unione civile o su una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso e della piena idoneità di una coppia omosessuale ad accogliere e crescere il nuovo nato.

Il divieto di accesso alla PMA da parte di coppie di persone dello stesso sesso costituirebbe, inoltre, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana, ponendosi perciò in contrasto anche con l’art. 3 Cost.

Risulterebbero altresì violati l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, e l’art. 32, primo comma, Cost., che garantisce il diritto alla salute. Le disposizioni censurate impedirebbero, infatti, alle componenti della coppia omosessuale femminile affette da patologie che impediscano loro di procreare in modo naturale – come nel caso oggetto del giudizio a quo – di superare il problema tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue di ciascuna di esse (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò sebbene l’art. 1 della legge n. 40 del 2004 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana».

Le disposizioni censurate violerebbero, infine, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto:

  1. a) con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione;
  2. b) con gli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, che parimente prevedono il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare;
  3. c) con gli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva».

3.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative in parte alle medesime norme, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

4.– In via preliminare, va rilevato che non può tenersi conto delle deduzioni svolte dalle parti costituite nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di Bolzano, intese a dimostrare che le norme censurate contrastano anche con parametri diversi e ulteriori rispetto a quelli evocati dal giudice a quo (in particolare, con gli artt. 30, terzo comma, e 31, primo comma, Cost., nonché con altre fonti sovranazionali atte a integrare gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.).

Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è, infatti, limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018).

5.– Secondo quanto si riferisce nelle ordinanze di rimessione, entrambi i giudici rimettenti si trovano investiti del ricorso proposto, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, da una coppia di donne, parti di una unione civile, inteso a superare, con provvedimento d’urgenza, il diniego opposto da un’Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA.

Nessun dubbio di ammissibilità si pone in rapporto alla sedes processuale nell’ambito della quale le questioni sono state sollevate. Già in precedenti pronunce attinenti alla disciplina della PMA, questa Corte ha, infatti, ribadito la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche in sede cautelare, sia quando il giudice non abbia ancora provveduto sull’istanza dei ricorrenti (come è avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia concesso la misura richiesta, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in quella sede (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009, ordinanza n. 150 del 2012; con specifico riferimento alle questioni sollevate nell’ambito di procedimenti d’urgenza ante causam, sentenze n. 84 del 2016 e n. 96 del 2015).

6.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Pordenone per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

L’eccezione non è fondata.

Il giudice a quo ha esposto in modo, primo visu, del tutto adeguato le ragioni del denunciato contrasto delle norme censurate con gli artt. 2, 3 e 32, primo comma, Cost. Quanto ai parametri residui (artt. 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.), le deduzioni del rimettente, se pure alquanto stringate, permettono comunque sia di cogliere il nucleo delle censure, anche perché collegate a quelle relative agli altri parametri.

7.– Entrambi i giudici rimettenti escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo.

L’affermazione appare corretta.

Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone «di sesso diverso» (art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n. 40 del 2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione.

Opera, dunque, il principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018).

8.– Con i quesiti di costituzionalità proposti, entrambi i Tribunali rimettenti mirano a rimuovere il requisito soggettivo di accesso alla PMA rappresentato dalla diversità di sesso dei componenti la coppia richiedente (unitamente al correlato presidio sanzionatorio). L’effetto della pronuncia auspicata dai giudici a quibus sarebbe, dunque, quello di rendere fruibile la PMA alle coppie omosessuali in quanto tali: indipendentemente, cioè, dal fatto che i loro componenti risultino affetti, uti singuli, da patologie che li pongano in condizioni obiettive di infertilità o di sterilità (come pure avviene nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Bolzano).

Lo stesso Tribunale di Bolzano limita, peraltro, espressamente il petitum alle coppie omosessuali femminili. Di contro, il Tribunale di Pordenone, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, chiede in modo indifferenziato l’ablazione del requisito della diversità di sesso, coinvolgendo così, apparentemente, nello scrutinio anche le coppie omosessuali maschili (che pure non vengono in rilievo nel giudizio a quo).

Dal tenore complessivo dell’ordinanza emerge, tuttavia, come anche le censure del Tribunale friulano debbano intendersi, in realtà, limitate alle coppie formate da sole donne.

Per le coppie omosessuali femminili la PMA si attua, infatti, mediante fecondazione eterologa, in vivo o in vitro, con gameti maschili di un donatore. Tale pratica era originariamente vietata in modo assoluto dalla legge n. 40 del 2004 (art. 4, comma 3), ma è divenuta fruibile dalle coppie eterosessuali a seguito della sentenza n. 162 del 2014 di questa Corte, in presenza di patologie che determinino una sterilità o una infertilità assolute e irreversibili. Con l’eventuale accoglimento delle odierne questioni, la fecondazione eterologa verrebbe estesa anche all’“infertilità sociale”, o “relazionale”, fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente alla non complementarità biologica delle loro componenti.

Per le coppie omosessuali maschili, invece, la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso una pratica distinta: vale a dire la maternità surrogata (o gestazione per altri). Il sintagma designa, come è noto, l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà. Tale pratica è vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, anche nei confronti delle coppie eterosessuali. La disposizione ora citata – considerata dalla giurisprudenza espressiva di un principio di ordine pubblico (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193) – non è inclusa tra quelle sottoposte a scrutinio dal Tribunale di Pordenone, né è presa affatto in considerazione dal giudice a quo nello svolgimento delle proprie censure.

Ciò porta a concludere che, anche nella prospettiva del Tribunale friulano, le coppie omosessuali maschili siano destinate a restare estranee al panorama decisorio dell’odierno giudizio.

9.– Tanto puntualizzato, nel merito le questioni non sono però fondate.

Questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza come la legge n. 40 del 2004 costituisca la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005).

La materia tocca, al tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014).

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).

10.– La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato.

Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40 del 2004 sono, come è noto, di segno restrittivo. Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base.

La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati.

L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA «è consentito» – alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, «che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» – «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2).

Il concetto è ribadito ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle tecniche di PMA «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».

La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori – pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore “esterno”).

L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

La disciplina dell’art. 5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA «a coppie composte da soggetti dello stesso sesso», oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi.

La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è «disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale». Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.

11.– Questa Corte è intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati ad accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale e coerente sviluppo delle decisioni già assunte.

Con le pronunce considerate questa Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima.

La sentenza n. 162 del 2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali «sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili», dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all’«evidente elemento di irrazionalità» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo scopo «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della genitorialità proprio alle «coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis». Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente, in rapporto tanto al «rischio psicologico» correlato al difetto di legame biologico con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile «violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica».

La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro («accertate da apposite strutture pubbliche»). Si è eliminata, con ciò, l’altra «palese antinomia» già censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. La legge n. 40 del 2004 vietava, infatti, alle coppie dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece «il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)».

Entrambe le pronunce si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola, nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella sua globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna. È ben vero che la sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando, cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione.

12.– Le questioni oggi in esame si collocano su un piano ben diverso.

L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata).

Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale.

In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate.

13.– Ciò posto, e riprendendo l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile la denunciata violazione dell’art. 2 Cost.

13.1.– Questa Corte ha rilevato che la nozione di «formazion[e] sociale» – nel cui ambito l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come riferita a «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» – abbraccia anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del 2010; similmente, sentenza n. 170 del 2014). Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione».

Questa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente la formazione, «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e che, d’altra parte, «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico.

In accordo con quanto si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza.

Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata.

Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato.

In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali.

Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto.

13.2.– La validità delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite.

La giurisprudenza predominante ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia).

In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).

La stessa Corte di cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). In termini analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).

Tutto ciò, come detto, non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte.

Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale).

La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”.

14.– Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto).

Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono.

In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.

15.– Inoltre, non è violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore.

16.– Neppure è ravvisabile la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia.

La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa.

17.– Il Tribunale di Bolzano ha denunciato la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta al suo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti, parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio.

Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico che la legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA.

Al riguardo, occorre rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile l’esigenza “terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilità per ragioni patologiche.

L’assetto che scaturirebbe da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite una “resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale.

Tale rilievo disvela il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso.

18.– L’art. 11 Cost. – richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – è parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007).

19.– Va esclusa, infine, la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a tutte le disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus.

19.1.– Quanto al contrasto – denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben vero che, a partire dalla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una «famiglia», anche agli effetti del divieto di discriminazione (pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della sua tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria).

La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di «vita privata», di cui all’art. 8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia; 2 ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).

E, però, si è già ricordato come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni (sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

Si è del pari ricordato come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo (supra, punto 9 del Considerato in diritto): prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (Grande camera, sentenza 3 novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1° aprile 2010, S. H. contro Austria).

In tale ottica, possono dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione costituzionalmente garantito (supra, punto 13 del Considerato in diritto).

19.2.– Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26).

19.3.– Per quel che attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano – della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale (supra, punto 17 del Considerato in diritto).

È evidente, infatti, che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili».

20.– Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate non fondate.

 

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2019.


La Consulta in merito alla fecondazione eterologa «per infertilità sociale» e «fisiologica»: il valore dei requisiti soggettivi nella legge 40 nella sentenza 221 del 2019

 

1.Il dubbio di costituzionalità della legge 40 in merito al requisito soggettivo: la PMA anche per coppie di sesso diverso?

La Consulta si è pronunciata, con la sentenza n. 221 del 2019,  depositata il 23 ottobre, in merito al giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, e degli artt. 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 40 del 2004, in materia di procreazione medicalmente assistita, sollevata nell’ambito di due differenti giudizi, uno dinanzi al Tribunale di Pordenone, l’altro  presso il Tribunale di Bolzano[1], riuniti e definiti con la medesima decisione.

I Giudici rimettenti sollevano il dubbio di legittimità in relazione al requisito soggettivo necessario per l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA), al fine di consentire la fruizione delle tecniche anche a coppie dello stesso sesso e indipendentemente dal fatto che i componenti risultino affetti da patologie di infertilità o di sterilità[2].

Nello specifico per il giudice di Pordenone sarebbe incostituzionale l’art. 5 della legge 40, nella parte in cui limita l’accesso alla PMA alle “sole coppie di sesso diverso”, e l’art. 12, commi 2, 9 e 10, nella parte in cui sanziona l’applicazione di tali tecniche “a coppie … composte da soggetti dello stesso sesso”.  Il Tribunale di Bolzano dubita della legittimità costituzionale anche dell’art. 1, commi 1 e 2, e dell’art. 4 della stessa legge, “nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile”.

Le disposizioni censurate violerebbero l’art. 2 Cost., non garantendo il “diritto alla genitorialità” dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità – tenuto conto della natura di famiglia della formazione sociale fondata sull’unione civile -; l’art. 3 Cost. in quanto vi sarebbe una disparità di trattamento in relazione all’orientamento sessuale e alle disponibilità economiche delle coppie; l’art. 31 Cost. che impone di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo; l’art. 32 Cost. giacché il divieto di accesso alla PMA per le coppie omosessuali nuocerebbe alla salute psicofisica della coppia; gli artt. 11 e 117 Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU per l’interferenza nella vita privata e familiare della coppia basata sull’orientamento sessuale e per la discriminazione.

In via preliminare la Corte costituzionale ricorda come, per costante giurisprudenza, il giudizio in via incidentale sia limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, escludendo in tal modo gli ulteriori profili di costituzionalità non fatti propri dal giudice a quo e dedotti dalle parti. Viste le questioni analoghe, relative in parte alle medesime norme, i relativi giudizi sono stati riuniti e decisi con la stessa decisione.

  1. Il divieto assoluto di maternità surrogata e la richiesta di eterologa per “l’infertilità sociale”.

La Consulta, come anche il Tribunale di Bolzano, limita il petitum alle coppie omosessuali femminili, ricordando il divieto previsto dall’art. 12, comma 6, della legge 40 del 2004 che punisce “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità ”[3].

Per le coppie maschili la “genitorialità artificiale” sarebbe, infatti, possibile solamente attraverso la maternità surrogata ( o gestazione per altri) e cioè “l’accordo attraverso il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a «reclamare diritti» sul bambino che nascerà”. Il Giudice costituzionale ribadisce che “tale pratica è vietata in assoluto” e che il divieto, previsto dalla legge 40 del 2004, è considerato dalla giurisprudenza espressivo di un principio di ordine pubblico[4].

Per le coppie omosessuali femminili le riflessioni che fa la Corte sono diverse. La procreazione assistita in questo caso non si attuerebbe attraverso il ricorso alla maternità surrogata ma mediante le tecniche di fecondazione eterologa (in vivo o in vitro), con l’uso di gameti maschili da donatore: tale pratica, in origine vietata dall’art. 4 della legge 40 del 2004, è divenuta fruibile, come noto, con la sentenza n. 162 del 2014, che ha eliminato il divieto.

La Consulta ricorda come l’eterologa è oggi consentita per le coppie di sesso diverso in caso di sterilità o infertilità assoluta e irreversibile. Nel caso di accoglimento delle questioni oggetto del giudizio la fecondazione eterologa verrebbe estesa a quella che la Corte definisce una “infertilità sociale” o “relazionale”, “fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente alla non complementarietà biologica” delle due donne componenti della coppia. Fisiologicamente, biologicamente per la procreazione attraverso le tecniche artificiali della coppia omosessuale femminile è necessario l’intervento del donatore esterno alla coppia del gamete: ecco la richiesta di “eterologa per infertilità sociale” (o, come chiarirà in prosieguo la Corte, per infertilità “fisiologica”).

  1. Il progresso delle tecniche mediche e i “temi eticamente sensibili”: il primato del Parlamento

La Consulta prima di entrare nel merito della decisione ricorda che spetta al Parlamento, “«nei temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014)” il compito di effettuare il bilanciamento tra valori fondamentali – quali il progresso e la ricerca scientifica, la salute e la vita – che entrano in conflitto. A tal proposito la legge 40 del 2004 è stata “la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche” e coinvolge “una pluralità di rilevanti interessi costituzionali (sent. n. 45  del 2005)”.

La Corte menziona la sua giurisprudenza in materia, ed in particolare la sent. n. 162 del 2014 e la sent. n. 84 del 2016, riaffermando che, nelle tematiche sensibili, “la linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori in conflitto…» ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate..” sotto il profilo della ragionevolezza. Pertanto, “l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore»”[5].

  1. Il punto problematico all’esame della Corte: il “desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie” è un diritto?

Il progresso tecnologico ha consentito una scissione tra atto sessuale e procreazione: l’interrogativo di fondo, che si pone la Consulta per risolvere il dubbio di legittimità costituzionale, è allora “se sia configurabile – e in quali limiti – un «diritto a procreare» (o «alla genitorialità»…) comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale”[6]. In altre parole esiste un  diritto a veder soddisfatto il “desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie”?

Per risolvere il quesito la Corte rintraccia “due idee di base” che si ricavano dalla legge 40 del 2004.

La prima fa riferimento alla funzione delle tecniche di procreazione artificiale. Come si evince dall’art. 1[7] e confermato dall’art. 4, comma 1[8], della legge 40, tali tecniche costituiscono “un rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile”, accertata  e certificata, tra l’altro, da atto medico. Tale funzione, come si legge nella motivazione della sentenza, porta ad escludere chiaramente che “la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del «desiderio di genitorialità» alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”.

La seconda riflessione che fa la Corte è legata alla “struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione”. In particolare l’art. 5 della legge 40 – e sul versante sanzionatorio l’art. 12, commi 2 e 9[9] –, nell’individuare i requisiti soggettivi per l’accesso alla PMA – si deve trattare di “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” – riflette un preciso paradigma familiare, caratterizzato dalla presenza di una madre e di un padre. La scelta legislativa di fondo è, pertanto, quella di “riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna”.

Tali considerazioni, per la Consulta, non sono messe in dubbio dalla sentenza n. 162 del 2014,  che ha aperto l’ingresso nel nostro ordinamento alla fecondazione di tipo eterologo, dal momento che anche per essa rimangono imprescindibili i requisiti soggettivi indicati dall’art. 5 citato.

Le due “idee guida” delineate dal legislatore del 2004 – la funzione delle tecniche e la struttura familiare da esse delineata – sarebbero sconfessate con l’ammissione della PMA per le coppie omosessuali.

Al contrario, “l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è …fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale”, così come non vi  è “alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia”.

La ratio è la distinzione che la Corte fa tra i due casi “chiaramente e ontologicamente distinti”: il caso dell’infertilità “fisiologica” (definita in precedenza “sociale” e “relazionale”), propria della coppia formata da due donne e conseguente, come già visto, alla “non complementarità biologica” dei componenti della coppia; e quello dell’infertilità “di tipo assoluto e irreversibile” della coppia, formata da un uomo e una donna, affetta da una patologia riproduttiva. L’infertilità fisiologica della coppia omosessuale femminile è simile per la Corte a quella fisiologica della donna sola. Da ciò l’infondatezza delle questioni in merito all’art. 3 e 117 Cost.

Tali conclusioni sono confermate più avanti nella motivazione, al par. 17 del Considerato in diritto, dove viene rilevato “il vizio di prospettiva”: la presenza di patologie riproduttive è infatti “un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante…nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso”[10]. 

  1. La “famiglia ad instar naturae”: il luogo per accogliere e crescere il nuovo nato. La differenza essenziale tra adozione e pma

Le cautele e la tutela degli interessi (e dei diritti) del bambino, nato attraverso le tecniche di PMA, non rivestono un ruolo secondario nella motivazione della Corte: “non può”, infatti, “considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato”. L’idea di fondo sottesa alla disciplina è “che una famiglia ad instar naturae” – con le caratteristiche già evidenziate e contenute nell’art. 5 della legge 40 ed, in particolare, formata da “due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere” il bambino. Tale considerazione non è in sé irrazionale, ma anzi, fa propria la “condizione chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia”. E ciò a prescindere dall’esistenza di situazioni differenti nelle quali oggi si esplica la funzione genitoriale (la Corte per esempio riporta il caso della donna sola che cresce il figlio).

Tali conclusioni per la Corte restano valide nonostante la giurisprudenza comune in alcuni casi abbia riconosciuto l’adozione non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore  ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983: vi è, infatti, per la Corte, “una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA”. L’adozione “presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio alla coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo”; il minore è già nato e, anche nel caso previsto dall’art. 44, comma 1, lettera d), è l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive che viene tutelato (che va verificato comunque caso per caso). Nella procreazione artificiale, invece, il bambino deve ancora nascere: non è perciò irragionevole “che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che …appaiono, in astratto, come le migliori «condizioni di partenza»”.

  1. La tutela costituzionale della «salute» non estendibile a qualsiasi desiderio

Per quanto riguarda la presunta violazione dell’art. 32 Cost. – nella considerazione che il divieto di accesso alla PMA per le coppie omosessuali nuocerebbe alla salute psicofisica della coppia – la Consulta ricorda come “la tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale”[11]. Dunque non ogni desiderio o ogni bisogno percepito dall’individuo come necessario rientra nella tutela offerta dal diritto alla salute: tale diritto non si fonda esclusivamente su percezioni soggettive, soprattutto in materia di procreazione artificiale.

Ammettere un principio contrario vorrebbe dire dichiarare “incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto” alla realizzazione del desiderio: “sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustanti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA…”

  1. Prime riflessioni: desiderio o diritto alla genitorialità? Il riconoscimenti di limiti all’autodeterminazione in materia

La Corte ha, dunque, dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale in relazione ai requisiti soggettivi per l’accesso alle tecniche di procreazione artificiale contenuti nell’art. 5 della legge 40.

All’interrogativo che si pone la Consulta nella sentenza, e cioè se esiste un  diritto a veder soddisfatto il “desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie”, viene data risposta negativa ricordando il ruolo primario del Parlamento in temi eticamente sensibili e rilevando la ragionevolezza della disciplina contenuta nell’art. 5 della legge 40, in relazione alla funzione della PMA e alla tutela delle condizioni, almeno in astratto, ritenute migliori per il nuovo nato, identificate nella «famiglia ad instar naturae».

La Consulta ha escluso che la procreazione assistita “possa rappresentare una modalità di realizzazione del «desiderio di genitorialità» alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”. Di fronte alle richieste del riconoscimento del diritto alla genitorialità la Corte ripone la questione in termine di desiderio: non ogni aspirazione soggettiva può essere costituzionalmente tutelata come diritto.

Alcune considerazioni vengono offerte anche rispetto al tema dell’autodeterminazione individuale, il valore “tiranno”, sempre più in espansione, soprattutto nelle tematiche etiche, in grado di prevalere finanche sulla vita: esso trova nella decisione della Corte un punto d’arresto. In materia di procreazione artificiale, secondo il giudice delle leggi, “la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti…e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA”, le quali, alterano “le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico”[12].

Francesca Piergentili

Avvocato, Dottore di ricerca in Categorie giuridiche e tecnologia, Univ. Europea di Roma

[1] Le questioni di legittimità sono state sollevate con l’ord. n. 129 del 2018 del Tribunale ordinario di Pordenone (pubblicata in G.U. n. 38 del 2018) e con l’ord. 60 2019 del Tribunale ordinario di Bolzano ( pubblicata nella G.U. n. 17 del 2019)

[2] Cfr. par. 8 del Considerando in diritto

[3] Il comma 6 dell’art. 12 della L. 40 del 2004 punisce la commercializzazione di gameti o embrioni e la maternità surrogata con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.

[4] Cfr. par. 8 del Considerando in diritto. In particolare la Corte ricorda sul punto Cass, S.U. civili, sent. 8 maggio 2019, n. 12193)

[5] V. par. 9 del Considerando in diritto

[6] Par. 10 del Considerando in diritto

[7] Art. 1 legge 40: “1. Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito.

2.Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”.

[8] Art. 4 della legge 40: “1. Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”.

[9] Art. 12 della legge 40: 2. Chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro.

  1.  È disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui al presente articolo, salvo quanto previsto dal comma 7.

[10] Par. 17 del Considerato in diritto. Nel giudizio innanzi il Tribunale di Bolzano entrambe le ricorrenti, parti dell’unione civile, sono donne affette da patologie riproduttive.

[11] Par. 16 del Considerato in diritto

[12] Par. 13.1 del Considerato in diritto

 

Corte costituzionale e genitori dello stesso sesso allo stato civile: atto di intervento del Centro Studi Livatino

Corte costituzionale e genitori dello stesso sesso allo stato civile: atto di intervento del Centro Studi Livatino

Mercoledì 9 la Corte costituzionale esamina la questione riguardante la legittimità costituzionale dell’attuale preclusione all’iscrizione nei registri dello stato civile di un bambino come figli di due persone dello stesso sesso. Il Centro Studi Rosario Livatino ha proposto un atto di intervento, cui ha fatto seguire una memoria integrativa. Pubblichiamo la scheda del giudizio di costituzionalità, tratta dal sito della Corte costituzionale, e i due documenti del CS Livatino, a firma dei professori Paladini e Cecchetti. (altro…)

Fine vita e amministratore di sostegno: il Giudice tutelare di Roma disattende la Corte costituzionale

Fine vita e amministratore di sostegno: il Giudice tutelare di Roma disattende la Corte costituzionale

La decisione recentemente assunta dal Giudice tutelare del Tribunale di Roma in materia di potere dell’amministratore di sostegno di disporre la sospensione di cure salvavita prestate ad un soggetto amministrato (provvedimento del 23/09/2019), in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, impone il richiamo al principio affermato in materia dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 144/2019, pronunciata il 13/06/2019.

Il giudice tutelare del Tribunale di Roma, sulla richiesta presentata da un amministratore di sostegno, cui era stato attribuito il potere di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, di disporre la sospensione di trattamenti sanitari di mantenimento in vita, ha deciso il non luogo a provvedere, ritenendo il suo intervento limitato al caso in cui dovesse sussistere il contrasto di cui all’art. 3 co. 5 legge n. 217/2019, al legge sulle dat-disposzioni anticipate di trattamento: “Nel caso in cui […] l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’art. 4 […] rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria“.

Su tale norma la Corte Costituzionale si è così espressa: “L’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, tenuto conto dei principi che conformano l’amministrazione di sostegno, porta allora conclusivamente a negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda” ( sentenza n. 144/2019).

Con questo la Corte esclude che l’amministratore di sostegno con rappresentanza esclusiva o assistenza necessaria in ambito sanitario abbia perciò solo il potere di rifiutare/ sospendere i trattamenti sanitari di mantenimento in vita, ove tale potere non gli sia espressamente attribuito dal giudice tutelare. L’intervento dell’autorità giudiziaria è funzionale alla tutela del carattere personalissimo e della speculare indisponibilità altrui del diritto di rifiuto delle cure e del diritto alla vita.

Per concludere: la tanto celebrata (dai media e dai fautori dell’eutanasia) decisione del GT di Roma si pone in evidente e netto contrasto con quanto sancito dalla Corte costituzionale, nell’interpretazione da essa data alla legge sulle dat, nella parte riguardante l’amministratore di sostegno.

M.F.

Una sconfitta di civiltà

Una sconfitta di civiltà

Articolo di Alfredo Mantovano pubblicato su Il Foglio quotidiano venerdì 27 settembre 2019

La decisione della Consulta sul suicidio assistito segna la vittoria di una cultura libertaria e relativista penetrata da decenni nella nostra società. Il compito del Parlamento, ora, sarà ancora più complicato

Provo a ragionare in prospettiva, muovendomi sulla traccia della nota stampa diffusa dalla Corte costituzionale l’altra sera – in uno con l’ordinanza n. 207 di dieci mesi fa -, e immaginando vari lievi di intervento.

Prima domanda: la sentenza della Consulta avrà effetti concreti e immediati? Se sì, quali? Non è una quesito capzioso, perché la Corte non dichiara illegittimo l’art. 580 del cod. pen.: demanda al giudice del singolo caso stabilire se sussistono le condizioni per la non punibilità, presupponendo che comunque un procedimento penale si avvii per operare la verifica richiesta.

Fra le condizioni, la nota stampa, e prima l’ordinanza, indicano quale pregiudiziale a ogni trattamento di fine vita il ricorso alle cure palliative. Cure che, entrate nell’ordinamento con la legge n.38/2010, non hanno mai trovato attuazione: nelle facoltà di medicina manca l’apposita disciplina, i corsi di specializzazione si contano sulle punta delle dita di una mano, e per questo non ci sono i medici palliativisti e i relativi reparti. Immaginiamo che il Governo voglia recuperare il gap e inserisca nella legge di stabilità le risorse finora mancate: per la piena fruibilità delle cure sull’intero territorio nazionale trascorrerebbe, se va bene, un decennio. E nel frattempo? La nota precisa che “la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa (…) sulle cure palliative”: “subordinare” vuol dire che la punibilità opera se prima non sono attivate le cure palliative. Vi è una logica: se l’impulso a chiedere l’assistenza al suicidio deriva dall’intollerabilità delle sofferenze del paziente, circoscriverle può far venir meno la richiesta. Ma se questo è il quadro, la medesima logica impone che la sentenza della Consulta non si applichi prima che le cure palliative vadano a pieno regime. La sentenza chiarirà quest’aspetto?

La Corte affida le “modalità di esecuzione” a “una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”. Anche qui i problemi sono tanti: non  vi è solo la medicalizzazione del suicidio assistito, bensì pure la sua presa in carico dal servizio pubblico. Rispetto all’ordinanza n. 207 c’è qualcosa in meno: la nota non menziona l’obiezione di coscienza per il medico. E’ per sintesi del comunicato o, come è già nella legge sulle “dat”-le disposizioni anticipate di trattamento, l’omissione è voluta? E c’è qualcosa in più: il parere del Comitato etico competente per territorio. Si riconosca o meno il diritto all’obiezione, il medico, come la Federazione degli Ordini ha sottolineato in un documento di qualche mese fa, viene chiamato a compiere un atto vietato dal proprio codice deontologico; il problema, prima ancora della valvola di sfogo dell’obiezione (il cui eventuale mancato riconoscimento violerebbe, esso sì, più nome costituzionali), è il rapporto fra legge dello Stato, o sentenza della Consulta, e norme di deontologia: quale prevale? Non è così semplice, se ne dibatte da decenni: diventa cruciale a fronte di scelte di morte. Quanto al Comitato etico, in Belgio e in Olanda – nei quali eutanasia e suicidio assistito sono legali da tempo – c’è qualcosa di simile, ma svolge una verifica ex post sulla correttezza della procedura. La sentenza dirà qualcosa su profili così rilevanti?

Vi è un livello successivo: quello della legge che dovrà seguire alla sentenza: legge dalla Consulta definita “indispensabile”. L’impressione è che larga parte del Parlamento – qualche gruppo politico lo ha pure detto in esplicito – non avesse voglia di impegnarsi in una materia così difficile, e preferisse lasciare il “lavoro sporco” ai giudici costituzionali. Lo stesso Governo mostra di aver condiviso questo tratto, allorché non ha fatto chiedere dall’Avvocatura dello Stato nel giudizio di costituzionalità il rinvio, che ci sarebbe stato tutto, per dare più tempo alle Camere. Il risultato è che oggi il compito del Parlamento è, se possibile, ancora più complicato, dovendo fare i conti con le contraddizioni della sentenza e con la necessità di sciogliere i nodi che essa presenta. Non è immaginabile di uscirsene con qualche slogan da social.

Vi è un ulteriore livello: quello in senso lato culturale. Di una “cultura” libertaria e relativista che ha trasformato un giudizio di legittimità, che per Costituzione avrebbe a oggetto una norma, in un giudizio sulla punibilità dell’on. Cappato e di chi fa come lui; e che ha impostato il dibattito mediatico in una disputa (quando c’è stata) fra cantori dell’autodeterminazione e vescovi, lasciando fuori le prioritarie e non confessionali ragioni di ordine antropologico. Quanto accaduto in Italia a partire dal caso Englaro, poi con la legge sulle “dat”, e quindi con le decisioni della Consulta, è l’esito della prevalenza di orientamenti penetrati nel corso dei decenni nella comunità scientifica, nelle università, nelle aule di giustizia, e quindi nei media e nella politica. Chi non condivide questi esiti sappia che la strada da percorrere non può limitarsi al pur necessario intervento legislativo: deve approfondire l’elaborazione di una cultura delle vita e della cura della sofferenza rispettosa della dignità e dell’unicità di ogni persona. Cercare scorciatoie significa rassegnarsi a una sconfitta di civiltà.

“Che sconfitta, la morte è negazione della libertà”

“Che sconfitta, la morte è negazione della libertà”

Intervista di Manila Alfano a Paola Braggion, pubblicata su Il Giornale del 26 settembre 2019.

Paola Braggion, consigliere del Csm dell’ala della magistratura indipendente parla di questa sentenza come qualcosa che si è sciolto, sgretolato. E che fa paura. «Di una via di fuga ammessa dalla legge: in situazioni di difficoltà il suicidio potrebbe essere una scelta». (altro…)