Giu 18, 2022
Il giudice istruttore Bonifazi (Ugo Tognazzi), integerrimo magistrato, indagando sul sospetto omicidio di una giovane, Silvana, desume dall’interrogatorio dei genitori della ragazza il possibile coinvolgimento di Lorenzo Santenocito (Vittorio Gassman), un imprenditore edile ricco e senza scrupoli: sotto l’etichetta delle “pubbliche relazioni”, si serviva di Silvana per intrattenere i suoi altocati clienti. Santenocito, dopo aver cercato di bloccare sia con le minacce che con le lusinghe l’inchiesta di Bonifazi e dopo fatto rinchiudere in manicomio il proprio anziano padre, che non si era prestato a fornirgli un alibi per la sera della morte di Silvana, riesce finalmente a procurarsi una falsa testimonianza, che dovrebbe scagionarlo. Bonifazi però smaschera il falso alibi e ne ordina l’arresto. L’industriale tuttavia non ha ucciso Silvana: lo scoprirà lo stesso giudice istruttore, leggendo il diario della povera ragazza. Al termine di una giornata in cui Roma impazzisce per la vittoria della Nazionale di calcio sull’Inghilterra, Bonifazi giunge con amarezza alla vera conclusione dell’inchiesta: certe cose avvengono perché sono il “sistema” e l’ottusa coscienza generale a consentirle. Distruggendo la prova dell’innocenza dell’indiziato, il giudice deciderà perciò di trascinarlo ugualmente in tribunale, per colpire, attraverso lui, tutto quello che egli rappresenta.
1. Oltre che un film profetico, In nome del popolo italiano è il ritratto di una nazione. Risi, supportato dalla sceneggiatura di Age e Scarpelli, racconta una Italia degli anni 1970, attraversata da istanze rivoluzionarie. A ‘destra’ l’industriale Renzo Santenocito (Vittorio Gassman) tangentista con agganci nelle alte sfere, a ‘sinistra’ il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi) che cerca di incastrarlo in un caso di omicidio. Il quadro rappresentato è nell’insieme decadente: mostri architettonici in demolizione, mari inquinati dagli scarichi industriali, strade che si sgretolano, palazzi di giustizia che vengono giù a pezzi. L’orrore ambientale è specchio dell’avidità e della grettezza morale di un Paese che tira avanti con il colpo di gomito e la strizzatina d’occhio: il qualunquismo è trasversale e colpisce tutti. All’interno della stessa magistratura vi sono connivenze politiche e “strabismi legislativi”.
Gassman rende al meglio la figura dell’ingegnere Santenocito: un uomo che dietro la ricercatezza dei termini nasconde il vuoto di un nuovo mostro in giacca e cravatta in preda a soliloqui del tipo: “io rifiuto il piattume delle terminologie indifferenziate. Più parole, più idee. Si! Io amo il linguaggio aderenziale e desemplicizzato…”.
Il film, uscito nel pieno degli gli anni di piombo, ha un’atmosfera plumbea e catastrofica, incarnata nella rappresentazione di spiagge sporche e abbandonate, di degrado ambientale conseguente all’inquinamento che in quegli anni era davvero incontrollato (la legge Merli, la prima che ha affrontato l’inquinamento delle acque, è solo del 1976), del crollo del Palazzo di Giustizia e del grigiore dei suoi androni e degli uffici: un’aria catastrofica che coinvolge i (magistrali) protagonisti, l’imprenditore senza scrupoli e l’integerrimo magistrato.
2. Il giudice Bonifazi è il prototipo dell’anti-eroe. Crede nella giustizia e la vuole esercitare nel nome del popolo italiano, nel nome e per conto degli italiani probi ed onesti. Ma quanti e quali sono gli italiani onesti e integerrimi fino in fondo? «Ma voi altri magistrati, non lo avete ancora capito che questo popolo italiano nel nome del quale sentenziate non merita un cacchio?», dice a inizio film a Bonifazi il professor Rivaroli, incaricato di effettuare l’autopsia della giovane escort Silvana. Il popolo italiano è anche quello gretto, violento e volgare, che si riversa in piazza a festeggiare in modo sguaiato la vittoria in una partita di calcio.
E il magistrato interpretato da Tognazzi è cosi ligio al dovere di operatore di giustizia? Bonifazi brucia il diario di Silvana, quello che riporta la prova dell’innocenza di Santenocito , in carcere per un omicidio che non ha compiuto: la ragazza, escort di professione, non per mantenere una famiglia povera, ma per ambizioni di ricchezza e successo, si è suicidata.
È deprecabile che un giudice si faccia prendere la mano e percorra la strada di un feroce giustizialismo: ma se Santenocito era innocente per l’omicidio, lo era per il resto? Un uomo di bassa caratura morale, che costruisce un falso alibi, che ha fondato e sviluppato un impero economico valicando confini etici e morali, ancor prima che le leggi; pronto a mandare in manicomio l’anziano padre che si era rifiutato di aiutarlo, con il falso alibi. Quanti Santenocito esistevano, ed esistono?
3. Il giudice istruttore Bonifazi conduce le indagini sulla morte di Silvana, egli è dunque un Giudice, si “sente” profondamente Giudice e non “uomo di parte” come lui considera il Pubblico Ministero: emblematica in questo senso è la discussione che ha, nei corridoi e per le scale del Palazzo di Giustizia con il dott. Perrocchio, p.m. che aveva “passato” all’ufficio di Bonifazi il caso della “puttanella drogata” (parole di Perrocchio) e chiedeva una veloce conclusione delle indagini.
Quello che proprio Bonifazi non sopporta è l’atteggiamento di questo p.m., non sopporta che definisca così chiami quella povera ragazza, non sopporta che gli metta fretta nello svolgimento delle indagini e che gli dica in quale direzione rivolgere le sue attenzioni investigative (“indebite interferenze”, le chiama così Bonifazi).
Bonifazi considera Perrocchio un pubblico accusatore freddo e cieco, preoccupato solamente di applicare le norme. P.M. e Giudice: l’annosa diatriba del nostro ordinamento giudiziario che negli ultimi due decenni è stata alla ribalta della “questione giustizia” (e lo è ancora), ma che arriva da lontano, tanto che Age e Scarpelli nel 1971 marcavano questa distinzione tra i due personaggi della loro storia: il Giudice deve essere “terzo” tra le parti del processo, egli non è una “parte” processuale come invece è il pubblico accusatore.
4. È qui che si evidenziano le profonde differenze non solo tra Bonifazi e Perrocchio, ma tra il Giudice ed ogni altro personaggio del film: la presunta superiorità morale di Bonifazi lo spingerà a far di tutto per arrivare a cercare quella “verità” che si è precostituita nella mente perché, se i fatti fossero davvero andati così come egli ha pensato (e cioè che Silvana sia stata uccisa dall’Ing. Santenocito), ne avrebbe un piacere immenso (e non solo perché avrebbe fatto punire il colpevole, ma perché Santenocito è comunque colpevole, e non può essere altrimenti per Bonifazi), perché egli in cuor suo sa bene da che parte sta il male e dove il bene, ed un Giudice (o comunque un magistrato che abbia indipendenza morale) deve – come vedremo, a ogni costo – estirpare la mala pianta.
Bonifazi getterà nell’immondizia il diario di Silvana, dal quale apprende – per averlo scritto la stessa Silvana – che le ecchimosi e i segni delle percosse sul suo corpo (“botte e colpi e compagnia bella, insomma qualcuno l’ha menata…” aveva affermato il medico legale Brunori, sbagliando clamorosamente), non sono altro che la conseguenza di un “normale” tamponamento con “gran testata al parabrezza. La fronte e un ginocchio mi fanno malissimo” (dal diario di Silvana): e lui che era certo che fosse stata picchiata e che lo avesse fatto il suo indiziato eccellente!
Ma il colpo finale alle sue convinzioni di colpevolezza è scritto nel diario alla pagina del 7 Maggio (data della morte di Silvana): la ragazza ha vergato queste poche, eloquenti, parole “7 Maggio. Fourteenth lesson. No: this is my last lesson, questa è la mia ultima lezione. Ruhenol”. Il Ruhenol è un medicinale contenente un alcaloide sintetico, tipo “eroina” e la ragazza è morta per “eccessivo uso di oppiacei”, come aveva affermato il medico legale.
Che cosa farà dunque del diario che scagionerebbe Santenocito? È qui che il Giudice si pone contro quella legge che lui chiamato ad applicare: getta il diario nell’immondizia, facendo perdere per sempre la prova dell’innocenza del Suo “nemico”: egli è dunque convinto che la Giustizia si attui (anche) attraverso queste manipolazioni, purché il sistema venga finalmente scardinato e quindi i biechi personaggi come Santenicito siano comunque perseguiti perché la loro “colpa” è quella di ostacolare un percorso “inarrestabile”.
5. Rileggendo un libro pubblicato nel 1998, nel quale il magistrato Francesco Misiani ripercorre gli anni della sua attività di Giudice a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta (“La toga rossa” di Carlo Bonini e Francesco Misiani; Marco Tropea Editore), a pagina 29 troviamo scritto: “La sintesi è nella mozione approvata a Roma, in dicembre (il 5 Dicembre 1971, esattamente lo stesso anno in cui il film è stato scritto, ndr). “Il nostro comune assunto teorico” si legge “è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”.
Obiettivo è dunque “La realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare la giustizia delle sue caratteristiche di strumento e di tutela degli interessi delle classi dominanti per renderla funzionale alle esigenze di uguaglianza, partecipazione ed emancipazione, sociale ed economica, delle classi lavoratrici”.
La Giustizia “da piegare” per il raggiungimento di un obiettivo. Come la “giustizia” praticata dalla Corte Marziale in “Orizzonti di gloria”: la condanna dei tre fanti era scritta, la loro punizione non era dovuta perché realmente colpevoli, ma perché ritenuti simbolo di ciò che i loro “carnefici” volevano in quel momento avversare e combattere[1].
Il diritto diventa così solo quello del più forte e non quello di tutti. Il Giudice Bonifazi ha ceduto a tutto questo: si può considerare un buon giudice?
Per un uomo di legge, la verità dovrebbe essere l’obiettivo dell’azione, a costo di scagionare il peggior nemico. «Io mi chiedo: se è ancora utile investire tante energie per l’applicazione delle leggi o se invece, rinunciando a vacue speranze e ad aspettative mai ripagate, non ci convenisse accettare l’ingiustizia come regola e non come eccezione, questo nella speranza ovviamente che almeno l’ingiustizia sia uguale per tutti», recitava Alberto Sordi in “Tutti dentro“[2].
Il suo Salvemini, per incastrare i colpevoli e i “pesci grossi”, esce dai confini dell’azione giudiziaria, veste i panni del detective, e manda in carcere anche persone che non hanno responsabilità. Nel finale si ritrova ingiustamente incriminato e la sua posizione è al vaglio di giudici verosimilmente onesti, che potrebbe condannarlo, giustamente, per delle prove che sembrano effettivamente inconfutabili, ma che in realtà sono state costruite a tavolino dai suoi nemici. E allora la speranza è nell’ingiustizia che restituisca a Salvemini la sua innocenza. Bonifazi invece incastra con una falsa accusa chi era riuscito sempre a eludere la legge. Il sistema si può combattere in questo modo? Si possono distruggere centri di potere giocando così sporco? «Io sono stufo di essere difensore di leggi che proteggono una società che fa schifo, perché consentano a individui come lei di prosperare e proliferare», è lo sfogo di Bonifazi.
Ma Santenocito gli risponde: «Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto. Lei non è un buon giudice». Noi da che parte stiamo? O vi è la strada, del tutto alternativa, del rispetto della verità del fatto, raggiunta nel rispetto delle regole, della quale è stato maestro Rosario Livatino?
Daniele Onori
[1] Cfr https://www.oralegalenews.it/magazine/in-nome-del-popolo-italiano/12369/2020/
[2] Cfr https://www.centrostudilivatino.it/3-tutti-dentro-1984-di-alberto-sordi/
Mar 14, 2022
“In nome della legge” è stato il primo film sulla mafia: girato nell’estate del 1948 a Sciacca. Pietro Germi erano affiancato da due all’epoca giovani registi, Federico Fellini e Mario Monicelli, che ne firmarono la sceneggiatura. La pellicola era tratta dal romanzo “Piccola pretura” di Giuseppe Guido Lo Schiavo, un ex magistrato che aveva raccontato la sua esperienza di pretore a Barrafranca, nell’ennese. Con le case basse e bianche, la campagna luminosa, le masserie di pietra, Sciacca dava l’idea del luogo tipico della mafia rurale che, col suo codice d’onore e le sue leggi non scritte, si sostituiva allo Stato. Ma un giorno lo Stato arrivò: il settentrionale Guido Schiavi, un Massimo Girotti all’inizio della carriera, scopre i legami fra i ricchi proprietari terrieri e la mafia capeggiata da Turi Passalacqua (Charles Vanel), attirandosi l’ostilità dei notabili del luogo.
Nel 1949 Pietro Germi gira In nome della legge, tratto dal romanzo Piccola pretura, scritto da Giuseppe Guido Lo Schiavo[1]. In nome della legge segue gli sforzi del pretore Guido Schiavi (Massimo Girotti) per dare una svolta alla situazione di abbandono secolare in cui versa Capodarso, paese dell’entroterra siciliano dove è stato destinato, in un momento storico in cui la pretura mandamentale era l’avamposto giudiziario dello Stato sul territorio[2].
Una stazione sperduta è testimone del passaggio di consegne tra il pretore Schiavi e il suo predecessore, sopraffatto dal clima di soprusi e risentimenti (“Sei ancora in tempo, vieni via con me: mi ringrazierai quando saprai la mia storia”); tra di loro, un solitario binario ferroviario, una coltellata tirata dal cielo per separare due dimensioni vitali e temporali ostinatamente contrapposte. E così, nel suo intento per far luce sui crimini che stanno tingendo di sangue Capodarso, il nuovo pretore si imbatte in una terra di frontiera dove il concetto di legge assomiglia alle sabbie mobili, la giustizia è prerogativa della mafia e lo Stato non può o non vuole arrivare.
In paese egli è accolto con diffidenza e con ostilità: l’unico a dimostrargli simpatia è un giovanotto di nome Paolino. Il giorno successivo al suo arrivo il pretore deve occuparsi di un omicidio; ma l’inchiesta è difficile, perché nessuno vuol parlare. Una parte della popolazione è disoccupata, in seguito alla chiusura di una zolfara. Il pretore cerca di risolvere il problema, inducendo il barone Lo Verso, che amministra la zolfara, a riaprirla. Il barone, legato a filo doppio con la mafia, cerca di corrompere il pretore e, non riuscendovi, gli fa tendere un agguato. Il pretore resta soltanto ferito, ma il Procuratore Generale, accennando alla presunta ostilità della popolazione, gli consiglia di chiedere un trasferimento. Avvilito, decide di andarsene; ma quando apprende che Paolino, vittima innocente, è stato ucciso dalla mafia, ritorna in paese e convocati sulla piazza gli abitanti, annuncia che resterà al suo posto, deciso a ristabilire ad ogni costo il rispetto della legge[3].
Prima con la riapertura della miniera, poi con la dispersione dei solfatari che l’avevano occupata, Schiavi si metterà contro Lo Vasto e Passalacqua, provando sulla propria pelle il loro potere di vita e di morte, e persino contro tutto Capodarso, nell’intento disperato di squarciare il velo di paura, omertà e diffidenza che asfissia il paese: “Massaro, c’è una sola cosa che io devo e voglio fare a qualunque costo: amministrare giustizia a beneficio di tutti e, se occorre, contro tutti, secondo la legge” / Quale legge, pretore?”, chiede massaro Turi. “La sola legge che ci permette di vivere vicini”, risponde Schiavi, “senza scannarci come bestie feroci”.
Girato a Sciacca, luogo dell’“omicidio eccellente” di mafia del sindacalista Accursio Miraglia, lo stesso che servì da spunto a Sciascia per la stesura de Il giorno della civetta, il film raccoglie la dialettica sociale e condivisa alla radice della produzione artistica di Germi. Quando tutto sembra perso e sta per prendere la strada del suo predecessore, il pretore riceve una scossa brutale (la morte di Paolino per mano mafiosa) che lo convince a non mollare. Il discorso finale davanti al paese diventa un vero e proprio processo, un atto di accusa implacabile, non soltanto nei confronti della mafia, ma anche della mentalità mafiosa che permea una parte del tessuto socile, ugualmente colpevole, anche se non preme il grilletto: “Voi, che invece di aiutarmi a svolgere il mio compito, mi avete considerato un nemico della vostra pigrizia. Voi, che avete creato mille ostacoli al mio lavoro, che mi avete osteggiato come e quando avete potuto, che mi avete disprezzato e ignorato, denunciandomi come un perturbatore della vostra comoda quiete. Voi tutti, uomini e donne, che vi siete lasciati avvilire dalla paura anche quando si trattava di scoprire e punire gli assassini dei vostri figli, che avete tentato di sopraffare la legge persino quando difendeva i vostri interessi”.
La situazione che il giovane pretore trova al suo arrivo in paese è quella di una mafia si è alleata al signorotto del luogo e questi può, a suo piacimento, compiere speculazioni chiudendo una miniera da cui traevano lavoro e sostentamento gran parte della popolazione. Carabinieri e magistratura, indeboliti dal prevalere dei “mafiosi”, non possono nemmeno frenare il banditismo che dilaga nelle campagne contro il volere della stessa mafia: gli assassinii si susseguono, i furti sono all’ordine del giorno. Il pretore non si perde d’animo: parla chiaro con tutti e rifiuta persino l’alleanza con il capo-mafia, cui fa comprendere di ritenere volgare omicidio la sua cosiddetta “opera di giustizia”.
In poco tempo il paese intero è contro di lui – a cominciare dal signorotto che s’è visto intralciato nelle proprie speculazioni – e anche i suoi superiori, a Palermo, gli lasciano intuire di disapprovare uno zelo che non sarebbe servito a mutare una situazione vecchia. Stanco, sfiduciato, il pretore rinuncia, ma proprio mentre sta per lasciare l’incarico a un successore più acquiescente, i banditi gli uccidono l’unica persona che in quell’ambiente ostile gli si era accostata con amicizia, un ragazzetto coinvolto in una vendetta privata. Il pretore torna indietro, fa suonare le campane a martello, ai cittadini accorsi rinfaccia i loro torti, alla mafia sopraggiunta a cavallo dimostra il suo errore di volersi sostituire all’autorità legittima, e finalmente il capomafia comprende: i suoi uomini, dietro suo ordine, circondano l’assassino del ragazzo e lo consegnano al Pretore. Questi, arrestandolo, può così pronunciare la formula solenne che da anni non risuonava più in quei luoghi: “In nome della legge”.
Daniele Onori
[1] Magistrato esperto in diritto del lavoro, criminologia e procedura penale, ha scritto pure testi di narrativa. Interessandosi della mafia, ne ha dato una rappresentazione ambigua, di società criminale portatrice di virtù sociali, sia nelle opere letterarie sia in alcuni testi giuridici. Il suo esordio artistico è rappresentato proprio da questo romanzo autobiografico Piccola pretura (1948), ispirato all’esperienza di pretore che lui stesso compì a Barrafranca.
[2] Il pretore mandamentale era al tempo stesso pubblico ministero per i reati puniti meno gravemente, giudice dei reati medesimi, e svolgeva anche funzioni civili e di volontaria giurisdizione entro un certo limite di competenza. Questa figura è stata abolita con l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989.
[3] Vedi https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/in-nome-della-legge/4413/
Mar 13, 2022
Nessun sistema giuridico è autosufficiente, ma affonda le radici nei valori, principi, orientamenti dominanti della società che lo rappresenta. Obiettivo di questa nuova rubrica, che inizia oggi a cura di Daniele Onori, e che si affianca a Giuristi e a Diritto e Letteratura, è approfondire le non poche intersezioni tra le due realtà del Diritto e del Cinema. Spesso il film fornisce la percezione sociale diffusa del diritto, il modo nel quale esso è sentito, vissuto o addirittura subìto dalla collettività; se è soprattutto negli USA che nell’ultimo ventennio si è avuto un approfondimento o delle ricerche in tale campo, anche nel contesto italiano sono state diverse le iniziative dirette a promuovere studi e incontri per sensibilizzare giuristi e studenti: sono operativi “laboratori” in cui si articolano discussioni critiche di una serie di opere cinematografiche in corrispondenza con alcune problematiche interne al diritto ed alla filosofia del diritto.
In questa rubrica non saranno ripercorsi i modi in cui la realtà giuridica viene rappresentata al cinema: si punta a evidenziare come attraverso il cinema si rendano visibili aspetti critici del mondo del diritto. Un diritto che si interroga sui suoi legami con il cinema, una scientia juris che riflette sul rapporto fra norme e cinematografia è una scientia juris fiacca, che perde il proprio ruolo specifico, che cerca linfa vitale in spunti culturali differenti, perché non è più in grado di svolgere il proprio compito? La risposta è negativa: il diritto è hominum causa constitutum, e come tale interessa la vita nella sua pienezza, coniugando empatia, conoscenza dei bisogni reali, condivisione della sofferenza, fantasia, intuizione. Nel saggio “Arte del diritto”, pubblicato nell’immediato Dopoguerra, nel momento si percepivano i limiti del riduzionismo positivista, Francesco Carnelutti osservava che “teorico perfetto sarebbe colui la cui teoria fosse vivificata dalla piena e completa conoscenza di tutta la pratica attività giuridica: tutti i rapporti morali, religiosi, politici, economici della vita reale dovrebbero essere presenti al suo sguardo”.
Gli avrebbero fatto eco le parole scritte nel 1955 da Tullio Ascarelli sulla Rivista internazionale di filosofia del diritto sotto il titolo celeberrimo di “Antigone e Porzia”: “Il problema del diritto è problema di ogni uomo e si pone quotidianamente a ciascuno di noi; forse perciò nel simbolizzarne i termini possiamo ancor prima che ai dotti ricorrere ai saggi e, ancor prima che agli studiosi, ai poeti”.