Il 5 agosto è scaduto il termine di tre mesi che la Corte costituzionale di Karlsruhe aveva concesso al Parlamento tedesco per valutare la proporzionalità del programma straordinario di intervento finanziario della BCE (PSPP Public Sector Purchase Programme, Programma di Acquisto del Settore Pubblico, altrimenti noto come QE-quantitative easing). In apparenza non è accaduto nulla. Il silenzio mediatico, almeno italiano, risalta ancora di più a fronte dell’enfasi che la pronuncia della BverfG aveva suscitato per le possibili ricadute sull’integrità dell’UE di una eventuale presa d’atto della Banca Centrale tedesca di non essere in grado di continuare a supportare il QE a causa delle censure della Corte costituzionale tedesca.
Qualcosa è accaduto, pur se in modo difforme dalle aspettative dei commentatori della sentenza del 5 maggio 2020. Il quotidiano Der Spiegel del 31 luglio ha dato notizia, senza che quest’ultima abbia incontrato sostanziale ripresa, che il Ministro delle Finanze della Germania, Olaf Scholz, ha inviato una lettera alla Corte Costituzionale tedesca in cui sono stati confermati la bontà della condotta della BCE in punto di QE, e il coinvolgimento anche per il futuro della Bundesbank nel programma di acquisto dei titoli di Stato delle singole Nazioni dell’Unione.
Tale comunicazione formale fa seguito al voto che il Parlamento di Berlino ha espresso, a larghissima maggioranza, col voto contrario solo di AfD–Alternative fur Deutscheland, già agli inizi di luglio, sulla mozione presentata dai partiti di governo della Grosse Koalition (CDU-CSU e SPD): “Sulla base della decisione del Consiglio direttivo della Bce e dei documenti ricevuti dalla Banca centrale europea, il Bundestag conclude che i requisiti della sentenza della Corte costituzionale del 5 maggio 2020 in merito alla valutazione della proporzionalità del programma PSPP sono soddisfatti”. La mozione aggiunge che “la Bce ha effettuato un esame dell’adeguatezza, della necessità e dell’appropriatezza delle misure di politica monetaria”.
Unica voce contraria al coro è stata quella del quotidiano Die Welt, espressione del “conservatorismo ordoliberista” che si era rivolto con successo alla Corte di Karlsruhe; esso ha censurato la fretta con cui i parlamentari sono stati chiamati a pronunciarsi sui documenti provenienti dalla BCE: quella stessa BCE che all’indomani del 5 maggio si era sdegnosamente dichiarata soggetta solo al controllo degli organi dell’Unione e che aveva rispedito al mittente la richiesta di chiarimenti provenienti dalla Corte delle leggi tedesca. I documenti, trasmessi dalla BCE il 22 giugno, sono arrivati al Bundestag – o comunque sono stati posti a disposizione dei parlamentari – lunedì 29 giugno, appena tre giorni prima della votazione, che si è svolta giovedì 2 luglio. “I documenti della Bce sono risultati di difficile comprensione anche per l’uso frequente di abbreviazioni criptiche, come ABSPP, CBPP-3, Opzioni di tipo 2, Hybrid stock-flow formulation”, tant’è che il Partito Liberale FDP, pur approvando la mozione, ha chiesto che per il futuro si rispetti una procedura più consona alle prerogative parlamentari, tale da permettere un più accurato esame della politica della Bce, non solo del PSPP (promosso da Mario Draghi, Presidente della BCE al momento del suo varo) ma anche del PEPP (il programma emergenziale della BCE guidata oggi dalla Lagarde), di cui i liberali tedeschi restano critici.
I documenti trasmessi dalla BCE al Bundestag – migliaia e migliaia di pagine in inglese, scritte in gergo finanziario – sono rimasti sostanzialmente ignoti anche dopo la loro pubblicazione a favore dei parlamentari, a dimostrazione di una pericolosa deriva di aggiramento della volontà popolare, se pure espressa attraverso i rappresentanti eletti. La deriva è confermata dalle dichiarazioni dello stesso Scholz il 22 giugno, quando cioè i documenti non erano ancora neppure stati trasmessi: “Non si tratta di un dramma irrisolvibile. Vedremo presto il raggiungimento di una soluzione indolore” (!).
Bene hanno fatto allora i commentatori italiani a concentrare l’attenzione sugli sforzi del presidente del Consiglio Conte per portare a casa il recovery fund , o al più sulla necessità di accedere o meno al MES?
In verità, la spinta decisiva data dalla Cancelliera Merkel, all’esordio del semestre di guida europea della Germania, per sbloccare la trattativa sul programma di ricostruzione dei Paesi europei colpiti dalla pandemia, che ha visto un successo quanto meno parziale, va letta in combinato disposto con il voto del Bundestag, essendo questo propedeutico, a mo’ di garanzia del ‘fronte interno’, alla scelta di promuovere finanziamenti e sussidi da parte della UE garantiti direttamente dai singoli Stati membri (qualcosa che somiglia molto ai c.d. eurobond) a favore di quelli maggiormente bisognosi, prescindendo dalla logica della ripartizione proporzionale alla loro partecipazione al bilancio UE.
Appare eccessivo affermare che questo significhi l’abbandono della pretesa tedesca, sancita proprio dalla sentenza della Corte federale di Karlsruhe, di avere l’ultima parola in capo agli organi elettivi del popolo tedesco anche nelle materie attribuite all’UE: quest’ultima è ancora strutturalmente lontana da una forma di Stato federale, avvicinandosi di più a una organizzazione di Stati sovrani, tra i quali qualcuno continua a sentirsi orwellianamente “più uguale degli altri”.
La lezione che sembra potersi trarre dalla vicenda tedesca è che le elìte politiche, quando vogliono, sono ancora in grado, specie se si tratta di Paesi ancora non declinanti – come purtroppo pare il nostro – in repubbliche giudiziarie, di far prevalere le proprie scelte sui diktat dei giudici, pur se si tratta di gruppi dirigenti che preferiscono assumere le decisioni in forme poco trasparenti, continuando ad alimentare lo scarso coinvolgimento popolare: con conseguente euroscetticismo, che non è il miglior carburante per condurre in porto la nave europea in tempi di rischi di naufragio.
Renato Veneruso