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TAR Emilia Romagna: a scuola niente invocazioni della protezione divina

Pubblichiamo un breve commento alla recente sentenza n. 166/2016 del TAR Emilia Romagna, già riportata per esteso sul nostro sito, redatto dall’Avv. Daniela Bianchini, componente del Consiglio Direttivo del Centro Studi Rosario Livatino, con la quale i giudici amministrativi, accogliendo un ricorso presentato nel 2015 da un gruppo di genitori ed insegnanti dell’istituto comprensivo 20 di Bologna e dal Comitato Bolognese Scuola e Costituzione, ha annullato una deliberazione del Consiglio di Istituto (la n. 50 del 9 febbraio 2015) con cui era stata concessa l’apertura dei locali scolastici per le benedizioni pasquali.

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A scuola non sono ammesse benedizioni, nel rispetto della laicità e della libertà religiosa. È quanto ha sentenziato lo scorso 9 febbraio il TAR dell’Emilia Romagna accogliendo il ricorso presentato nel 2015 da un gruppo di genitori ed insegnanti dell’istituto comprensivo 20 di Bologna e dal Comitato Bolognese Scuola e Costituzione, e annullando quindi una deliberazione del Consiglio di Istituto (la n. 50 del 9 febbraio 2015) con cui era stata concessa l’apertura dei locali scolastici per le benedizioni pasquali.

Fin qui la vicenda potrebbe non destare particolare interesse ed inserirsi nel novero di già sollevate questioni sull’opportunità di far trovare ingresso nelle scuole pubbliche a riti e celebrazioni religiose durante l’orario scolastico, come già successo. Tuttavia la vicenda bolognese ha una sua peculiarità, tale da sollevare forti dubbi sulle argomentazioni del TAR. Nel caso in esame, infatti, il Consiglio di Istituto aveva sì autorizzato l’apertura dei locali scolastici per le benedizioni pasquali (peraltro approvata a grande maggioranza, all’esito di una votazione democratica) ma esclusivamente in orario extra scolastico e su base volontaria, vale a dire che nessuno studente era obbligato a partecipare all’evento. L’Amministrazione scolastica si era infatti basata sul disposto dell’art. 96 del d.lgs 297 del 1994 e in particolare sul comma 4 (“Gli edifici e le attrezzature scolastiche possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile …”) e sul comma 6 (“Nell’ambito delle strutture scolastiche, in orari non dedicati all’attività istituzionale, o nel periodo estivo, possono essere attuate, a norma dell’art. 1 della legge 19 luglio 1991, n. 216, iniziative volte a tutelare e favorire la crescita, la maturazione individuale e la socializzazione della persona di età minore al fine di fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”).

Viene dunque da domandarsi cosa ci sia in realtà dietro l’ostilità di quel gruppo sparuto di genitori ed insegnanti (18 in tutto), che li ha portati a scagliarsi contro un provvedimento dell’autorità scolastica che, molto probabilmente, se non avesse avuto attinenza con la sfera religiosa, non avrebbe suscitato reazioni così negative. Traspare una non poco velata intolleranza verso il sacro, percepito quasi come una malattia contagiosa da cui stare alla larga. Si legge infatti nel ricorso accolto che “la pratica religiosa” potrebbe “condizionare in modo significativo soggetti deboli come gli studenti”. Forse i ricorrenti hanno attribuito “poteri soprannaturali” al parroco che aveva chiesto alla scuola, in orario extrascolastico, i locali per la benedizione, ritenendo magari che lo stesso potesse addirittura riuscire a condizionare “a distanza” persone non presenti al rito, posto che da quanto affermato nel ricorso è chiaro che quei genitori non avrebbero fatto partecipare i figli, ergo appare davvero molto difficile immaginare come gli stessi avrebbero potuto essere condizionati. Si tratta con tutta evidenza di argomentazioni, quelle su cui si basa il ricorso, fragili, capziose e destituite di qualsivoglia fondamento, tanto da non destare particolare interesse, se non nella misura in cui consentono di registrare, come si è detto, una certa intolleranza verso il sacro. A leggere il ricorso e a voler fare il giudice, verrebbe subito da pensare che la vicenda si sia conclusa con un rigetto. E invece quel ricorso è stato accolto e dispiace constatare che, per il momento, almeno dai media, non sia stato dato risalto ad una sentenza che in diversi passaggi mette seriamente in discussione il principio di laicità e il contenuto dell’art. 19 della costituzione, relegando il sentimento religioso alla sfera privata. È vero, come è stato osservato da alcuni, che si tratta di una sentenza di primo grado, come tale appellabile, tuttavia quelle affermazioni rimangono e devono far riflettere sui pericoli che corre oggi la libertà religiosa, la prima libertà che si è affermata, e quella oggi forse maggiormente presa di mira, non di rado in maniera subdola, ossia con il pretesto di volerla tutelare. Così come lo stesso principio di laicità -in virtù del quale lo Stato, equidistante ed imparziale verso tutte le confessioni religiose, ma non indifferente al fenomeno religioso, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale, si fa garante del pluralismo culturale e religioso –  è sempre più spesso letto come principio di separazione fra la sfera pubblica (spesso confusa con quella politica) e la dimensione religiosa, fino a ritenere di dover confinare quest’ultima nell’ambito privato per la salvaguardia della collettività e in particolare di coloro che non credono. Di conseguenza anche l’art. 19 cost., che tutela la libertà religiosa (sia nel senso positivo che in quello negativo, ossia come libertà di non credere) rischia di essere, almeno di fatto, svuotato di contenuto. Per l’art. 19 cost., infatti, tutti hanno la libertà di professare la propria fede religiosa, in forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne il culto in privato o in pubblico, ovviamente sempre nel rispetto della libertà altrui. Tuttavia, sono sempre più numerose le manifestazioni di chiusura al sacro -avallate anche da una certa parte della magistratura, italiana ed europea- persino laddove non si pongano concreti problemi di conflitti. Nel caso di specie, ad esempio, se la benedizione fosse stata prevista durante l’orario scolastico si sarebbe potuto discutere sull’opportunità o meno di autorizzare il parroco, in presenza di genitori contrari. Ma nella vicenda in esame non era ravvisabile alcuna possibile lesione della libertà altrui.

Ecco allora che la sentenza del TAR dell’Emilia Romagna sembra proprio andare a confermare quanto si diceva sopra circa la tendenza di voler svuotare di fatto il contenuto dell’art. 19 cost. e di leggere il principio di laicità in maniera diversa da come indicato dalla Corte costituzionale, malgrado quella lettura sia stata ben nota ai giudici amministrativi, tanto da citarla in sentenza.

Dopo aver ricordato la funzione formativa che la scuola è chiamata a svolgere in quanto “centro di promozione culturale, sociale e civile” e dopo aver messo in evidenza che, per il principio di laicità, la tutela della libertà religiosa “non si risolve nell’esclusione totale dalle istituzioni scolastiche di tutto ciò che riguarda il credo confessionale”, il TAR conclude questo ragionamento, dalla premessa costituzionalmente ineccepibile, affermando che nella scuola “non v’è spazio per i riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati”, perché questo sacrificherebbe la libertà religiosa e comprimerebbe le scelte, anche nell’ipotesi, detto per inciso, perché di questa fattispecie si tratta, che i riti religiosi si svolgano dopo l’orario scolastico e soltanto per chi desidera parteciparvi, ossia per coloro che nella piena libertà sono disposti a recarsi o trattenersi a scuola pur non essendo obbligati a farlo e pur potendo di diritto fare altro. Sintetizzando le argomentazioni del TAR sul punto, nella scuola sarebbero consentite soltanto non meglio precisate “occasioni di incontro su temi anche religiosi che consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica”. Ribadisce infatti il TAR che “le attività di culto religioso attengono alle pratiche di esercizio del credo confessionale di ciascun individuo e restano confinate nella sfera intima dei singoli, non lesiva della libertà religiosa e non incompatibile con il principio di laicità dello Stato”. Le attività di culto vanno dunque confinate nella sfera privata secondo il TAR dell’Emilia Romagna, che lo ha affermato senza troppi giri di parole, chiamando in causa persino il principio di laicità, che tuttavia sembra essere stato interpretato più sul modello francese, teso alla chiusura dell’ordinamento verso il sacro (con possibili derive autoritarie), che non su quello indicato dalla Corte costituzionale, teso invece alla distinzione degli ordini e non alla separazione. L’idea che trapela dalle pagine della sentenza in esame è quella di preservare la sfera pubblica dalle convinzioni individuali, in questo caso religiose, ma se si affermasse il principio potrebbe estendersi a qualunque manifestazione contraria al sentimento dominante. Un’idea pericolosa perché se le singole convinzioni individuali non possono essere confrontate, vi è il rischio di appiattire la società su modelli imposti e predefiniti, nonché quello di dar vita ad una società formata da tanti individui isolati.

Al di là delle numerose considerazioni che si potrebbero ancora fare sulla sentenza citata, resta un interrogativo.

Se è vero, come emerge da numerosi documenti nazionali ed europei in tema di formazione dei minori (anche in chiave di prevenzione delle discriminazioni e delle intolleranze), che la scuola per realizzare appieno la sua funzione formativa deve partire dal presupposto che la società è sempre più eterogenea sotto il profilo etico, culturale e religioso, dovendo quindi organizzarsi in modo tale da favorire negli studenti la costruzione di una coscienza comune e solidale, come può allora la scuola fare tutto ciò ghettizzando una delle dimensioni più importanti dell’essere umano, ossia quella religiosa (e la sua importanza è dimostrata proprio dagli attacchi che subisce). Fra i banchi di scuola si gioca la riuscita delle politiche di integrazione perché è nella scuola che i più giovani imparano in concreto la solidarietà, il rispetto per l’altro, l’importanza del dialogo, del confronto pacifico e dell’ascolto. Non è alzando barriere che si otterrà la pace sociale, né relegando il fatto religioso (che per sua natura ha rilevanza pubblica, come suggerisce il diritto di professare, di fare propaganda e di esercitare in pubblico il culto) nelle mura domestiche, ma favorendo piuttosto l’incontro delle persone e stimolando la capacità di critica. Quei genitori di Bologna che hanno avuto paura che i figli potessero essere “condizionati” dalla religione, non hanno forse privato i figli di un’occasione di confronto, fermo restando che erano comunque liberi di non farli partecipare al rito?

In conclusione, sono il dialogo e il rispetto della persona i criteri che dovrebbero orientare tutti e, a maggior ragione, nella scuola, dove gli studenti -“soggetti deboli”, per citare l’espressione dei ricorrenti-  possono ben correre il pericolo che le proprie scelte siano compresse ma non per causa della religione, di una benedizione, di un crocifisso appeso alla parete o di un presepe nell’aula, ma per l’influenza negativa di genitori ed insegnati che instillano nelle loro menti il germe distruttivo dell’intolleranza e della chiusura, ergendosi quali difensori della libertà e dell’eguaglianza, sollevando però al contempo la contraddittoria bandiera dell’individualismo, per cui l’altro va accettato solo se non la pensa diversamente, altrimenti va escluso dalla dimensione pubblica.

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