1. Premessa. “In ogni popolo vi è cattiva disposizione e desiderio di calunnia nei confronti dei politici”[1]: così ricordava Plutarco, a testimonianza di come in ogni epoca storica – già dall’antichità – la classe politica sia stata oggetto di biasimo e critica, così da pensare che se la tendenza al dispotismo, alle ruberie, alla corruzione siano portati strutturali della classe politica, la cattiva disposizione d’animo, il desiderio di calunnia, la voglia di rivalsa verso chi governa e amministra siano portati strutturali del popolo.
Questo spiega il tendenziale distacco tra chi governa e chi è governato, con l’inevitabile corollario di maldicenze – storicamente, per esempio, c’è chi ebbe a proclamare che governare gli Italiani non è difficile, ma inutile –, sospetti reciproci, diffidenze, gelosie, ostilità[2].
Proprio in tale distanza tra governanti e governati, tra rappresentanti e rappresentati, Costantino Mortati individuava già nel 1948 uno dei tre elementi – insieme alla crescente eterogeneità della composizione sociale che richiede sempre nuove e diverse formazioni politiche, e alla accresciuta centralità dello Stato in ogni dimensione della vita sociale – del mutamento prima e della crisi infine dell’istituzione parlamentare[3]. Una crisi che riguarda la stessa concezione della democrazia, come anche Hans Kelsen – pur dalla prospettiva della sua concezione tipicamente formalistica e positivistica – ribadiva: “l’avversione crescente per il parlamentarismo è, in definitiva, rivolta contro la democrazia”[4].
In questa direzione occorre riflettere attentamente sulle premesse teoriche e sulle conseguenze pratiche della riforma costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari attraverso la modifica degli articoli 56 e 57 della Costituzione, nei confronti della quale si dovrà celebrare il rito referendario il 20 e 21 settembre, per comprenderne la natura sostanziale e ultima.
2. Il filo rosso fra Rousseau, M5S e il taglio dei parlamentari. Essendo la Costituzione ciò che è, nella moderna accezione del termine e della sua sedimentazione storica[5], cioè l’espressione di un “potere costituente che fonda l’ordinamento e ne dirige e sostiene la funzione limitatrice ed unificante”[6], nonché sintesi dello spirito di un popolo, dei valori sociali, degli ideali politici e dei principi giuridici che vengono condensati come norme generali dello Stato[7], dell’ordinamento e della civile convivenza, le considerazioni che seguono non possono prescindere dalle dimensioni sociali, politiche e giuridiche che confluiscono, come diversi affluenti, nell’unico fiume della riflessione sulla predetta riforma costituzionale.
In tal senso, quello spirito di rivalsa che spesso anima il popolo, e di cui ha insegnato Plutarco, è stato alla base della fondazione sociale prima e politica poi di quella forza politca che maggiormente ha influito per l’approvazione della riforma in Parlamento: il Movimento 5 stelle il quale, da semplice grumo espressione della cosiddetta “antipolitica”[8], si è sempre più strutturato fino a diventare un vero e proprio partito, con le medesime dinamiche, avventure e disavventure che contraddistinguono i partiti tradizionali, che nei propositi dei fondatori del Movimento stesso si intendeva consegnare all’archivio della storia.[9]
Una tale riforma costituzionale, per lo meno così come promossa e approvata, per le ragioni già esaminate su questo sito[10], non soltanto non garantisce gli scopi che si è prefissati, per esempio il risparmio, ma costituisce un vulnus per la democrazia, come si evince dalle sue premesse teoriche e dalle sue conseguenze pratiche.
E’ circostanza nota, infatti, che il Movimento 5 stelle fondi la propria piattaforma – non tanto in senso digitale quanto piuttosto nel più pregnante senso ideologico – sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, cioè sul pensiero del “padre nobile” di quel fenomeno antiumano e antigiuridico che è stato il giacobinismo, a sua volta premessa teoretica della pratica del “terrore” attuato da Robespierre durante il periodo della rivoluzione francese, sfociato in processi ed esecuzioni sommarie o in vere e proprie forme genocidiarie quali quelle della sventurata regione della Vandea[11]. Il giacobinismo ha costituito il ganglio di giunzione tra la tradizione dell’assolutismo preilluministico di matrice hobbesiana e il totalitarismo novecentesco, come per esempio, tra i tanti autorevoli osservatori, ha puntualizzato Guido Fassò secondo cui “nella dottrina rousseauiana, nonostante lo sforzo dialettico per armonizzare la volontà dello Stato con quella degli individui e per salvaguardare i diritti inalienabili dell’uomo, resta il germe della teoria che sarà dello Stato etico, dello Stato cioè che, pretendendo con argomentazioni filosofiche di rappresentare e di realizzare la volontà dell’individuo anche ad insaputa od a dispetto di questo, in realtà gli impone la volontà propria intesa come volontà avente valore assoluto, aprendo la via ad una nuova forma di assolutismo”[12].
3. Democrazia “diretta” contro democrazia rappresentativa. Per Jean-Jeacques Rousseau la democrazia rappresentativa – per esempio quella inglese[13] – era un’illusione, una forma di “alienazione” della reale libertà politica e civile dell’uomo il quale, invece, avrebbe l’innato diritto di partecipare direttamente – cioè attraverso l’instaurazione di una democrazia diretta – alle decisioni politiche e di governo del proprio Paese.
In questa prospettiva il pensatore ginevrino afferma che “i deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, i suoi rappresentanti, ma soltanto i suoi commissari: non possono concludere nulla in maniera definitiva. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata è nulla, non è una legge […]. L’idea dei rappresentanti è moderna; essa ci viene dal governo feudale, da quell’iniquo e assurdo governo nel quale la specie umana si è degradata e in cui il nome di uomo era in disonore. Nelle antiche repubbliche e persino nelle monarchie, il popolo non ebbe mai rappresentanti: la parola stessa era ignorata […]. Non appena un popolo si dà dei rappresentanti, esso non è piú libero, non esiste piú”[14].
Il popolo si rappresenta da sé, poiché non può spogliarsi della propria capacità decisionale, non può delegare altri senza perdere la propria stessa libertà, la propria stessa sovranità [15].
Ecco perché Rousseau, cassata sostanzialmente la rappresentanza, e quindi con essa la stessa ipotizzabilità di una classe politica, dai partiti probabilmente, in prospettiva, anche ai sindacati, ha dovuto non solo forgiare l’espediente correttivo della “volontà generale”, cioè quel “motore immobile” che sostiene e fonda l’intera sua dottrina politica e giuridica, ma dotarla di una mistica dell’infallibilità: quest’ultima è prodromica di quella presunta esattezza di cui circa un paio di secoli più tardi si riterranno munite tanto l’idea della superiorità razziale ariana, quanto l’idea di un socialismo scientifico con cui riscattare l’umanità oppressa. In tal modo la “volontà generale” si sclerotizza facendola assurgere ad elemento totalizzante e, ultimativamente, totalitario della sua teoria[16].
Sotto questo aspetto, non a caso, Norberto Bobbio ha avuto modo di evidenziare con chiarezza la tendenza totalitaria che contraddistingue la democrazia diretta di Rousseau, precisando, infatti, che “se per democrazia diretta si intende alla lettera la partecipazione di tutti i cittadini a tutte le decisioni che li riguardano, la proposta è insensata […]. L’individuo rousseuiano chiamato a partecipare dalla mattina alla sera per esercitare i suoi doveri di cittadino sarebbe non l’uomo totale, ma il cittadino totale. E il cittadino totale non è a ben guardare che l’altra faccia non meno minacciosa dello Stato totale […]. Il cittadino totale e lo Stato totale sono le due facce della stessa medaglia, perché hanno in comune, se pur una volta considerato dal punto di vista del popolo, l’altra volta dal punto di vista del principe, lo stesso principio: cioè che tutto è politica, ovvero la riduzione di tutti gli interessi umani agli interessi della polis, la risoluzione dell’uomo nel cittadino, la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica, e via dicendo”[17].
La trasformazione della democrazia rappresentativa in democrazia diretta, in fondo, è solamente la prima fase di un processo ben più radicale, teso alla sostituzione della democrazia in quanto tale con una democrazia totalitaria[18], cioè con una pseudo-democrazia, come del resto comprovano le stesse parole di Rousseau disvelanti tutto il suo profondo scetticismo nei confronti della democrazia in sé stessa: “Volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai”.[19]
Dinnanzi a questo sgretolamento paradossalmente “democratico” della stessa democrazia si staglia il pensiero di chi, come Montesquieu, invece, ha specificato l’importanza del ruolo della rappresentanza, poiché soltanto tramite i propri rappresentanti un popolo e un individuo possono davvero reputarsi liberi, fondandosi così in modo sostanzialmente legittimo il potere legislativo, ma anche e soprattutto la consequenziale separazione dei poteri e, dunque, la concreta libertà politica e giuridica dei consociati[20].
4. Meno rappresentanza = più democrazia? L’idea che si possa fare a meno della rappresentanza, pur nella fase apicale della crisi dell’istituzione parlamentare, rivela una erronea soluzione a un problema effettivo, come chi intendesse eliminare il paziente nel caso di malattia inguaribile, invece di provvedere alla sua cura e assistenza.
Se tra i mali denunciati o denunciabili, per esempio, si riscontra quello della partitocrazia, come innumerevoli rilevata da Luigi Sturzo il quale riteneva che “fra partiti e partitocrazia corre la stessa differenza che fra Parlamento e parlamentarismo, fra democrazia e democraticismo, cioè fra struttura sana e struttura ammalata; fra andamento esatto e andamento disordinato; fra funzionamento normale e disfunzione”[21], la soluzione non può essere quella semplicistica della riduzione del numero dei parlamentari, ma semmai la regolamentazione dei processi democratici all’interno dei partiti medesimi[22].
Probabilmente, non si intende intraprendere una simile via, senza dubbio più articolata, complessa e giuridicamente bilanciata poiché non avrebbe lo stesso turgore ideologico, imponendosi così all’attenzione della memoria le parole che Georges Bernanos, circa un secolo or sono, scriveva a proposito della crisi dei sistemi politici europei, evidenziando come «le grandi democrazie hanno visibilmente perduto tutta la fiducia nell’efficacia dei vecchi metodi democratici di lavoro e di governo».[23]
La riduzione “lineare” ed episodica, cioè non sistemica, ovvero non collegata ad una corretta riforma della legge elettorale, a una disciplina sulla trasparenza delle procedure decisionali all’interno dei partiti, a una regolamentazione dei processi democratici all’interno di questi ultimi, a una sensata forma di finanziamento dei partiti e di remunerazione dei singoli parlamentari ecc., non sembra essere in grado di risolvere davvero i problemi senza dubbio attuali, ma non di certo nuovi, che affliggono l’istituzione parlamentare, la quale, con una simile riforma non può che segnare il passo del peggioramento.
Del resto, oltre ogni considerazione tecnica, non si comprende perché una (presunta) casta di mille componenti debba essere peggio di una (super) casta di seicento componenti, o perché un gruppo di seicento persone possa essere ritenuto meno corruttibile di un gruppo di mille, o perché il potere tendenzialmente dispotico esercitato da mille soggetti non possa diventare ancor più dispotico se esercitato “soltanto” da seicento di loro.
5. Per concludere. L’erosione progressiva della democrazia rappresentativa – con la diminuzione dell’influenza e della centralità dei corpi intermedi come la famiglia, i sindacati, i partiti – e del Parlamento in sé considerato, non è una scelta “neutra”, né giuridicamente né istituzionalmente. Comporta piuttosto una riduzione della rappresentanza politica che, per sua natura così come si è determinata storicamente, è nata in contrapposizione all’assolutismo regio[24], causando inevitabilmente una non trascurabile deminutio delle capacità democratiche del già fragile sistema giuridico e politico italiano attraverso una forma di assolutismo popolare, non meno dispotico di quello regio, lasciando intravvedere concretamente la fine della democrazia come prospettata da Louis Rougier, Costui, rifacendosi a Benjamin Constant, ha chiarito che “ciò che importa non è il titolare del potere, ma la natura del potere. Se il potere è illimitato, esso, qualunque sia il suo titolare, sarà oppressivo; se il potere è limitato, qualunque sia il titolare, sarà liberale”[25].
Con tutta evidenza ci si trova dinnanzi a quei “paradossi della democrazia” evidenziati da Shmuel Eisenstadt[26], specialmente se tale riforma fosse approvata anche per via referendaria, dandosi così maggior vigore alle precise osservazioni di Etienne de La Boétie il quale ha insegnato che, il più delle volte, “sono dunque i popoli stessi che si lasciano incatenare[…]. E’ il popolo che si fa servo, che si taglia la gola da solo, che potendo scegliere tra servitù e libertà, rifiuta la sua indipendenza e si sottomette al giogo, che acconsente al proprio male, anzi lo persegue” [27].
Aldo Rocco Vitale
[1] Plutarco, Consigli ai politici, Fabbri Editori, Milano, 1996, 105-106.
[2] In questo senso, per esempio, se Machiavelli suggeriva (cap. XVII) al Principe di non temere l’appellativo di crudele, poiché solo con la forza e perfino con la crudeltà egli può reggere efficacemente lo Stato e il popolo, John Milton auspicava che in qualsiasi momento, e perfino senza alcun processo, il popolo, come del resto secondo lui avevano insegnato i greci e i romani, fosse legittimato ad uccidere chi governa, sia esso un tiranno o meno, qualora da parte di quest’ultimo non siano rispettati i patti della convivenza sociale nonché la volontà e i diritti del popolo; cfr. John Milton, The tenure of kings and magistrates, in Political writings, Cambridge University Press, 1991, pag. 17 e ss.
[3] Costantino Mortati, Parlamento e democrazia, Studium, n.11/1948, pag. 507-516.
[4] Hans Kelsen, Il primato del Parlamento, Giuffrè, Milano, 1982, pag. 10.
[5] Già nell’Assemblea Costituente si posero problemi analoghi volendo il Partito Repubblicano ridurre il numero dei parlamentari; la proposta fu rigettata dai Padri Costituenti proprio per evitare una menomazione della rappresentanza, come si legge nel resoconto sommario della Adunanza Plenaria dell’Assemblea Costituente presieduta da Umberto Terracini il 27 gennaio 1947: “Terracini (PCI) accetta la proposta dell’onorevole Fuschini (DC) per tutte le argomentazioni che egli ha svolto, e desidera dire che le argomentazioni contrarie esposte dall’onorevole Conti (PRI) in realtà sembra che riflettano certi sentimenti di ostilità, non preconcetta, ma abilmente suscitata fra le masse popolari contro gli organi rappresentativi nel corso delle esperienze che non risalgono soltanto al fascismo, ma assai prima, quando lo scopo fondamentale delle forze antiprogressive era la esautorazione degli organi rappresentativi. Quanto alle spese, ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza” (Commissione per la Costituzione, Adunanza plenaria, Resoconto sommario della seduta di lunedì 27 gennaio 1947).
[6] Costantino Mortati, voce “Costituzione”, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1962, Vol. XI, pag. 142.
[7] «La costituzione politica è l’organizzazione dello Stato e il processo della sua vita organica»: G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano, 1996, pag. 459.
[8] Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia, 2018.
[9] Jacopo Iacoboni, L’esperimento. Inchiesta sul Movimento 5 stelle, Laterza, Bari, 2018.
[10] https://www.centrostudilivatino.it/referendum-costituzionale-riforma-settoriale-e-rischiosa/
[11] “Il giacobinismo trova nel pensiero di Rousseau il suo supporto ideologico[…]. Del giacobinismo il robespierrismo fu l’espressione sociale più precisa e, nonostante evidenti contraddizioni, la più logica[…]. Quante furono, in tutto il Paese, le vittime del Terrore? Il bilancio non è facile. Limitandosi alle condanne capitali la statistica stabilita dallo storico americano Donald Greer ne calcola circa 17.000. Ma non entrano nel conto le esecuzioni senza processo, come a Nantes, a Tolone o sui campi di battaglia, senza parlare della forte mortalità fra i detenuti. Sempre Donald Greer arriva ad una stima di 35.000-40.000 morti”: Albert Soboul, Storia della rivoluzione francese, Bur, Milano, 2001, pag. 125-127.
[12] Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna, 1968, Vol. II, pag. 359.
[13] “Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla”: Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Bur, Milano, 1962, III, 15, pag. 117.
[14] Jean-Jacques Rousseau, op. cit., pag. 117-119.
[15] “Il popolo è proprio lui quel sovrano che possiede il diritto legislativo, che è un diritto incomunicabile ad altri”: Jean-Jacques Chevallier, Storia del pensiero politico, Il Mulino, Bologna, 1981, pag. 460.
[16] “La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica, ma non ne consegue che le deliberazioni del popolo siano sempre fornite della stessa rettitudine[…]. È dunque necessario, perché si abbia chiaramente l’espressione della volontà generale, che non vi siano società particolari nello stato e che ogni cittadino non ragioni che con la sua testa”: Jean-Jacques Rousseau, op. cit., Cap. III, pag. 59-60.
[17] Norberto Bobbio, Democrazia rappresentativa e democrazia diretta, in “Il futuro della democrazia”, Einaudi, Torino, 1984, pag. 32-33.
[18] Preziosa e approfondita investigazione sul tema è la seguente: Pier Francesco Zarcone, Il lato oscuro della democrazia. Rousseau totalitario, Il Cerchio, Palestrina, 1988.
[19] Jean-Jacques Rousseau, op. cit., III, 4, pag. 97.
[20] “Poichè in uno Stato libero ogni uomo, che si suppone possieda uno spirito libero, deve guidarsi da sè, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse direttamente il potere legislativo; ma poichè ciò è impossibile nei grandi Stati, ed è soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò che non può compiere direttamente. Si conoscono molto meglio le esigenze della propria città che quelle delle altre, e si giudica meglio della capacità dei vicini che di quella degli altri compatrioti. Non bisogna dunque che i membri del corpo legislativo provengano in generale da tutta la nazione, ma conviene che, in ciascun luogo importante, gli abitanti si scelgano un rappresentante. Il grande vantaggio di avere dei rappresentanti, è che essi sono capaci di discutere i pubblici affari. Il popolo non ne è affatto in grado[…]. Vi era un gran difetto nella maggior parte delle antiche repubbliche: il popolo, cioè, aveva il diritto di prender delle risoluzioni attive, le quali richiedono una esecuzione, mentre ne è totalmente incapace. Esso non deve aver parte al governo che per scegliere i rappresentanti, ciò che si trova alla sua portata., Poichè, se sono poche le persone che conoscono il grado preciso della capacità degli uomini, ognuno è tuttavia capace di sapere in generale se quello che sceglie è più illuminato della maggior parte degli altri. Il corpo rappresentativo non deve essere neppur esso scelto per prendere risoluzioni attive, cosa che non farebbe bene, ma per fare delle leggi, o per controllare se quelle che ha fatte sono state ben attuate, cosa che può fare assai bene, e che, anzi, è solo a poter far bene”, Charles De Secondat Barone di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, Utet, Torino, 2005, II, XI, Vol. 1, pag. 280.
[21] Luigi Sturzo, Democrazia e partitocrazia, in Opere scelte, Laterza, Bari, 1992, Vol. II, pag. 144.
[22] Lo stesso Sturzo, che ha dedicato parte significativa della sua attività politica e intellettuale alla lotta alla partitocrazia, nel 1957 non fu contrario all’aumento del numero dei senatori: “Pur essendo io all’inizio ostile alla cosiddetta legge di integrazione del Senato, proposta fin dal 1953, al solo scopo di aumentare il numero dei senatori, ho finito per aderirvi, pensando che, con la presenza di un maggior numero di componenti, si possa ovviare a qualcuno degli inconvenienti da me segnalati circa la facoltà deliberante attribuita alle commissioni, cosa unica, e non invidiabile nella storia parlamentare di tutti i paesi democratici”, Emendamento ai disegni di legge costituzionale n. 1931 e n. 1977, in Luigi Sturzo, Scritti di carattere giuridico. Discorsi e attività parlamentare, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, pag. 220.
[23] «Les Grandes Démocraties ont visiblement perdu toute confiance dans l’efficacité des anciennes méthodes démocratiques de travail et de gouvernement»: Georges Bernanos, La France contre les robots, Castor Astral, Bordeaux, 2017, pag. 85.
[24] cfr. voce “Rappresentanza politica”, in Dizionario di politica, a cura di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, Tea, Torino, 1990, pag. 929 e ss.
[25] Louis Rougier, La fine della democrazia?, Oaks Editrice, Milano, 2018, pag. 206.
[26] “Le tendenze all’indebolimento della democrazia, in particolare delle sfere pubbliche autonome e delle istituzioni rappresentative, sono rafforzate dai processi di globalizzazione e, in particolare, dal tentativo di imporre, attraverso le istituzioni finanziarie internazionali o le multinazionali, un’ideologia di mercato radicale”, Shmuel Eisenstadt, Paradossi della democrazia, Il Mulino, Bologna, 2002, pag. 138.
[27] Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Liberilibri, Macerata, 2004, pag. 7.