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Il testo Zan sull’omofobia, esempio di diritto penale simbolico

Il testo Zan sull’omofobia, esempio di diritto penale simbolico

L’estensione degli art. 604 bis e 604 ter cod pen. alle discriminazioni per orientamento sessuale o identità di genere, proposta dal testo unificato proposto dal relatore on Zan si ricollega alla c.d. legge Mancino, che risale al 1993 e punisce l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o di nazionalità: nei 27 anni trascorsi si è tentato a più riprese di prevederne l’applicazione ai reati di omofobia, come per esempio nel 2013, con la proposta Scalfarotto e altri, senza successo, e prima ancora nel 1996, da parte dell’allora deputato di Rifondazione Comunista Nichi Vendola.

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Testo Zan “omofobia”: approvato in Commissione Giustizia ignorando il parere del Comitato per la Legislazione. Auspicio di un esame rigoroso oggi in Commissione Affari costituzionali

Testo Zan “omofobia”: approvato in Commissione Giustizia ignorando il parere del Comitato per la Legislazione. Auspicio di un esame rigoroso oggi in Commissione Affari costituzionali

Con una seduta conclusa alle ore 1.45 di oggi – quasi si dovesse convertire in legge un decreto urgente per contrastare la pandemia – la Commissione Giustizia della Camera ha ultimato l’esame del testo unificato Zan in tema di contrasto alla omo-transfobia. Abbiamo con più documenti illustrato il carattere liberticida e discriminatorio dell’articolato (per tutti https://www.centrostudilivatino.it/testo-unificato-zan-anti-omotransfobia-perche-e-liberticida-e-discriminatorio/), e insieme con esso una serie di anomalie procedurali, in primis l’aver anticipato le norme finanziarie del testo con l’inserimento degli art. 7 e 9 nella legge di conversione del DL rilancio.

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Il testo Zan sull’omofobia, esempio di diritto penale simbolico

Testo unificato Zan “anti-omotransfobia”: perché è liberticida e discriminatorio

L’on. Zan, relatore delle p.d.l. contro la omotransfobia ha depositato in Commissione Giustizia alla Camera, il testo unificato, che sarà oggetto di discussione e di esame nei prossimi giorni: pubblichiamo una scheda di lettura critica dell’articolato, che costituisce una sorta di appendice del volume OMOFOBI PER LEGGE? Colpevoli per non aver commesso il fatto (a cura di A. Mantovano- contributi di Farri, Airoma, Ronco, Leotta, Cavallo e Respinti), Cantagalli, Siena 2020. Il volume sarà presentato domani a Roma.

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Mantovano: Audizione in Commissione Giustizia su omo/transfobia

Mantovano: Audizione in Commissione Giustizia su omo/transfobia

Nella serata di ieri, 27 maggio, Alfredo Mantovano, consigliere alla Corte Suprema di Cassazione e vicepresidente del Centro Studi Livatino, ha svolto una audizione davanti alla Commissione Giustizia, alla Camera dei Deputati, riguardante le proposte di legge in discussione in tema di contrasto all’omo/transfobia. Pubblichiamo il testo della relazione depositata agli atti della Commissione. 

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Omofobia: audizione in Commissione Giustizia della Camera

Omofobia: audizione in Commissione Giustizia della Camera

Nella giornata di ieri, 21 maggio, il prof Mauro Ronco, presidente del Centro studi Livatino, ha svolto una audizione in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, sui ddl in discussione in tema di contrasto all’omo/transfobia. Pubblichiamo il testo integrale della relazione scritta depositato agli atti della Commissione.

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Carceri e intercettazioni: audizioni in Commissione Giustizia del Senato

Carceri e intercettazioni: audizioni in Commissione Giustizia del Senato

Nella giornata di ieri il prof Mauro Ronco e il cons Domenico Airoma, rispettivamente presidente e vice presidente del Centro studi Livatino, sono stati auditi in Commissione Giustizia del Senato sui recenti decreti legge in tema di carceri e rinvio della disciplina delle intercettazioni. Pubblichiamo il testo del cons Airoma.

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Stralcio emendamento cannabis: decisione costituzionalmente corretta

Stralcio emendamento cannabis: decisione costituzionalmente corretta

Il Centro studi Livatino plaude alla correttezza costituzionale della Presidente del Senato quanto allo stralcio dell’emendamento cannabis dalla legge di bilancio. Prescindendo al merito, la decisione è in linea con l’ordinanza n. 17/2019 della Consulta, a fronte del conflitto di attribuzione sollevato contro la precedente manovra dai Senatori del PD, i quali censuravano la compressione dei tempi di discussione, e quindi la lesione della sovranità del Parlamento. Con quell’ordinanza la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile il ricorso PD – per il fatto che la riduzione dei tempi di discussione della manovra era conseguenza delle richieste dell’UE -, annunciava che “in altre situazioni una simile compressione della funzione costituzionale dei parlamentari potrebbe portare a esiti differenti.” L’emendamento cannabis rientra a buona ragione fra le “altre situazioni”, poiché se non fosse stato stralciato, la fiducia posta dal governo e la seguente annunciata “blindatura” del testo alla Camera avrebbero comportato l’entrata in vigore di una norma controversa e delicata, senza la necessaria discussione nel merito delle Commissioni competenti e dell’Aula di Senato e Camera.

L’auspicio è che, anche alla luce dei dati allarmanti della Relazione sulle tossicodipendenze in Italia del Dipartimento antidroga della Presidenza del Consiglio, pubblicata nel silenzio pochi giorni fa, le Camere affrontino l’emergenza droga alla luce del sole e nel modo più ampio e oggettivo possibile. La decisione di oggi della Presidente del Senato dà un importante contributo in questa direzione.

Roma, 16 dic. 2019

Prescrizione: perché l’entrata in vigore della riforma sarebbe un danno

Prescrizione: perché l’entrata in vigore della riforma sarebbe un danno

Desta notevole perplessità la modifica della prescrizione che, inserita all’interno della legge n. 3 del 9/01/2019, c.d. “spazza-corrotti”, è destinata – se non interviene alcuna novità – a entrare in vigore il 1° gennaio 2020. Essa prevede, fra l’altro, la sospensione del termine di prescrizione “dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna”.

Lo spostamento di un anno della piena operatività di questa disposizione rispetto al momento dell’approvazione della legge fu spiegato dalla prospettiva di varare nelle more una riforma del processo penale che garantisse tempi più rapidi di definizione: poiché tale riforma non è stata esaminata compiutamente neanche da un ramo del Parlamento, non si comprende perché oggi si intenda mantenere in piedi solo la rettifica della prescrizione. Per quanto sostenuto dagli stessi proponenti, essa aveva senso quale primo passo di una più completa architettura innovatrice.

Non è soltanto di una questione di sistema, pur se l’esperienza insegna quanto sia controproducente introdurre singole novità senza farle precedere da riforme di quadro. Quella della prescrizione è una questione complessa, che chiama in causa da un lato il potere punitivo dello Stato e la necessità di non disperdere atti di indagini e/o processuali formati spesso con difficoltà e con dispendio di risorse pubbliche, dall’altro la necessità che il singolo accusato veda definita la propria posizione processuale, senza compressioni di diritti che la dilatazione dei tempi di conclusione del giudizio rendono irreparabili.

Esula dal carattere rapido di una nota come questa l’indispensabile approfondimento che la materia esige. Ci si limita pertanto a considerazioni sintetiche:

  1. sulla base di dati obiettivi e non contestati, il 70% dei procedimenti penali che si definiscono in Italia con la prescrizione sono ancora nella fase delle indagini preliminari. Poiché la legge n. 3/2019 non incide in tale fase, essa si mostra inutile in più dei 2/3 dei casi di prescrizione e rischia di non far cogliere il dato allarmante costituito dalla discrezionalità di fatto dell’azione penale, che conduce una parte significativa delle Procure della Repubblica a scegliere quali reati perseguire e quali no. Invece di promuovere una discussione sulla sostenibilità della obbligatorietà dell’azione penale e sulla individuazione di criteri oggettivi e omogenei per l’avvio delle indagini, il mantenimento della norma della “spazza-corrotti” si concentra solo su quel che accade dopo la pronuncia di primo grado, che è fenomeno diverso e quantitativamente meno rilevante;
  2. nel restante 30% dei casi, i termini di prescrizione maturano con maggiore frequenza fra la decisione di primo grado e quella di appello, mentre è percentualmente irrilevante – poco più dell’1% – l’incidenza della prescrizione in Cassazione. Ciò non accade per caso: chiama in causa l’ineludibile riorganizzazione delle Corti di appello, al fine di seguire moduli simili a quelli della Cassazione, per es. nella definizione in camera di consiglio delle impugnazioni evidentemente inammissibili. Mentre in sede di legittimità è da tempo istituita una sezione dedicata esclusivamente alla veloce definizione dei ricorsi inammissibili, misure analoghe mancano in quasi tutti gli uffici di appello, nonostante siano tanti gli appelli generici o aspecifici. Peraltro una declaratoria di inammissibilità in grado di appello fa retrodatare gli effetti della prescrizione alla pronuncia di primo grado, ottenendo il risultato cui tenderebbe la legge n. 3/2019, ma senza forzature. Su questo fronte la legge appena citata rischia invece di cristallizzare situazioni di concreta inefficienza;
  3. un’ampia riforma della prescrizione è già entrata in vigore nel 2017, su impulso dell’allora ministro della Giustizia Orlando[1], con nuove e ulteriori ipotesi di sospensione e interruzione e con sensibili incrementi dei termini, e attende una valutazione in termini di ricaduta, che non può che giungere fra qualche anno. Non giova alla chiarezza applicativa la continua modifica di istituti di diritto sostanziale, con calcoli di termini differenti sulla base del principio della norma più favorevole;
  4. com’è noto, in Italia la prescrizione ordinaria per la fascia di delitti meno gravi è di sei anni, con incrementi significativi quando sono contestate aggravanti a effetto speciale o la recidiva qualificata, e salvo l’aumento a fronte di atti interruttivi del decorso del termine. Nè vale la comparazione con altri ordinamenti perché il confronto va operato per termini omogenei, e in Europa esistono discipline processual-penalistiche fortemente diversificate, per es. quanto alla obbligatorietà dell’azione penale, o quanto a termini di prescrizione molto più contenuti di quelli italiani. Se valessero i confronti andrebbe ricordato che, a differenza di quanto accade in altre Nazioni, in Italia in caso di assoluzione lo Stato non rifonde le spese processuali supportate dall’incolpato;
  5. qualsiasi richiesta difensiva che punti al mero scorrere del tempo ai fini della maturazione della prescrizione incontra già oggi gli opportuni rimedi della sospensione del decorso del relativo termine;
  6. risponde a esigenze di giustizia che l’ordinamento delimiti il tempo entro il quale il potere dello Stato si dispieghi nei confronti dell’accusato, parametrando alla gravità dei reati la misura temporale adeguata per giungere alla sanzione. Senza questo correttivo, l’accusato in attesa del giudizio vive in uno stato di precarietà perpetua, grave in sé in quanto lo rende indefinitamente “disponibile” al potere dello Stato. Ancora più grave se – come accade in virtù della legge n. 3/2019 – la sentenza di primo grado sia di assoluzione, e quindi che la presunzione di non colpevolezza sia ancora più accentuata: la pendenza giudiziaria a tempo illimitato preclude la partecipazione a un concorso pubblico, rende di fatto impossibile ricevere incarichi di lavoro, ostacola l’adozione di un bambino. In questi casi, se e quando il processo con termini di prescrizioni dilatati avrà una definizione, quelle possibilità saranno escluse per sempre, per via dell’età nel frattempo raggiunta dall’interessato.

Il Centro studi Rosario Livatino auspica un serio ripensamento rispetto alla operatività della norma contestata, affiancato da una riflessione d’insieme e concreta sul sistema processuale penale, che coniughi in modo più equilibrato la potestà punitiva dello Stato e i diritti dell’incolpato.

[1] L. 23 giugno 2017, n. 103, in G.U., serie generale, 4 luglio 2017, n. 154, recante modifiche al codice penale, di procedura penale e all’ordinamento penitenziario.

Eutanasia: le audizioni di Domenico Airoma e Carmelo Leotta

Eutanasia: le audizioni di Domenico Airoma e Carmelo Leotta

Nella mattinata del 25 giugno il cons. Domenico Airoma, procuratore della Repubblica aggiunto al Tribunale di Napoli Nord, e il prof. Carmelo Leotta, associato  di Diritto penale all’Università degli Studi Europea di Roma, entrambi del Centro studi Livatino, hanno svolto audizioni su richiesta  delle Commissioni riunite della Camera  Giustizia e Affari sociali, impegnate nell’esame delle proposte di legge in materia di eutanasia. Pubblichiamo le loro relazioni.


Appunto per l’audizione innanzi alle Commissioni riunite II e XII della Camera dei Deputati del 25 giugno 2019.

I confini tracciati dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza nr. 207 del 2018 ed il conseguente percorso praticabile del legislatore in tema di aiuto al suicidio.

Onorevoli Deputati,

la Corte Costituzionale, nell’ordinanza depositata il 16 novembre 2018, ha tracciato confini ben precisi, che, a mio giudizio, non possono essere elusi dal legislatore.

Il primo riguarda la punibilità dell’aiuto al suicidio, ritenuta non solo conforme a Costituzione, ma inscindibilmente connessa alla dignità umana.

Ogni intervento riformatore in materia non può, perciò, incidere sulla rilevanza penale delle condotte di aiuto al suicidio fino ad escluderla del tutto.

La Consulta ha, peraltro, illustrato la ratio di tale suo giudizio, individuandola nel fatto che “l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio –rinvenibile anche in  numerosi altri ordinamenti contemporanei- è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”.

La precisazione della ratio dell’incriminazione è importante perché fissa un limite di sostanza oltre che di forma.

Dalla ratio discende, infatti, un’importante caratterizzazione del confine, che attiene alla portata, oggettiva e soggettiva, del divieto stesso; se, infatti, la ratio è quella di impedire la messa in pericolo della dignità dell’uomo, fondamento degli altri diritti, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può non essere senza eccezioni e non può non colpire ogni condotta che valga, nei fatti, ad eludere l’osservanza di tale divieto.

Non solo.

Per evitare che il divieto venga neutralizzato sciogliendolo nella nebulosità di un vago principio, la Corte ha messo in guardia dal fare ricorso ad una “concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”.

Il che significa, in altri e ancor più chiari termini, che in questa materia non solo è fuori luogo ma è, altresì, pericolosamente fuorviante fare appello alla autodeterminazione individuale, giacché proprio con riferimento al bene-vita risulta in modo evidente come mai si possa parlare di un’autodeterminazione senza limiti.

Vi sono, infatti, dei beni, e fra questi la vita e la libertà, che non possono essere oggetto di disposizione perché disporne significherebbe rinunciare alla dignità stessa di uomo.

Con riferimento specifico alla indisponibilità del bene libertà, non può non essere richiamato quanto statuito di recente sempre dalla Corte Costituzionale in tema di prostituzione, laddove ha escluso che si possa riconoscere nel nostro ordinamento un “diritto” a prostituirsi (sent. nr. 141/2019).

Da ciò discende che al legislatore, specifica la Corte, incombe il dovere di “vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide”, creando attorno al soggetto –tentato per le sue condizioni di vita ad auto-annientarsi- “una cintura protettiva, inibendo a terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui”.

Ad ulteriore conforto del proprio assunto, la Consulta richiama la giurisprudenza, assolutamente conforme, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E non sembra irrilevante sottolinearne la sintonia.

Riassumendo, nella prospettazione della Corte:

  • il bene vita non è disponibile, quindi la sua dismissione non può essere oggetto di consenso, esplicito, tacito o presunto;
  • non c’è un “diritto” a morire e, dunque, non può esserci pretesa ad avere cooperazione di terzi nella deliberazione suicidiaria;
  • per fare in modo che il divieto non venga aggirato e la protezione della dignità della persona che versa in condizioni di debolezza e vulnerabilità sia effettiva, il divieto non può che avere portata ampia e riguardare chiunque.

In definitiva, quali confini devono ritenersi invalicabili per il legislatore?

  • la rilevanza penale dell’aiuto al suicidio;
  • la punibilità di ogni condotta, e da chiunque posta in essere, di aiuto al suicidio.

 

Per ulteriormente chiarire il proprio assunto, la Corte prende in esame la posizione di colui che, per competenze e prossimità relazionale, è il principale destinatario di eventuali richieste della persona debole e vulnerabile di assistenza al suicidio: il medico.

E’ il medico, infatti, che deve vigilare affinché le persone in condizioni di vulnerabilità non vengano esposte ad abusi nelle fasi del fine –vita, facendo in modo che non ci sia il “rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire la paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza –in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010- sì da porlo in condizione di vivere con intensità ed in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza”.

Pertanto, non solo il medico non può essere annoverato fra i soggetti che possano in qualsiasi modo essere esonerati da responsabilità, ma è in particolare il medico che è chiamato a sorvegliare e prevenire possibili abusi, indirizzando il paziente verso le cure palliative, che vengono poste quali “pre-requisito” di qualsiasi scelta in tema di fine vita e indicate come vero presidio della dignità della persona, in alternativa a deresponsabilizzanti condotte di sostegno suicidiario.

In definitiva, precisa la Corte, si tratta di situazioni –quelle prossime al fine-vita- per le quali “vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi”.

Posti tali confini, la Corte chiede al parlamento di considerare la rilevanza di situazioni di persistente e insuperabile sofferenza, tale dovendosi considerare, però,  la condizione del paziente che abbia già sperimentato il percorso delle cure palliative.

In che modo attribuire rilevanza ad un’eventuale condotta di assistenza ed assecondamento della pretesa suicidiaria di un paziente che versi in siffatta situazione?

Sul punto la motivazione della Corte sembra andare in contraddizione rispetto alla prima parte dell’ordinanza, laddove suggerisce un percorso –inserito nell’alveo della legge 219/2017- destinato ad integrare una fattispecie esimente da responsabilità.

Tuttavia, risulta del pari evidente che, per i limiti che la Corte stessa ha posto al legislatore, la rilevanza di condotte di tal fatta non potrà mai assurgere a causa di esclusione del fatto tipico ovvero della punibilità.

Si tratta, pertanto, nella auspicabile autonomia delle valutazioni che spettano al Parlamento, di intervenire sulla graduazione della responsabilità, introducendo fattispecie che valgano a circostanziare le condotte e, per l’effetto, a meglio modulare la pena.

D’altronde questa è la tecnica che viene utilizzata dal legislatore penale allorquando si tratta di dare maggiore spazio all’interprete per più opportunamente adeguare la fattispecie astratta al caso concreto.

Non sembra inutile riportare le osservazioni che autorevole dottrina penalistica ha svolto con riferimento alla funzione delle circostanze:

“La ratio essendi delle circostanze va ricercata in quella continua aspirazione del diritto penale a rendere il più aderente possibile la valutazione legale e a meglio adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti: cioè ad una sempre maggiore individualizzazione dell’illecito penale e della responsabilità. Si ripropone in materia di circostanze il costante problema di conciliare la legalità con la migliore valutazione del fatto, con la giustizia del caso concreto. A tal fine il legislatore non si limita a tipizzare gli illeciti penali nei loro elementi caratterizzanti e differenziali, ma provvede a rendere ancora più articolata e penetrante la valutazione tipizzando gli elementi accessori del fatto” (F. Mantovani).

La previsione di circostanze del reato di aiuto al suicidio che valgano ad attenuare il trattamento sanzionatorio deve, infine, obbedire al caveat posto dalla Consulta quanto alla necessità di presidiare in modo efficace il divieto del suicidio assistito e di qualunque condotta eutanasica.

Il che significa introdurre fattispecie dalla portata non generica sia quanto ai soggetti che possono essere ritenuti meritevoli di un trattamento sanzionatorio attenuato (fra questi, ad esempio, non potrà rientrare il personale medico e sanitario per il ruolo di insostituibile presidio da ogni possibile abuso che la Corte Costituzionale attribuisce a tali figure professionali e neppure chi non abbia un rapporto di convivenza qualificato con il paziente) sia con riferimento alle condizioni nelle quali si trovi colui che formula la richiesta di assistenza suicidiaria; condizioni tali da fondare uno stato emotivo del soggetto agente meritevole di essere tipizzato ai fini di una sua autonoma valutazione (peraltro già astrattamente valutabile ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, come sostenuto costantemente dalla giurisprudenza di legittimità).

E ciò, riprendendo ancora una volta un passaggio della motivazione dell’ordinanza della Consulta, “per scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale”.  

Domenico Airoma


Audizione informale dinnanzi alle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali, 25 giugno 2019

 

Carmelo D. Leotta
Prof. ass. di Diritto penale – Università degli Studi Europea di Roma
carmelo.leotta@unier.it

La Corte Costituzionale, con l’ord. 207 del 24.10.2018, nel giudizio sull’art. 580 c.p. promosso dalla Corte di assise di Milano (ord. 14.2.2018) dà atto di non condividere la tesi fondamentale proposta dalla Corte rimettente, la quale dubita della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione e al rafforzamento del proposito di suicidio» per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, 1° co., e 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU (v. ord. n. 207, n. 1 del Ritenuto in fatto).

Per la Corte Costituzionale, invece, la scelta di punire l’aiuto al suicidio non è in contrasto con il diritto alla vita, previsto dagli artt. 2 Cost. e 2 CEDU, perché da tale diritto non si può desumere un diritto a morire, possibilità questa esclusa dalla stessa Corte EDU nel caso Pretty c. U.K. del 2002 (punto 5 del Considerato in diritto).

Neppure la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio può richiedersi come effetto di un diritto all’autodeterminazione individuale, riferita al diritto alla vita ai sensi degli artt. 2 e 13, 1° co., Cost.[1]

Anche in applicazione dell’art. 8, par. 2, CEDU, cioè dei limiti che possono essere legittimamente posti alla vita privata, le incriminazioni, presenti in molti ordinamenti europei, dell’aiuto al suicidio, rispondono all’esigenza di dare protezione alle persone deboli e vulnerabili. A tal proposito – ricorda la Corte Costituzionale al n. 7 del Considerato in diritto – la stessa Corte EDU ha riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento.

Sebbene, dunque, lo stigma rivolto dalla legge penale alla condotta di aiuto al suicidio sia assolutamente compatibile con gli artt. 2 e 13, 1° co., Cost. e con gli artt. 2 e 8 CEDU, la Corte, laddove sussistano determinate condizioni di malattia, ammette la possibilità di un alleggerimento della legge penale a fronte della commissione di una condotta integrante un’agevolazione dell’altrui suicidio. Non è inutile precisare che la condotta in questione è e solo può essere l’aiuto al suicidio, posto che lo stesso giudice rimettente aveva circoscritto la q.l.c. a tale ipotesi escludendo l’istigazione che ha una portata offensiva autonoma.

Come debba concretizzarsi questo alleggerimento dello stigma penale solo il Parlamento può deciderlo: solo al Parlamento, infatti, spetta una decisione che comporta una responsabilità politica e che trova il suo fondamento nella rappresentanza della Nazione, onere e onore cui sono chiamati gli eletti che siedono nella Camera dei deputati e nel Senato della Repubblica, ai quali si chiede di rappresentare tutti gli elettori, nell’interesse del bene comune.

Se dunque alle SS.LL. spetta l’esercizio della sovranità legislativa – pena lo scardinamento del principio cardine della democrazia rappresentativa – è pur vero che talune indicazioni presenti nell’ord. n. 207 possono essere utili perché fissano in qualche modo un requisito minimo di tutela penale cui non potrebbe rinunciarsi.

Fatta questa premessa, è quindi necessario valutare se i progetti di legge che sono stati portati all’attenzione delle Commissioni si adeguino o meno ad alcuni requisiti minimi, indicati dalla Corte Costituzionale, integrati i quali sia possibile – in che modalità solo il Parlamento può deciderlo – ammettere un alleggerimento della legge penale rispetto alla punizione dei fatti di aiuto al suicidio.

Saranno oggetto di attenzione le seguenti proposte di legge:

  • C. 2 p.d.l. di iniziativa popolare Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia;
  • C. 1586 p.d.l. di iniziativa del deputato Cecconi Modifiche alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di trattamenti sanitari e di eutanasia;
  • C. 1655 p.d.l. di iniziativa dei deputati Rostan et al. Introduzione degli articoli 4 bis e 4 ter della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di trattamenti di eutanasia;
  • C. 1875 p.d.l. di iniziativa dei deputati Sarli et al. Disposizioni in materia di suicidio medicalmente assistito e di trattamento eutanasico;
  • C. 1888 p.d.l. di iniziativa dei deputati Pagano Alessandro et al. Modifiche all’art. 580 del codice penale, in materia di aiuto al suicidio, e alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, riguardanti le disposizioni anticipate di trattamento e la prestazione di cure palliative.

 

  1. La valutazione delle p.d.l. rispetto alle condizioni psico-fisiche del malato, come indicate nell’ord. n. 207 della Corte Costituzionale

Un alleggerimento dello stigma penale nei confronti di chi si renda autore di un fatto qualificabile come aiuto al suicidio richiede anzitutto una serie di condizioni della vittima del fatto costituente reato, che si caratterizza, secondo la Corte Costituzionale, per quattro caratteri fondamentali:

  1. patologia irreversibile;
  2. sofferenza fisica/psicologica assolutamente intollerabile;
  3. tenuta in vita per mezzo di trattamenti di sostegno vitale;
  4. capacità di prendere decisioni libere e consapevoli (cfr. n. 8 del Considerato in diritto).

Dall’esame dei testi delle cinque p.d.l. si evince quanto segue:

La p.d.l. di cui all’A.C. 2 di iniziativa popolare prevede l’introduzione di una disciplina che non appare adeguata rispetto ai requisiti indicati dall’ord. n. 207. Nell’art. 3, lett. e) richiede, infatti, una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o, in alternativa, con prognosi infausta inferiore a 18 mesi. Si tratta di un requisito meno grave rispetto alla patologia irreversibile, cui si riferisce l’ord. 207, posto che la prognosi a 18 mesi può riguardare anche patologie che consentono ampio ricorso alla cura. Un tempo di 18 mesi è un tempo peraltro in cui possono essere introdotte nuove cure ovvero un tempo nel quale il paziente può manifestare una reazione diversa ad una cura già in atto. In secondo luogo la p.d.l. A.C. 2 non richiede, diversamente da quanto indicato nell’ord. 207, che il paziente sia sottoposto a trattamento di sostegno vitale.

La p.d.l. di cui all’A.C. 1586 (Cecconi) prevede di intervenire direttamente sulla L. 219/2017, introducendo un nuovo co. 5 bis all’art. 1. Le condizioni di salute che possono consentire l’accesso al trattamento eutanasico sono le «sofferenze fisiche o psichiche [che] siano insopportabili e irreversibili» o, in alternativa, l’esistenza di una «patologia caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione con prognosi infausta». Si tratta di condizioni che, rappresentando certamente un minus in gravità rispetto a quanto è richiesto dalla Corte Costituzionale, comportano con ogni evidenza un più ampio accesso all’eutanasia e dunque una diminuzione della tutela della vita. Si osservi come nella p.d.l. ora menzionata siano sufficienti per accedere al trattamento eutanasico anche solo condizioni di sofferenza psichica insopportabile e irreversibile.

La p.d.l. di cui all’A.C. 1655 (Rostan) prevede il requisito della «malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta a diciotto mesi». Anche in questo caso, si tratta di requisiti di minor gravità rispetto a quanto indicato nell’ord. n. 207 non solo perché la sofferenza grave richiesta nella p.d.l. in esame non è la sofferenza assolutamente intollerabile richiesta dalla Corte Costituzionale, ma soprattutto perché la Corte richiede che il malato sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, condizione non richiesta dalla p.d.l. A.C. 1655.

La p.d.l. di cui all’A.C. 1875 (Sarli) prevede sia l’introduzione del suicidio medicalmente assistito che del trattamento eutanasico (entrambi definiti all’art. 2). I requisiti inerenti alle condizioni del malato, previsti dall’art. 3 della p.d.l. da ultimo menzionata, realizzano uno standard di tutela inferiore rispetto a quanto previsto nell’ord. n. 207 perché se quest’ultima prevede, come si è detto, la patologia irreversibile e che siano in atto trattamenti di sostegno vitale, la p.d.l. in questione si limita a prevedere che il malato sia affetto da «una condizione clinica irreversibile, ovvero da una patologia a prognosi infausta che non sia di natura psichiatrica o psicologica». L’unico requisito previsto in termini corrispondenti è quello della gravità delle sofferenze che per la Corte Costituzionale devono essere «assolutamente intollerabili», per la p.d.l. A.C. 1875 «evidenti, insostenibili e irreversibili».

L’unica p.d.l. che effettivamente pare adeguata ai requisiti di gravità delle condizioni del malato richiesti dalla Corte Costituzionale è quella di cui all’A.C. 1888 (Pagano et al.). Infatti, ove tale p.d.l., all’art. 1, vorrebbe inserire una modifica all’art. 580 c.p. (nel senso, peraltro, di prevedere non una causa di esclusione della punibilità, bensì una circostanza attenuante se il fatto di aiuto al suicidio è commesso dal convivente), ricalca in modo fedele le indicazioni dell’ord. 207: è l’unica p.d.l. che richiede, oltre alla patologia irreversibile e alla sofferenza intollerabile, che sia in atto un trattamento di sostegno vitale.

 

  1. La valutazione delle p.d.l. rispetto alle indicazioni sulle cure palliative contenute nell’ord. n. 207 della Corte Costituzionale

Il secondo criterio di valutazione delle p.d.l. rispetto alle indicazioni contenute nell’ord. n. 207 riguarda se e in che modo tali proposte prevedano una disciplina che favorisca l’accesso alle cure palliative da parte dei malati inguaribili affetti da sofferenze non tollerabili. L’accesso alle cure palliative, infatti, costituisce un’efficace controspinta motivazionale rispetto alla formazione di una volontà eutanasica da parte del soggetto malato.

Si osservi che il concetto stesso di cura palliativa, nella definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è contraria sia all’abbreviazione che all’allungamento della fase terminale della vita. La cura palliativa è specificatamente volta a migliorare non solo la qualità della vita del paziente, ma anche quella della sua famiglia. La cura palliativa, ancora, come sempre si legge nella Defintition of Palliative Care della OMS, assume una finalità preventiva, non solo di affievolimento del dolore[2].

Secondo Corte Cost. ord. 207/2018 un pre-requisito della scelta di richiesta di aiuto al suicidio o di trattamento eutanasico è l’accesso a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua. Si legge nell’ord.:

«Dovrebbe essere valutata, infine, l’esigenza di adottare opportune cautele affinché – anche nell’applicazione pratica della futura disciplina – l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire, infatti, un pre-requisito della scelta in seguito di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (punto 10 del Considerato in diritto).

Ciò premesso, le p.d.l., con esclusione della p.d.l. A.C. 1888 (Pagano et al.), si presentano assai carenti sul punto. In particolare:

La p.d.l. A.C. 2 di iniziativa popolare non menziona le cure palliative, pur prevedendo all’art. 3, lett. f), che «il paziente [che chiede il trattamento eutanasico] sia stato congruamente e adeguatamente informato delle sue condizioni e di tutte le possibili alternative terapeutiche e prevedibili sviluppi clinici»; in termini simili, l’A.C. 1655 (Rostan et al.) si riferisce ad un analogo diritto del malato sancito dall’art. 1 p.d.l. che andrebbe a introdurre un nuovo art. 4 bis alla L. 219/2017 (v. in particolare art. 4 bis, 1° co., lett. d).

La p.d.l. A.C. 1586 (Cecconi), in modo più specifico rispetto alle due p.d.l. sopra menzionate, all’art. 1 propone di introdurre un co. 5 bis all’art. 1, L. 219/2017 che in effetti prevede il diritto ad essere informati sulla possibilità delle cure palliative; così pure fa la p.d.l. A.C. 1875 (Sarli et al.) che, all’art. 4, 3° co.

Il diritto all’informazione sulle cure palliative, tuttavia – sia esso espresso in modo generico o specifico – non ha il medesimo contenuto del diritto di “provare” la terapia palliativa in senso stretto. Si osservi come la Consulta non preveda un mero diritto di informazione, ma letteralmente un «coinvolgimento in un percorso di cure palliative», cioè la pratica di tali cure, come modalità volte a migliorare fattivamente la qualità della vita del paziente anche per verificare se l’affievolimento del dolore possa dargli la forza per affrontare ancora la malattia.

Stando all’ord. n. 207/2018, solo se anche le cure palliative non consentono il superamento della sofferenza intollerabile, laddove siano adempiute le volontà suicidarie del malato, si potranno prevedere forme di attenuazione della responsabilità per la pratica di aiuto al suicidio.

Sul tema delle cure palliative, la p.d.l. che meglio recepisce le indicazioni della Corte Cost. è l’A.C. 1888 (Pagano A. et al.). L’art. 5 della p.d.l., infatti, rubricato Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole delle cure e dignità nella fase finale della vita, facendo buona sintesi dei principi bioetici di beneficialità della cura e di autodeterminazione del paziente, propone di modificare l’art. 2, 1° co., 2° per. L. 219/2017.

Rispetto alla disciplina attuale dell’art. 2, 1° co., 2° per., L. 219 – che si limita a prevedere che «è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15.3.2010, n. 38» – la modifica proposta intende rendere effettivo il ricorso alle stesse, prevedendo non più una generica garanzia di accesso alla terapia del dolore, ma una «presa in carico del paziente da parte del Servizio sanitario nazionale per la prescrizione di un’appropriata terapia del dolore» che comprende anche le cure palliative.

Sul punto la p.d.l. Pagano et al. ha il merito di essere particolarmente attenta ai più recenti dati di studio che mettono in evidenza come l’accesso alle cure palliative si ponga ad oggi in Italia su standard inadeguati. È quanto ha rilevato anche l’Indagine conoscitiva sull’attuazione della legge 15 marzo 2010, n. 38, presentata dinnanzi alla Commissione Affari Sociali lo scorso 10 aprile 2019. I risultati di quell’indagine sono noti alla Commissione; basti qui dire che nelle conclusioni si legge che, benché l’Italia sia stato uno dei primi paesi a dotarsi di una disciplina specifica sull’accesso alle cure palliative e alla cura del dolore, «siamo in grande ritardo rispetto ad altri Paesi europei nella sua applicazione e, per quanto riguarda le cure palliative pediatriche (CPP), si calcola che solo il 10% dei circa 35.000 bambini italiani bisognosi di cure palliative riescono a trovare una risposta adeguata ai loro bisogni».

 

  1. La libertà di scienza/coscienza del sanitario

Un terzo punto di osservazione delle p.d.l. può essere quello delle previsioni che esse intendono introdurre circa l’obiezione di coscienza del medico.

A tal proposito si deve osservare che, in effetti, la Corte Costituzionale al punto 10 del Considerato in diritto suggerisce «la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura».

Raccolgono questa indicazione del Giudice delle leggi solo due proposte, l’A.C. 1888 (Pagano et al.) e l’A.C. 1875 (Sarli et al.).

Il diritto all’obiezione di coscienza nella p.d.l. A.C. 1875 non è, tuttavia, esente da rischi di un effettivo esercizio; infatti, prevede l’art. 6, 4° co. della p.d.l.: «Le strutture del Servizio sanitario nazionale, con le modalità previste dal regolamento di cui all’art. 8, sono tenute a garantire il rispetto della volontà manifestata ai sensi dell’articolo 3. Qualora tale diritto non sia garantito, la struttura del Servizio sanitario nazionale, ferme restando le conseguenze penali o civili, deve provvedere al risarcimento del danno morale e materiale provocato».

Questa previsione potrebbe comportare una limitazione indebita all’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale medico, essendo compatibile con procedure di selezione del personale che contemplino ad esempio come titolo preferenziale la disponibilità del candidato a praticare il suicidio assistito o il trattamento eutanasico. Se, infatti, l’amministrazione si impegna ad una prestazione di risultato, deve necessariamente anche fare in modo di disporre del personale che tale prestazione metta in atto. Una simile previsione contrasterebbe peraltro con la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Appare allora preferibile la disciplina dell’obiezione di coscienza contenuta nell’art. 3, p.d.l. A.C. 1888. L’istituto sarebbe disciplinato tramite una modifica sulla L. 219/2017 che opererebbe espressamente sull’art. 1, co. 6, 2° per. La modifica prevede che il medico e gli esercenti le professioni sanitarie possano presentare obiezione di coscienza limitatamente a quelle attività connesse all’attuazione della L. 219/2017, se a) la sottoposizione/il rifiuto al trattamento sanitario o b) il rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento contrasti i) con la deontologia professionale o ii) con le buone pratiche socio-assistenziali.

Occorre osservare come l’obiezione di coscienza prevista nella proposta A.C. 1888 trovi un limite nella deontologia professionale e nelle buone pratiche socio-assistenziali, comportando un esercizio del diritto di obiezione altamente responsabilizzante che certamente non si presterebbe a eventuali soluzioni “di comodo” da parte del sanitario.

 

  1. L’esclusione della punibilità per i delitti di cui agli artt. 575, 579, 580 e 593 c.p. per il sanitario che ha praticato il trattamento eutanasico: una soluzione normativa fondata su di un giudizio di minor valore della vita del malato irreversibile rispetto a quella degli altri consociati

Le p.d.l. A.C. 2 (art. 3), A.C. 1586 (art. 3), A.C. 1655 (art. 1) e A.C. 1875 (art. 7) prevedono l’introduzione di una causa di esclusione della punibilità rispetto ai delitti di omicidio volontario (art. 575 c.p.), omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), istigazione ed aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) ed omissione di soccorso (art. 593 c.p.) a favore del medico e del personale sanitario che abbia cooperato nell’atto di altrui suicidio e che abbia praticato il trattamento eutanasico. L’art. 7 della p.d.l. A.C. 1875 prevede altresì che tale causa di esclusione della punibilità operi a favore di «coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo il paziente nell’accesso alle predette procedure [di suicidio medicalmente assistito e di trattamento eutanasico]».

Ritiene chi parla che l’unica eventuale scelta di intervento sull’art. 580 c.p. debba limitarsi a prevedere – sempre che si ritenga necessario tale intervento – una graduazione della pena attraverso l’introduzione di una circostanza attenuante (per le ragioni di cui infra), ove sussistano le condizioni indicate dalla Corte Costituzionale, e non possa spingersi a prevedere una causa di esclusione della punibilità.

Occorre inoltre segnalare che, anche a optare – diversamente da quanto appena prospettato – per la via della esclusione della punibilità, tale soluzione  rispetto all’art. 575 c.p. (omicidio volontario) non ha alcuna ragione di essere perché porta ad una vera e propria immunità rispetto alla commissione di fatti che non presentano neppure più gli elementi costitutivi dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) né dell’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), ma, appunto, della più grave fattispecie di omicidio volontario.

A ben vedere, non ha neppure ragion d’essere l’esclusione di punibilità rispetto alle condotte di istigazione al suicidio fino ad oggi coperte dall’art. 580 c.p. E, infatti, anche ad ammettere che l’opzione della Corte Costituzionale sia nel senso dell’abolitio criminis – ribadito che una simile indicazione non vincolerebbe comunque il Parlamento, pena il venir meno del principio di divisione dei poteri – l’abolitio non riguarderebbe la fattispecie di istigazione al suicidio, ma solo quella di aiuto.

Ciò detto, non può non prendersi contezza che imboccare la strada della non punibilità per fatti anche solo di aiuto al suicidio segnerebbe una svolta senza ritorno nell’ordinamento italiano: posto che l’ordinamento tutela i beni più preziosi non solo sancendone l’inviolabilità, ma anche l’indisponibilità da parte del suo titolare e che la legge penale “parla” non solo agli operatori del diritto, ma a tutti i consociati dicendo, mediante la pena, quanto vale il bene offeso, l’eliminazione, seppur attraverso una scriminante procedurale, dello stigma impresso dalla sanzione criminale al fatto di cagionare la morte del malato irreversibile e gravemente sofferente che chiede di essere ucciso, non potrebbe non suonare alle orecchie di tutti e di ciascuno, del malato innanzitutto, come un giudizio per cui la vita del malato in tali condizioni vale meno di quella del sano. Ne discenderebbe una palese violazione di ogni più elementare principio non solo di eguaglianza, ma di civiltà giuridica.

Per questa ragione ritiene chi parla che, alla luce dei testi dei p.d.l. oggetto di analisi, l’unica via percorribile di riforma sull’art. 580 c.p. – se ritenuta necessaria – possa essere, come già si è detto, quella di introdurre una circostanza attenuante, idonea a graduare la pena, nel senso di diminuirla, se, sussistendo le quattro condizioni a) della malattia irreversibile, b) della sofferenza intollerabile del malato, c) della previa attivazione del trattamento di sostegno vitale, d) della richiesta di morire della persona capace di intendere e di volere, il fatto di agevolare l’altrui suicidio sia commesso da persona prossima alla vittima, nello stato di turbamento generato dall’altrui sofferenza.

Grazie per l’attenzione,

Roma, 25 giugno 2019

Carmelo Domenico Leotta

 

[1] «L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è in effetti funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio» (Corte Cost., ord. n. 207/2018, punto 6 del Considerato in diritto).

 

[2] Cfr. www.who.int/cancer/palliative/definition/en.

WHO Definition of Palliative Care

Palliative care is an approach that improves the quality of life of patients and their families facing the problem associated with life-threatening illness, through the prevention and relief of suffering by means of early identification and impeccable assessment and treatment of pain and other problems, physical, psychosocial and spiritual. Palliative care:

  • provides relief from pain and other distressing symptoms;
  • affirms life and regards dying as a normal process;
  • intends neither to hasten or postpone death;
  • integrates the psychological and spiritual aspects of patient care;
  • offers a support system to help patients live as actively as possible until death;
  • offers a support system to help the family cope during the patients illness and in their own bereavement;
  • uses a team approach to address the needs of patients and their families, including bereavement counselling, if indicated;
  • will enhance quality of life, and may also positively influence the course of illness;
  • is applicable early in the course of illness, in conjunction with other therapies that are intended to prolong life, such as chemotherapy or radiation therapy, and includes those investigations needed to better understand and manage distressing clinical complications.

WHO Definition of Palliative Care for Children

Palliative care for children represents a special, albeit closely related field to adult palliative care. WHO’s definition of palliative care appropriate for children and their families is as follows; the principles apply to other paediatric chronic disorders (WHO; 1998a):

  • Palliative care for children is the active total care of the child’s body, mind and spirit, and also involves giving support to the family.
  • It begins when illness is diagnosed, and continues regardless of whether or not a child receives treatment directed at the disease.
  • Health providers must evaluate and alleviate a child’s physical, psychological, and social distress.
  • Effective palliative care requires a broad multidisciplinary approach that includes the family and makes use of available community resources; it can be successfully implemented even if resources are limited.
  • It can be provided in tertiary care facilities, in community health centres and even in children’s homes.